- SENTENZA PRIMO GRADO PROCESSO OMICIDIO MATTARELLA
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- Omicidio di Piersanti Mattarella, Pietro Grasso: “La mafia chiese ad Andreotti di intervenire”
- Piersanti Mattarella venne ucciso il 6 gennaio del 1980. Pietro Grasso, che allora avviò le indagini: “c’è un blocco di potere politico economico mafioso che nasconde ancora tanti segreti”.
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- Pezzi mancanti di verità
Piersanti Mattarella (Castellammare del Golfo, 24 maggio 1935 – Palermo, 6 gennaio 1980) assassinato da Cosa nostra durante il mandato di presidente della Regione Siciliana.[1] Secondogenito di Bernardo Mattarella,[2] uomo politico della Democrazia Cristiana, e Maria Buccellato, ebbe come padrino di battesimo Pietro Mignosi, con cui il padre aveva un rapporto profondo.[2] Nel 1941 nacque il fratello minore Sergio; in seguito, il 3 febbraio 2015, divenuto Presidente della Repubblica. Crebbe con istruzione religiosa, studiando a Roma al San Leone Magno, dei Fratelli maristi. Dopo l’attività nell’Azione Cattolica (associazione in cui ricoprì anche incarichi nazionali[3]), si dedicò alla carriera politica nella Democrazia Cristiana avendo fra i suoi ispiratori Giorgio La Pira e avvicinandosi alla corrente politica di Aldo Moro. Divenne assistente ordinario di diritto privato all’Università di Palermo. Aveva due figli: Maria e Bernardo. Quest’ultimo è stato deputato all’Assemblea regionale siciliana nel corso della XIV e della XV legislatura: dal 2006 al 2012.[4] Nel novembre del 1964 si candida nella lista DC alle elezioni comunali di Palermo ottenendo più di undicimila preferenze (quarto dopo Salvo Lima, Vito Ciancimino e Giuseppe Cerami)[5] e divenendo consigliere comunale di Palermo nel pieno dello scandalo del Sacco di Palermo.
Deputato regionale Alle elezioni regionali del 1967 fu eletto deputato all’Assemblea regionale siciliana, nel collegio di Palermo con più di trentaquattromila preferenze, nonostante molti dubitassero delle sue possibilità visto che negli stessi anni il padre Bernardo stava venendo coinvolto in un acceso scontro giudiziario con il sociologo Danilo Dolci che lo aveva accusato di collusioni mafiose. Durante i quattro anni successivi fece parte della Commissione Legislativa regionale, della Giunta per il Regolamento e della Giunta per il Bilancio venendo nominato, cosa inusuale per un deputato di prima nomina, relatore della legge sul bilancio di previsione della regione per l’anno 1970. Fu inoltre membro della Commissione speciale incaricata di riformare la burocrazia regionale, divenendo relatore della legge di riforma.[5] Sulle pagine del giornale Sicilia Domani, nel giugno 1970, Piersanti denunciò diverse criticità dell’Assemblea regionale. Il primo punto riguardava le pratiche clientelari dei consiglieri regionali con una prassi che denominò “provincializzazione” dell’attività della Regione: i deputati regionali, troppo legati al territorio dove venivano eletti, risultavano incapaci di perseguire una linea politica organica per tutta la Sicilia in quanto troppo impegnati nel cercare di ottenere leggi e provvedimenti di spesa a favore dei propri collegi. A questo Mattarella cercava di porre rimedio proponendo una riforma elettorale con collegi più ampi di quelli provinciali. Il secondo punto critico riguardava l’eccessivo numero di incarichi in Assemblea e Giunta regionale che riducevano l’efficacia dell’azione di governo: per questo Mattarella proponeva una soluzione con il taglio degli assessorati da dodici ad otto e delle commissioni legislative da sette a cinque, chiedendo di prevedere per l’ufficio di presidenza la nomina di due soli vice, un segretario e un questore. Mattarella chiedeva inoltre l’introduzione di criteri di rotazione degli incarichi a cui fossero posti anche dei limiti temporali. Terzo punto debole della regione riguardava la scelta degli assessori regionali, al tempo eletti dall’ARS in una votazione differente da quella del presidente di Regione, generando così un sistema che favoriva gli accordi sottobanco. Per il politico di Castellamare occorreva dunque che fosse il presidente a nominare la giunta, così da poter attingere anche a esterni, lasciando all’Assemblea un unico voto di fiducia da dare a tutta la giunta.[5] In quegli stessi anni Piersanti Mattarella si fa largo nella DC provinciale e regionale, grazie al sostegno di Aldo Moro e della sua corrente, favorendo l’elezione di Giuseppe D’Angelo alla segreteria regionale del partito. L’azione moralizzatrice di D’Angelo farà approvare al congresso regionale due ordini del giorno: il primo in merito al contrasto degli esattori privati dei tributi pubblici (i potenti cugini Salvo in primis) e il secondo riguardante un impegno più duro contro la mafia.[5] Sempre in questo periodo Mattarella contribuisce a fondare l’Asael (Associazione siciliana amministratori enti locali). Mattarella verrà rieletto per due legislature (1971, con più di quarantamila preferenze, e 1976, con quasi sessantamila preferenze). Dal 1971 al 1978 è assessore regionale alla Presidenza con delega al Bilancio nelle diverse giunte presiedute da Mario Fasino, Vincenzo Giummarra e Angelo Bonfiglio. L’azione di Mattarella come assessore al Bilancio è subito incisiva: nel 1971 vengono approvati otto rendiconti arretrati e negli anni successivi presenta e fa votare entro i termini di legge i bilanci di previsione evitando la prassi consolidata del ricorso all’esercizio provvisorio. Nella primavera del 1975 su suo impulso viene approvato a larghissima maggioranza, con i voti del PCI, il Piano regionale d’interventi per gli anni 1975-1980 (legge regionale n. 18 del 12 maggio 1975), primo tentativo di programmazione a lungo termine delle risorse regionali.[6] Fu eletto dall’Ars presidente della Regione Siciliana il 9 febbraio 1978 con 77 voti su 100, il risultato più alto della storia dell’Assemblea,[7] alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano[8]. Il suo staff comprende, tra gli altri, Maria Grazia Trizzino come capo di gabinetto, prima donna a ricoprire questo incarico, Rino La Placa, capo della segreteria e futuro deputato regionale, e Leoluca Orlando, successivamente sindaco di Palermo, come consigliere giuridico. La presidenza di Mattarella si distingue per l’azione riformatrice portata avanti in regione.[7] All’inizio di aprile viene riformato il governo regionale accentuando la collegialità dell’azione della giunta dando la possibilità al presidente di avocare a sé decisioni spettanti ai singoli assessori e allargando le materie da sottoporre all’intero governo, razionalizzando le competenze degli assessorati, la previsione di tempi certi e rapidi per la pubblicazione degli atti approvati dall’Ars e nuovi criteri molto più severi per la nomina dei dirigenti pubblici. In ottobre viene creato il Comitato della programmazione, che unisce deputati regionali ed esperti della società civile, e rappresenta una nuova misura di razionalizzazione politico-amministrativa. Altri importanti risultati raggiunti in quell’anno furono il piano d’emergenza per la mobilitazione di risorse per l’occupazione, provvedimenti contro la disoccupazione, l’attuazione di un radicale decentramento a favore dei comuni, il piano di rifinanziamento degli asili nido e la legge sul settore agricolo e sui consultori familiari. Altri importanti provvedimenti furono la legge urbanistica (legge regionale n. 71 del 1978) che riduceva drasticamente gli indici di edificabilità dei terreni agricoli e portava sulle spalle dei costruttori alcuni degli oneri per le opere di urbanizzazione prima a carico degli enti pubblici rappresentando un duro colpo per speculatori e costruttori abusivi; e la legge sugli appalti che favoriva trasparenza e imparzialità nella pubblica amministrazione, riformando anche il sistema di collaudo delle opere pubbliche affidato precedentemente sempre alle solite persone. Sotto quest’ultimo aspetto Mattarella avvalendosi dei poteri ispettivi del presidente della regione ordina inchieste sui beneficiari dei contributi regionali, sugli assessorati e sui comuni più grandi portando alla luce illeciti e abusi. Nel 1979 dopo una breve crisi politica dovuta al Partito Comunista, formò un secondo governo.[9] Il programma di riforme continuò con l’attuazione del Piano di sviluppo per la Sicilia frutto del Comitato della programmazione, il nuovo piano di ammodernamento agricolo, l’istituzione delle unità sanitarie locali e una riforma degli enti economici siciliani (Esa, Ast, Crias, Ircac, Istituto Vitevino ed Eas) che introduceva criteri di efficienza e trasparenza oltre che norme che prevedono incompatibilità e limiti di durata degli incarichi dirigenziali. Il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella in visita a Catenanuova, accolto dal sindaco Mario Mazzaglia e dal vescovo di Nicosia Salvatore Di Salvo – 23 settembre 1979Poco dopo l’omicidio di Peppino Impastato, conduttore radiofonico candidato sindaco a Cinisi per Democrazia Proletaria, avvenuto per ordine di Tano Badalamenti, Mattarella si recò nella città per la campagna elettorale comunale pronunciando un durissimo discorso contro Cosa nostra che stupì gli stessi sostenitori di Impastato. Rappresentò una chiara scelta di campo il suo atteggiamento alla Conferenza regionale dell’agricoltura, tenuta a Villa Igiea la prima settimana di febbraio del 1979. Il deputato Pio La Torre, presente in quanto responsabile nazionale dell’ufficio agrario del Partito Comunista Italiano (sarebbe divenuto dopo qualche mese segretario regionale dello stesso partito) attaccò con furore l’Assessorato dell’agricoltura, denunciandolo come centro della corruzione regionale e additando lo stesso assessore come colluso con la delinquenza regionale. Mentre tutti attendevano che il presidente della Regione difendesse vigorosamente il proprio assessore, Giuseppe Aleppo, Mattarella riconobbe pienamente la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali. Sfidando il clima imposto, un solo periodico, Terra e Vita, pubblicò il resoconto, sottolineando come fosse generale lo sconcerto e come fosse comune la percezione che quel giorno, a Palermo, si fosse aperto un confronto che non avrebbe potuto non conoscere eventi drammatici. Un senatore comunista e il presidente democristiano della regione si erano, di fatto, esposti alle pesanti reazioni della mafia.[10] Il mese successivo comunque Mattarella confermò Aleppo alla guida dell’assessorato[11]. Il Procuratore Gian Carlo Caselli, in un’intervista a Repubblica del 12 agosto 1997, ha affermato: “Piersanti Mattarella un democristiano onesto e coraggioso ucciso proprio perché onesto e coraggioso”. Il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, nel libro Per non morire di mafia, ha scritto che Piersanti Mattarella «stava provando a realizzare un nuovo progetto politico-amministrativo, un’autentica rivoluzione. La sua politica di radicale moralizzazione della vita pubblica, secondo lo slogan che la Sicilia doveva mostrarsi ‘con le carte in regola’, aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti clamorosi, mai attuati nell’isola»[12]. Assassinio Sergio Mattarella, futuro Presidente della Repubblica, mentre sorregge il cadavere del fratello Piersanti, appena assassinato La mattina di domenica 6 gennaio 1980, in Via della Libertà a Palermo, non appena Mattarella entrò in una Fiat 132 insieme alla moglie, ai due figli e alla suocera per andare a messa, un sicario si avvicinò al finestrino e lo freddò a colpi di pistola. In seguito alla sua morte, il vice presidente, il socialista Gaetano Giuliano, guidò la giunta regionale fino al termine della legislatura, avvenuta cinque mesi dopo. Nel luogo dove è avvenuto l’omicidio è stata posta una targa in suo ricordo. Inizialmente fu considerato un attentato terroristico, poiché subito dopo il delitto arrivarono rivendicazioni da parte di un sedicente gruppo neofascista.[13] Pur nel disorientamento del momento, il delitto apparve anomalo per le sue modalità, portando il giorno stesso lo scrittore Leonardo Sciascia ad alludere a “confortevoli ipotesi” che avrebbero potuto ricondurre l’omicidio alla mafia siciliana.[14]
Il delitto Mattarella: non fu solo delitto di mafia Vincenzo Musacchio 5 Giugno 2021 ARTICOLO 21 Per Giovanni Falcone l’omicidio di Piersanti Mattarella fu commesso da neofascisti su input della mafia e per interessi politici. Dopo oltre quarant’anni purtroppo non sappiamo ancora chi ha sparato al presidente della Regione Sicilia. Abbiamo maturato nel tempo una nostra teoria, anche se di essa non abbiamo prove. È nostra opinione che lo stretto rapporto tra Aldo Moro e Piersanti Mattarella potrebbe essere un fattore scatenante da considerare nella ricostruzione di un omicidio così eccellente e perfetto nella sua esecuzione. Piersanti Mattarella era l’erede naturale di Aldo Moro. Avrebbe potuto portare a termine, dopo l’uccisione di Moro nel 1978, il suo progetto se non fosse intervenuta, anche per lui, la mano assassina a interromperne tale percorso. Moro nel quadro politico del partito dei cattolici italiani – la Democrazia Cristiana – fu da subito orientato in una direzione di reale lotta alla mafia. Il legame politico fra Moro e Mattarella divenne sempre più forte e irreversibile proprio su questo tema. Piersanti Mattarella cercò un confronto, serio e profondo con il PCI e con la “questione comunista”, soprattutto nella Sicilia dell’antimafia, quella di Pio La Torre e di tanti altri giovani comunisti apertamente schierati contro la criminalità organizzata. Costruire insieme al PCI un’antimafia politica in grado di essere autonoma e indipendente (anche in termini di voti in Parlamento) poteva rappresentare (e avrebbe rappresentato) una fase decisiva nella lotta alla mafia in Italia e in Sicilia. Mattarella vuole costruire con sempre maggior vigore e convinzione una nuova area politica dell’antimafia dei fatti e non più solo delle parole. Quando in un suo famoso discorso affermerà: “Occorre liberare la DC dall’arroganza o anche dalla semplice ansia del potere, ripristinando a pieno il nostro senso dello Stato, il rispetto della cosa pubblica” appare chiaro il suo intento politico. Mattarella diventa immediatamente l’«homo novus» della DC siciliana. Il giovane leader ha una visione moderna della politica regionale e delle sue istituzioni, coerente con un grande progetto nazionale e aperto al più vasto orizzonte europeo. Via il clientelismo e le mafie dalle istituzioni pubbliche. Una speranza e un messaggio straordinari ma al tempo stesso pericolosissimi sia per gli interessi della mafia, sia per la vecchia guardia democristiana con essa collusa. Con lui in vita, ci sarebbero stati tutti i presupposti per una rinascita di legalità nella Sicilia delle contiguità e delle complicità con la mafia. La mia teoria – che resta tale sia chiaro – è quella per cui proprio perché era così determinato nel suo progetto la sua eliminazione fu al centro di una convergenza d’interessi criminali e di natura politica e per questa fu barbaramente assassinato. Questa, ovviamente, è soltanto la mia modesta convinzione che – può sembrare apodittica – credo abbia tuttavia più di qualche fondamento logico e probabilmente è anche coerente con la realtà degli accadimenti di quel periodo storico. In questa chiave di lettura il delitto Mattarella segna la storia siciliana ma traccia anche quella italiana. È sicuramente una pesante sconfitta dello Stato. Falcone anni dopo dirà che in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. Proprio su questa frase connessa al delitto Mattarella una domanda è d’obbligo: perché dopo oltre quarant’anni ci sono ancora tante ombre, molte oscurità e parecchie complicità non ancora pienamente chiarite? Ai posteri l’ardua sentenza! – Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). E’ ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. E’ stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.
Omicidio Piersanti Mattarella, dopo 43 anni ancora troppe ombre: “Serve Commissione d’inchiesta”
E’ l’appello lanciato dal presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione del governatore, crivellato il 6 gennaio 1980 sotto la sua abitazione, davanti agli occhi della moglie Irma e dei due figli, Bernardo e Maria, mentre andava a messa il giorno dell’Epifania
L’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta che “faccia piena luce sulla stagione del terrorismo mafioso”, che vide tra le vittime pià illustri il presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella. “Una fase storica che inizia negli anni ’70 e si protrae fino al 1993”, nella quale, come evidenziato nell’ordinanza-sentenza emessa il 9 giugno 1991 dal giudice Gioacchino Natoli, “Palermo è stata l’unica città del mondo occidentale nella quale, nel breve volgere di pochi anni, sono stati assassinati i vertici più rappresentativi del potere statale e del sistema politico”. Un periodo che presenta “molti punti ancora da comprendere e da esplorare, che non possono essere ricostruiti soltanto con l’attività giudiziaria”.
E’ l’appello lanciato dal Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, alla vigilia del 43esimo anniversario dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione siciliana, ucciso il 6 gennaio 1980 sotto la sua abitazione, davanti agli occhi della moglie Irma e dei due figli, Bernardo e Maria, mentre andava a messa il giorno dell’Epifania.
“Il fatto di puntare anche sull’impegno di altre istituzioni, oltre a quelle giudiziarie, è anche una forma di rispetto e di impegno comune per questa esigenza di verità, che esprimono con grande coraggio i familiari delle vittime – dice Balsamo in una intervista all’Adnkronos – Per loro, credo che sia altrettanto importante quanto la celebrazione dei processi. Perché ci sono una serie di limiti nel processo penale, che invece non impediscono l’accertamento di una verità storica condivisa”.
La vicenda giudiziaria sull’omicidio Mattarella è stata lunga e complessa. E non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della commissione di Cosa nostra, da Totò Riina a Michele Greco, con gli altri esponenti della cupola, da Bernardo Provenzano a Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci. L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari né i presunti mandanti esterni. Nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio. Nuovi accertamenti attraverso complesse comparazioni fra reperti balistici. Uno dei reperti del processo celebrato a Palermo, la targa di un’auto del commando, sarebbe stata divisa in due dagli autori del furto e una parte fu poi ritrovata in un covo proprio dell’organizzazione terroristica neofascista dei Nar. Oggi l’inchiesta, ancora a un punto fermo, è coordinata dal neo Procuratore Maurizio de Lucia e dall’aggiunta Marzia Sabella.
“Ricostruire fatti complessi con l’aiuto delle istituzioni”
“Io spero che ci possa essere, in questa legislatura, l’istituzione di una Commissione di inchiesta perché questo metodo può essere importante per far luce su tutti quegli aspetti ancora oscuri sulla nostra storia recente – dice Antonio Balsamo, che è stato il giudice estensore della sentenza del processo sulla strage di via D’Amelio – E’ un esempio di grande significato che il nostro paese potrebbe dare: l’Italia potrebbe diventare il luogo simbolo della capacità di affermare il diritto alla verità che spetta non solo ai familiari delle vittime ma a tutta la collettività”. “L’Italia – spiega il magistrato con un passato all’Onu di Vienna – con una Commissione di inchiesta, che ha la capacità di ricostruire fatti complessi con l’aiuto di tutte le istituzioni che possono dare un contributo, potrebbe diventare luogo di realizzazione di quel diritto alla verità che è stato riconosciuto dalle Corti internazionali, e in particolare dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.
“Questo tipo di lavoro – dice ancora il Presidente del Tribunale – può essere fondamentale per fare piena luce anche laddove non è più possibile celebrare un processo penale. C’è una verità storica che può essere raggiunta con l’impegno di tutte le istituzioni. Sarebbe importante che ora venisse dato questo segnale. E’ un tema fortemente sentito in molti Stati in cui c’è stata una strategia terroristica da parte di organizzazioni criminali che si è protratta per anni. Si è cercato di costruire così un percorso di piena affermazione della democrazia”.
E ricorda che “su fatti come le stragi di Via D’Amelio e di Capaci negli ultimi anni sono venute alla luce prove importantissime che consentono di capire il contesto in cui si sono collocati questi eventi drammatici”. Parla, quindi, della “sentenza della Corte d’Assise di Bologna”, in cui i giudici, motivando la condanna all’ergastolo dell’ex componente dei Nar Gilberto Cavallini per la bomba alla stazione del 2 agosto 1980, condividono le iniziali intuizioni di Giovanni Falcone, poi abbandonate durante i giudizi di primo e secondo grado che affermarono la responsabilità esclusiva di Cosa nostra nel delitto Mattarella e condannarono un pezzo della Cupola senza mai individuare i killer del presidente della Regione siciliana, assassinato a Palermo il 6 gennaio 1980. “Un lavoro di grandissimo rilievo di raccolta di nuove prove e rilettura di un insieme di fatti con un’autentica coscienza storica. Insomma, potrebbe essere un impegno comune di tutte le istituzioni”, spiega Balsamo.
“Nei processi penali ci sono dei limiti”
Perché, ribadisce Antonio Balsamo, nei processi penali ci sono dei “limiti” che per il Presidente del Tribunale sono “legati, ad esempio, al fatto che molti dei protagonisti della stagione di cui stiamo parlando potrebbero non essere più in vita. Invece, l’attività di una Commissione parlamentare di inchiesta può fare luce sulla strategia criminale che cercato di condizionare il corso degli eventi colpendo persone che hanno segnato la storia della Sicilia e dell’Italia, e tra queste c’è sicuramente Piersanti Mattarella. Si tratta, innanzitutto, di una persona che nel suo periodo di presidenza della Regione ha cambiato profondamente la considerazione della Sicilia nel contesto nazionale e internazionale”.
“La sua attività politica, condotta con altissimo rigore morale – spiega Balsamo – si colloca in una fase drammatica della nostra storia, nella quale la Sicilia è divenuta il crocevia del traffico internazionale di sostanze stupefacenti. E’ anche la fase in cui con questa attività illecita si accumulano enormi profitti, che diventano la base su cui viene costruito un rapporto nuovo tra mondo economico e mondo criminale. E’ una fase in cui si esprimono le peggiori potenzialità del fenomeno mafioso”.
“In questa fase c’è, invece, una persona che non solo opera in controtendenza rispetto a questa inquietante involuzione, ma riesce a diventare un grande punto di riferimento per tutta la realtà sociale e istituzionale, e un interlocutore fondamentale per alcuni dei più importanti leader politici nazionali ed europei – racconta ancora Antonio Balsamo nell’intervista – Perché Piersanti Mattarella, proprio in quel periodo, mette in pratica un progetto di profondo rinnovamento, che si riassume nella frase sulla Regione ‘con le carte in regola’ e che mira ad unire la trasparenza dell’azione amministrativa con una serie completa di riforme. E con un atteggiamento di intransigenza nei confronti di ogni possibile infiltrazione criminale. Ecco, questo suo modo di agire, per la prima volta, fa cambiare la considerazione della Sicilia nel contesto nazionale e internazionale”.
Prima dell’uccisione ci furono diverse visite
E ricorda una “serie di visite” in Sicilia che “vengono effettuate tra il settembre e il novembre del 1979 e che sono di grande significato. La prima è quella dell’allora Presidente della Commissione europea, Roy Jenkins, che viene a Palermo nel settembre del 1979. La seconda è la visita del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che fa una serie di tre giorni di incontri, anche presso l’Ars, nel novembre 1979. In questa ultima occasione c’è una espressione usata da Piersanti Mattarella che descrive benissimo le motivazioni di tante persone, le motivazioni migliori dei siciliani per portare avanti il rinnovamento”. “E’ una frase che io considero una bandiera per tutti noi. In sostanza dice: ‘La Sicilia è una terra ancora divisa tra rinnovamento e conservazione, che ha in sé una fortissima carica civile, un potenziale umano ricchissimo, efficaci strumenti giuridico-politici per il proprio riscatto’. Credo che non si potrebbe descrivere meglio quello che può significare oggi la Sicilia per gli altri Paesi. In realtà, l’attività di Piersanti Mattarella si può apprezzare sotto due profili: ciò che ha prodotto nell’immediatezza e i suoi effetti a lungo termine”.
“Nell’immediatezza l’impegno di Piersanti Mattarella non solo rappresenta un baluardo contro l’attività di una Cosa nostra sempre più internazionalizzata, ma spinge anche all’impegno politico e civile tutta una generazione di siciliani. Crea quel clima che conduce molte persone a impegnarsi nel campo della politica e della giustizia con la convinzione di dare il meglio di sé e di essere tra i protagonisti di una svolta storica. Sono convinto che tra le motivazioni forti che nascono in una generazione di siciliani c’è proprio questo grande messaggio lasciato da Piersanti Mattarella, che fa vedere ai giovani la politica come una attività nobile da svolgere al servizio della collettività, come una precisa ragione di impegno per tutti. Una visione analoga a quella espressa da Sandro Pertini sul piano nazionale”, spiega ancora Antonio Balsamo. “Questo è l’effetto che si produce nell’immediatezza, la visione di una Sicilia credibile nel contesto nazionale e internazionale, in cui i siciliani vogliono essere protagonisti della propria storia”, dice.
E parla di “una svolta” vera e propria che si realizza proprio nel 1980, “quando il giudice Rocco Chinnici assegna a Giovanni Falcone la trattazione del processo Spatola”, cioè quella fase in cui “si annuncia l’attacco allo Stato di Cosa nostra, attraverso una serie di delitti gravissimi, come l’omicidio di Cesare Terranova. Per me è particolarmente significativo che, proprio mentre c’è l’inizio di questo attacco allo Stato, e molti esponenti delle istituzioni non si oppongono alla mafia per paura o per convenienza, Piersanti Mattarella esprima un’altra idea della responsabilità individuale e del rapporto con lo Stato, quella per cui ognuno deve impegnarsi facendo il proprio dovere, costi quel che costi: un modo di pensare che si ritrova in una frase attribuita a John Kennedy che Giovanni Falcone citava spesso”.
“Il Capo dello Stato ha raccolto l’eredità ideale del fratello ucciso”
Poi, c’è anche “un effetto molto più di lungo periodo” dell’esperienza umana e politica di Piersanti Mattarella. Una cultura, una visione che ha trovato espressione in due discorsi molti belli dal Presidente Sergio Mattarella che ha raccolto l’eredità ideale del fratello Piersanti – dice Balsamo – Il primo discorso è stato quello pronunciato il 31 dicembre 2019, quando il Presidente invita gli italiani a guardare l’Italia ‘dal di fuori, allargando lo sguardo oltre il consueto. In fondo, un po’ come ci vedono dall’estero’. Non si potrebbe esprimere meglio la visione di Piersanti Mattarella quando parlava di una Sicilia con le carte in regola”. “Subito dopo il Capo dello Stato parla del nostro ‘Paese, proteso nel Mediterraneo e posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti’, spiegando che ‘questa condizione ha contribuito a costruire la nostra identità, sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità’. È questa la concezione di cui era portatore Piersanti Mattarella. E poi c’è il discorso di fine anno appena fatto dal Capo dello Stato, quello in cui dice: ‘Dobbiamo imparare a leggere il presente con gli occhi di domani’. A mio avviso, se si dovesse riassumere il significato dell’esperienza politica di Piersanti Mattarella in una sola frase, sarebbe questa: una persona che ha saputo guardare al presente con gli occhi del futuro. C’è una eredità ideale che si è protratta nel tempo e che è entrata a far parte dell’identità più autentica del nostro Paese. Proprio perché si trattava di un fattore di rinnovamento con potenzialità straordinarie”.
Il delitto del 6 gennaio 1980 può essere ricondotto a una pluralità di letture. “Quando, ad esempio, durante l’omelia, il vescovo Pappalardo parla dell’omicidio di Piersanti Mattarella spiega subito una cosa: ed è l’impossibilità che il delitto venga ascritto solo alla matrice mafiosa, perché ‘ci devono essere altre forze occulte’. Due giorni dopo il delitto, l’8 gennaio 1980, l’allora Ministro dell’interno, Virginio Rognoni, parla di una ‘complicità operativa tra criminalità organizzata e terrorismo’. La stessa visione viene espressa nel dibattito successivo da Pio La Torre. In effetti questa impostazione è quella seguita da Giovanni Falcone, che conduce la sua ultima indagine importante proprio sull’omicidio Mattarella e sugli altri delitti politici. Dice che si tratta di delitti di matrice mafiosa ma il movente non è sicuramente o esclusivamente mafioso. Quindi, parla di saldature che implicano la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese. Questa visione storica profonda è la stessa che viene espressa nella sentenza del Maxiprocesso, in cui si parla di un disegno terroristico eversivo in cui si collocano anche l’omicidio del Procuratore Pietro Scaglione, le bombe collocate dal boss Francesco Madonia in vari uffici pubblici nella notte del 31 dicembre 1970, l’attentato contro l’on. Angelo Nicosia e la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Tutti fatti per i quali manca un accertamento processuale che abbia potuto fare piena luce. Per gli omicidi di Scaglione e De Mauro manca tuttora una ricostruzione processuale che abbia portato alla condanna dei responsabili. Si tratta però di fatti che restano di estrema importanza per capire la nostra storia e per costruire il nostro futuro”.
“La stessa sentenza, nel tracciare questo scenario, parla di una convergenza di interessi tra le finalità terroristico-intimidatrici dell’organizzazione mafiosa e gli interessi connessi alla gestione della cosa pubblica. Sicuramente questa prospettiva ha una sua forte plausibilità. Anche nella ricostruzione che viene fatta dal giudice istruttore Gioacchino Natoli, a proposito dei delitti politico-mafiosi, si sottolinea l’oggettiva convergenza di interessi tra realtà apparentemente diverse tra loro”.
“L’omicidio prova una serie di effetti impressionanti”
“Del resto, l’omicidio di Piersanti Mattarella provoca una serie di effetti impressionanti – dice Balsamo – Sul piano locale c’è un fatto che davvero colpisce. Riguarda l’ispezione da lui avviata per fare luce sugli appalti riguardanti sei edifici scolastici, che erano stati assegnati a costruttori strettamente legati a esponenti di vertice di Cosa nostra Cosa; non a caso Riina concluderà la sua latitanza mentre era ospitato in una villa messagli a disposizione da uno di questi soggetti. Proprio in questo contesto, Piersanti Mattarella si rende conto benissimo di quello che sta capitando e ordina una ispezione su questi appalti, che viene affidata a un funzionario particolarmente impegnato, il dottor Mignosi. Il momento in cui questa ispezione viene condotta è lo stesso momento in cui viene preparato l’omicidio del Presidente della Regione. Il Comune di Palermo, subito dopo l’omicidio, si sente libero di manifestare la propria insofferenza ai controlli per ristabilire la legalità. Respinge così i rilievi scaturiti dall’ispezione. Questo avviene a due giorni di distanza dall’omicidio, cioè l’8 gennaio, nello stesso giorno in cui Rognoni effettua quell’intervento alla Camera. Sul piano nazionale, poi, c’è un effetto molto più rilevante. Cioè cambia la linea politica del principale partito di governo, la Dc”.
Balsamo poi aggiunge: “Prima del 6 gennaio 1980 era diffusa la previsione che Piersanti Mattarella sarebbe stato nominato Vicesegretario nazionale della Dc, il cui Congresso, fissato per il mese di febbraio, si sarebbe concluso con una maggioranza tra centro e sinistra. Il congresso invece si concluse in modo diametralmente opposto, con una completa sconfitta della Sinistra. E’ evidente la complessità dello scenario in cui si collocava il barbaro assassinio del presidente della Regione siciliana. Una ricostruzione riduttiva delle causali del delitto sarebbe vistosamente contrastante con la statura politica effettivamente assunta da Piersanti Mattarella – considerato dai più autorevoli protagonisti della vita pubblica dell’epoca come l’erede di Aldo Moro – e con il significato storico della sua azione all’interno e all’esterno delle istituzioni”. PALERMO TODAY 6.1.2023
Nuova pista su omicidio Mattarella e Reina: unico killer I magistrati della procura di Palermo hanno riaperto il fascicolo sul delitto del segretario provinciale della Democrazia Cristiana, Michele Reina, ucciso il 26 marzo 1979, in quanto sarebbe emerso che i killer avrebbero utilizzato la stessa arma sia per Reina e un anno dopo anche per il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella. L’arma in questione è una calibro “38” che sarebbe stata utilizzata da quei sicari ancora oggi a volto coperto. A riportare la notizia sono le pagine palermitane de “La Repubblica”.
I magistrati palermitani, guidati dal procuratore capo Francesco Lo Voi, già nei mesi scorsi avevano riaperto l’indagine riguardo l’omicidio Mattarella, visto che avevano chiesto agli specialisti del Ros e del Racis dei carabinieri di mettere a confronto una delle pistole utilizzate dal killer neofascista Gilberto Cavallini per uccidere il magistrato Mario Amato (a Roma, il 23 giugno 1980) con i proiettili sparati il giorno dell’Epifania a Palermo. Allo stato, però, non è possibile dire che Mattarella e il giudice antiterrorismo siano stati assassinati con la stessa pistola. Ma comunque la procura vorrebbe tentare altri esami, anche se i proiettili si sono ossidati.
Ad accomunare i due delitti, secondo le pochissime testimonianze, sarebbe quella strada di cambiamento intrapresa sia da Reina che Mattarella verso l’apertura ai Comunisti. Le due piste seguite per la nuova indagine sono quelle che vanno dalla matrice mafiosa ai suoi legami con il terrorismo nero. Per il delitto Mattarella, Cavallini e il suo compagno dei Nar Valerio Fioravanti sono stati comunque assolti definitivamente e quindi non potrebbero essere giudicati un’altra volta. Mentre per l’omicidio Reina, la posizione dei due è stata archiviata e quindi in qualsiasi momento, se verranno fuori altri elementi, potrebbero portare alla riapertura del capo d’accusa.
Nell’inchiesta che percorre una strada molto tortuosa piena di ombre e misteri, ci sono stati anche smarrimenti come il guanto sequestrato dalla Scientifica nell’auto dei killer, il 6 gennaio di 40 anni fa. Oltre a questo, non si trovano più due spezzoni di targhe sequestrate nel 1982 in un nascondiglio degli estremisti di destra a Torino: avevano gli stessi numeri, ma composti in modo differente, rimasti ai killer di Piersanti Mattarella, che avevano utilizzato delle targhe rubate per camuffare la 127 del delitto. A quel tempo gli spezzoni di targhe erano arrivati a Palermo, ma le comparazioni avevano smentito l’iniziale ipotesi. All’epoca rimase solo il racconto di Cristiano Fioravanti, che sosteneva di aver sentito il fratello parlare del caso Mattarella. Antimafia 2000 4.1.2020
Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria[15] sui “delitti politici” siciliani (le uccisioni di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, dello stesso Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo) che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone[16]. Questi, che la sottoscrisse nella qualità di procuratore aggiunto, puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estrema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra.[17] Nell’ipotesi accusatoria di Falcone e della Procura della Repubblica Fioravanti, di cui risultava accertata la presenza a Palermo nei giorni del delitto, avrebbe goduto dell’appoggio di esponenti dell’estrema destra palermitana quali Francesco Mangiameli, dirigente siciliano di Terza posizione poi ucciso dallo stesso Fioravanti il 9 settembre del 1980, e Gabriele De Francisci, militante del FUAN, che avrebbe messo a disposizione un appartamento nei pressi dell’abitazione della vittima. Furono rinviati a giudizio anche i falsi pentiti Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo, accusati di calunnia: infatti Pellegriti, interrogato da Falcone, dichiarò di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo dell’onorevole Salvo Lima negli omicidi Mattarella e La Torre, circostanza confermata dal compagno di cella Angelo Izzo, pluriomicida ed ex militante di estrema destra; dopo due mesi di indagini, Falcone lo incriminò insieme ad Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse[13].
Solo dopo la morte di Falcone nella strage di Capaci, l’uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo.[18] In particolare Buscetta e Marino Mannoia resero nuove dichiarazioni perché avevano deciso di rompere il silenzio sui rapporti tra mafia e politica che avevano mantenuto negli interrogatorii con il giudice Falcone[19]. Nel 1993 infatti Buscetta dichiarò in un nuovo interrogatorio che «Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina (o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare) che non si doveva ammazzarlo […] In ogni caso […] fu certamente un omicidio voluto dalla “Commissione”».[20] Lo stesso Buscetta, sentito dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 12 novembre 1992, affermò: «Le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c’entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non avevano bisogno di due fascisti. La Cosa nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della Regione. È un controsenso».[21]
A ordinare la sua uccisione fu Cosa nostra perché Mattarella voleva portare avanti un’opera di modernizzazione dell’amministrazione regionale e per questo aveva incominciato a contrastare l’ex sindaco Vito Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi;[22] Ciancimino infatti era il referente politico dei Corleonesi.[23] Per queste ragioni, alla fine del 1979 Mattarella aveva deciso di chiedere al segretario nazionale del partito, Benigno Zaccagnini, il commissariamento del Comitato Provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, perché aveva visto «ritornare con forte influenza Ciancimino», il quale aveva siglato un patto di collaborazione con la corrente andreottiana, in particolare con l’onorevole Salvo Lima.[24]
Francesco Cossiga ha sostenuto che la mafia volle la morte di Piersanti Mattarella perché questi non era disponibile a concederle contropartite per quell’appoggio elettorale che essa aveva concesso alla DC proprio su richiesta del padre della vittima, Bernardo; questi infatti, grazie alla moglie “appartenente a famiglia non mafiosa ma rispettata dalla mafia”, aveva potuto avvicinare Cosa Nostra nel Trapanese e dissuaderla dal votare per le sinistre.[25].
L’agente segreto francese Pierre de Villemarest, appaiandosi alle ricordate impressioni di Sciascia, ha suggerito che mafia e P2, quest’ultima presumibilmente tramite l’eversione di destra, abbiano collaborato sin dal 1970 per sorvegliare e poi uccidere Mattarella per conto del KGB, in quanto il politico siciliano sosteneva il compromesso storico per snaturare il PCI e sottrarlo all’influenza sovietica.[26]
Giovanni Falcone, che nel 1988 ricopriva il ruolo di giudice istruttore, dichiarò: “È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la pista nera sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa” come è emerso dalla pubblicazione dell’audio integrale dell’audizione tenutasi in data 3 novembre 1988 davanti alla commissione dell’epoca.[27]
Il processo Nel 1995 vennero condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci[28] come mandanti dell’omicidio Mattarella, mentre furono assolti i terroristi neri Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini dall’accusa di essere gli esecutori materiali; furono invece condannati a quattro anni ciascuno di reclusione per calunnia i falsi pentiti Izzo e Pellegriti[22]. Durante il processo, la moglie di Mattarella, testimone oculare, dichiarò inoltre di riconoscere l’esecutore materiale dell’omicidio nella persona di Giuseppe Valerio Fioravanti,[29] ma la testimonianza della signora Mattarella e le altre testimonianze contro di lui (quella del fratello Cristiano Fioravanti[30] e di Angelo Izzo) non furono ritenute abbastanza attendibili.[29][31][32] Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati con certezza, anche se il pentito Francesco Marino Mannoia sostenne che a uccidere Mattarella furono Salvatore Federico, Francesco Davì, Santo Inzerillo e Antonino Rotolo.
Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, oggetto di diverse valutazioni nel corso del processo Andreotti perché ritenuto in primo grado non attendibile ma in secondo grado – confermato dalla Cassazione – attendibile[33], Giulio Andreotti era consapevole dell’insofferenza di Cosa Nostra per la condotta di Mattarella, ma non avvertì né l’interessato né la magistratura,[34] pur avendo partecipato ad almeno due incontri con capi mafiosi aventi ad oggetto proprio le azioni politiche di Piersanti Mattarella. Mannoia dichiarò :
«Attraverso Lima del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche Giulio Andreotti, che scese a Palermo e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, Lima, Nicoletti, Fiore Gaetano e altri. Ho appreso di questo incontro dallo stesso Bontate Stefano, il quale me ne parlò poco tempo dopo, in periodo tra la primavera e l’estate 1979… Egli mi disse solo che tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: “Staremo a vedere”. Alcuni mesi dopo fu deciso l’omicidio Mattarella[35]»
In seguito, al termine di un lungo iter giudiziario terminato nel 2004, venne emessa una sentenza per cui all’epoca (più precisamente fino alla primavera del 1980) Giulio Andreotti aveva rapporti stabili con la mafia.[36] L’omicidio Mattarella è in effetti un punto critico del processo Andreotti. I due presunti incontri tra il Presidente democristiano e Bontate sarebbero avvenuti solo per i problemi creati alla mafia dal segretario della DC siciliana. Di quello summenzionato Mannoia ha dato una testimonianza di seconda mano ma ha indicato la data, mentre di uno successivo al delitto, in cui si sarebbe consumata la rottura tra Andreotti e la Cupola, Mannoia sarebbe stato testimone oculare ma non sapeva dare indicazione temporale. Per questo la difesa di Andreotti poté per il primo incontro dimostrare che il suo assistito era altrove e per il secondo no. Il primo grado di giudizio ritenne insufficiente la testimonianza di Mannoia e decisiva la smentita della difesa, onde dedurre che nessuno dei due incontri fosse mai accaduto. Il secondo grado capovolse la sentenza ritenendo Mannoia credibile e affermando che egli aveva solo ricordato una data sbagliata, per cui considerò i due meeting realmente avvenuti. La Cassazione confermò questa sentenza non avendo essa difetti formali da correggere.[37][38][39] Nella sentenza della Corte di Assise del 12 aprile 1995 n. 9/95, che ha giudicato gli imputati per l’assassinio di Piersanti Mattarella, è scritto che «l’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti interessi» e si aggiunge che da anni aveva «caratterizzato in modo non equivoco la sua azione per una Sicilia con le carte in regola». Nel 2018 quotidiani nazionali hanno diffuso la notizia di una riapertura delle indagini sull’omicidio, anche con riferimento ai rapporti tra Cosa nostra palermitana e l’eversione del terrorismo di destra: l’indagine della Procura di Palermo è affidata al Procuratore Francesco Lo Voi, all’Aggiunto Salvatore De Luca e al Sostituto Roberto Tartaglia.
Andreotti sapeva, ma restò in silenzio Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, Giulio Andreotti era consapevole dell’insofferenza di Cosa Nostra per la condotta di Mattarella, ma non avvertì né l’interessato né la magistratura.
Dichiarò Mannoia: «La ragione di questo delitto risiede nel fatto che Mattarella Piersanti, dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i Salvo e Bontate Stefano, ai quali non lesinava i favori, aveva mutato la linea di condotta. Egli entrando in violento contrasto, ad esempio con il deputato Rosario Nicoletti, voleva rompere con la mafia, dare “uno schiaffo” a tutte le amicizie mafiose… Rosario Nicoletti riferì a Bontate. Attraverso Lima del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche Giulio Andreotti, che scese a Palermo e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, Lima, Nicoletti, Fiore Gaetano e altri. Ho appreso di questo incontro dallo stesso Bontate Stefano, il quale me ne parlò poco tempo dopo, in periodo tra la primavera e l’estate 1979… Egli mi disse solo che tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: “Staremo a vedere”. Alcuni mesi dopo fu deciso l’omicidio Mattarella.»
La testimonianza di Mannoia fu giudicata attendibile dagli inquirenti e gli incontri tra Andreotti e i boss mafiosi al fine di discutere il delitto Mattarella sono trattati nella Sentenza Corte di Appello di Palermo 2 maggio 2003. In particolare, nelle conclusioni si legge:
«Del resto, ad ultimativo conforto dell’assunto, basta considerare proprio la, assolutamente indicativa, vicenda che ruota attorno all’assassinio dell’on. Piersanti Mattarella. Anche ammettendo la prospettata possibilità che l’imputato sia personalmente intervenuto allo scopo di evitare una soluzione cruenta della questione Mattarella, alla quale era certamente e nettamente contrario, appare alla Corte evidente che egli nell’occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del Presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali. A seguito del tragico epilogo della vicenda, poi, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è “sceso” in Sicilia per chiedere al boss Stefano Bontate conto della scelta di sopprimere il Presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e, come già si è evidenziato, non può che leggersi come espressione dell’intento (fallito per le ragioni già esposte in altra parte della sentenza) di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sull’azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse.»
In particolare, fu proprio nell’incontro con Bontate in cui Andreotti chiese spiegazioni dell’improvvisa accelerazione sul caso Mattarella che venne pronunciata dal boss la famosa frase: “In Sicilia comandiamo noi e se non volete cancellare completamente la DC, dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del Nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi.“ WIKIMAFIA
PARLA IL PENTITO MANNOIA ‘ ANDREOTTI INCONTRO’ I BOSS’ Michele Reina fu ucciso per dare un segnale alla Dc; Mattarella perchè non voleva più avere rapporti con Cosa Nostra; Pio La Torre perchè era uno che, “con la sua attività politica, rompeva”. Sono questi i motivi degli omicidi eccellenti compiuti in Sicilia tra il ‘ 79 e l’ ‘ 82, secondo quanto ha riferito ieri, di fronte al tribunale di Palermo, il pentito Francesco Marino Mannoia, nel corso dell’ udienza, nell’ aula bunker di Rebibbia a Roma, del processo per i delitti politici. Mannoia ha ripetuto il racconto delle due visite di Andreotti in Sicilia. “Stefano Bontade mi disse che nel 1979, dopo l’ omicidio di Reina, ci fu una riunione in una tenuta di caccia, alla quale parteciparono Bontade e Giulio Andreotti. In quell’ occasione quest’ ultimo disse al politico democristiano di stare attenti, perchè in Sicilia comanda Cosa Nostra, che controlla i voti, gli affari e gli appalti. Bontade si lamentò del comportamento di Mattarella con lo stesso Andreotti. Andreotti incontrò per la seconda volta Bontade dopo l’ omicidio di Mattarella. Bontade mi disse che Andreotti era sceso per scusarsi e per capire”. Sull’ uccisione di Pio La Torre e del suo autista Di Salvo, Mannoia ha detto: “Mi trovavo all’ Ucciardone, e opinione comune fu che l’ uomo politico fosse stato ucciso per la sua nota attività contro le cosche mafiose. Ci stupimmo della decisione di ucciderlo perchè era una cosa che non avrebbe pagato. E’ per questo che qualcuno pensò anche che c’ erano dei motivi a noi sconosciuti”. Nel corso del suo racconto, il pentito ha confermato quanto aveva detto nell’ interrogatorio svoltosi nell’ aprile del ‘ 93 negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’ omicidio di Michele Reina, avvenuto a Palermo nel marzo del ‘ 79, Mannoia – puntualizzando che tutto quello che sa sugli omicidi politici gli era stato riferito da Stefano Bontade – ha detto che si è trattato di un segnale alla Democrazia Cristiana, per ribadire che in Sicilia comandava Cosa Nostra, che doveva decidere sugli appalti, sugli affari e sui voti. “Reina comunque”, ha aggiunto, “non era una persona limpida, era molto chiacchierata. E forse il motivo della sua eliminazione è da ricercare in contrasti per quanto riguarda affari in comune con esponenti di Cosa Nostra”. Mannoia ha quindi risposto ai giudici sull’ omicidio di Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980. “Mattarella faceva dei favori a Bontade, a Riina e ad altri esponenti di Cosa Nostra poi ha manifestato l’ intenzione di troncare questi rapporti”. Mattarella era legato a Nicoletti, ha spiegato Mannoia, il quale a sua volta era strettamente legato ai Salvo e a Lima. “Bontade mi disse che Nicoletti gli aveva riferito che Mattarella non voleva più saperne di Cosa Nostra”. La Commissione decise quindi all’ unanimità di uccidere Mattarella. “Non so chi materialmente sparò”, ha precisato il pentito, “so solo che nella macchina era presente Salvatore Federico. Escludo pienamente la partecipazione all’ omicidio, di Fioravanti e Cavallini”. Prima del suo interrogatorio, Francesco Marino Mannoia ha voluto spiegare perchè ora riferisce quello che sa sui delitti politici, mentre in un primo momento si era rifiutato di farlo. “Quando ho deciso di collaborare”, ha detto, “non c’ era la legge sui pentiti, la situazione per noi era buia, la mia intenzione era di uscire dalla mafia, acquistare dignità e immagine. Ma ero anche convinto che all’ epoca c’ era solo un gruppo che aveva la volontà di combattere la mafia, mentre lo Stato era assente e indifferente. Ora però devo dare atto che esiste la legge per i pentiti, esiste una volontà più incisiva dello Stato contro Cosa Nostra“. 29.11.1994 LA REPUBBLICA
L’omicidio di Piersanti Mattarella e il mistero della pistola con cui fu ucciso Il presidente della Regione Siciliana fu ucciso 40 anni fa in un agguato davanti alla sua casa di Palermo. Su esecutori e mandanti occulti non è stata mai fatta piena luce e la pista del legame tra eversione nera e mafia è legata a un’arma che potrebbe essere stata usata in più delitti Quarant’anni fa gli spari sul sogno della nuova Sicilia. La mafia e la spirale terroristica avevano abbattuto la speranza politica più autorevole dell’Isola: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, allievo di Aldo Moro, siciliano tenace e capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica dalle “carte in regola“. Una sfida, questa, ancora attualissima, insieme a quella per la verità piena su questo delitto che la procura di Palermo è tuttora impegnata a ricostruire compiutamente. Il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella era uscito dalla sua abitazione di via Libertà ed era salito a bordo della sua Fiat 132 per andare a messa, insieme alla suocera, alla moglie Irma Chiazzese e ai figli Maria e Bernardo. Niente scorta: il presidente la rifiutava nei giorni festivi, voleva che anche gli agenti stessero con le loro famiglie. Si era appena messo al volante, quando si avvicinarono i killer che spararono una serie di colpi. Accanto a lui il fratello Sergio, attuale presidente della Repubblica, che lo prese tra le braccia. Il 24 maggio di quell’anno avrebbe compiuto appena 45 anni. L’isola piombò nuovamente nel suo inferno, in un destino che appariva sempre più segnato e senza scampo né redenzione possibile. Questa stessa zona della città, quella attorno a via Libertà, cuore urbano del capoluogo, in quegli anni era diventata il crocevia del terrore mafioso: lì vicino, in via Di Blasi, il 21 luglio del ’79, era stato ucciso il capo della Mobile Boris Giuliano. Una scia di sangue, iniziata quell’anno, il 26 gennaio, con l’uccisione del giornalista Mario Francese. Il successivo 9 marzo era stata la volta del segretario provinciale della Dc, Michele Reina. Il 25 settembre del ’79 furono ammazzati il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso. Piersanti Mattarella da tempo si era reso conto della necessità di recidere con urgenza e nettamente i legami della politica e del suo partito con la mafia, con quegli uomini che “non facevano onore al partito stesso”. La vicenda giudiziaria è stata lunga e complessa. E non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della commissione di Cosa nostra (Totò Riina e Michele Greco su tutti, con gli altri esponenti della cupola: Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci). L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari ne’ i presunti mandanti esterni. Nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio: nuovi accertamenti considerati doverosi, anche attraverso complesse comparazioni fra reperti balistici, per quanto siano resi complicati dal lungo tempo trascorso e dalle sentenze passate in giudicato. Nel mirino ancora una volta i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, il cui capo, il terrorista nero Giusva Fioravanti, riconosciuto dalla vedova di Piersanti Mattarella, fu processato e definitivamente assolto dall’accusa di essere stato il killer. Uno dei reperti del processo celebrato a Palermo, la targa di un’auto del commando, sarebbe stata divisa in due dagli autori del furto e una parte fu poi ritrovata in un covo dell’organizzazione terroristica neofascista. Dal punto di vista processuale, peraltro, la collaborazione tra “neri” e mafiosi, in vari fatti e azioni delittuose, basata su un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra, era già stata più volte sostenuta, ad esempio per la strage del dicembre 1984 del Rapido 904. C’è poi l’ultimo capitolo sulle armi che uccisero Piersanti Mattarella e il giudice antiterrorismo Mario Amato; sono dello stesso tipo, una Colt Cobra calibro 38 Special, ma non c’è alcuna certezza sulla loro identità: non si puo’ dire cioè che il presidente della Regione Sicilia e il giudice, assassinati rispettivamente a Palermo e a Roma, nell’arco di poco meno di sei mesi, nel 1980, siano stati uccisi con la stessa pistola. Si tratta, allo stato, di un’ipotesi ritenuta “suggestiva“, ma sulla quale non possono esserci i necessari riscontri tecnici, gli unici che potrebbero dare una qualche conferma oggettiva o pressoché oggettiva. Nella nuova inchiesta del Ros dei carabinieri, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, qualsiasi comparazione con i proiettili estratti dal corpo di Mattarella, a causa del lunghissimo tempo trascorso dal fatto, è sostanzialmente impossibile. quadro resta dunque complesso e non definitivo su questo e altri aspetti. Nei giorni scorsi il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, aveva assicurato che “si prosegue nel delicato e complesso lavoro di desecretazione”. È stata resa pubblica l’audizione di Giovanni Falcone del 3 novembre 1988 che “risponde anche a domande in merito all’omicidio di Piersanti Mattarella dell’Epifania del 1980: come si ricava dalla lettura del documento, oggi pubblicato per la prima volta, Falcone definisce l’indagine ‘estremamente complessa’, dal momento che ‘si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Falcone, ricordava Morra, “ancora ammonisce, trattandosi di una ‘materia incandescente’, sulla necessità di non ‘gestire burocraticamente questo processo’. Continueremo a lavorare”. “Ancora troppi pezzi mancano all’appello, a partire – e non è un caso – dagli esecutori materiali. L’omicidio Mattarella è ‘una brutta storia’, come lo definì Cristiano Fioravanti”, ha detto di recente l’ex sostituto procuratore di Palermo, Roberto Tartaglia, oggi consulente dell’Antimafia. Tartaglia, già titolare dell’inchiesta aperta dalla procura diretta da Francesco Lo Voi, lanciava un appello a Giusva Fioravanti, processato e assolto in via definitiva dal delitto: “Il mio non vuole essere un invito a Fioravanti a fare dichiarazioni su quello specifico episodio. Una persona in questo momento libera come Valerio Fioravanti, che partecipa a un percorso sociale molto importante, a distanza di tanti anni e con la certezza di non potere essere processato per le stesse cose, potrebbe aggiungere dei tasselli per ricostruire alcuni segmenti misteriosi che lo collegano alla Sicilia in quel periodo”. Tornando alle armi, l’inchiesta nel cui ambito sono state effettuate le verifiche è della procura di Palermo, che ha riaperto il caso relativo al delitto di 40 anni: vicenda già chiusa con una sentenza definitiva di condanna della Cupola mafiosa, come mandante dell’omicidio, ma pure con l’assoluzione (non più impugnabile) dei due presunti esecutori materiali: oltre a Fioravanti anche Gilberto Cavallini, già condannato come killer del giudice Amato. Il fatto che a sparare sia stata una Colt Cobra è pressoché certo, perché, sulla base degli accertamenti dell’epoca, emerse che la traccia che la filettatura della canna lasciata dalla pistola sul proiettile era sinistrorsa e non destrorsa, come di regola avviene nelle altre armi a tamburo: caratteristica, questa, propria delle Cobra 38 Special. Quando però si è trattato di effettuare la comparazione con la pistola usata da Cavallini per uccidere il giudice Amato (il 23 giugno 1980, nella Capitale), gli esperti del Racis dei carabinieri si sono ritrovati di fronte a una difficoltà oggettiva: dato che il piombo dei proiettili usati contro Mattarella era deteriorato e ossidato, la comparazione e’ stata tentata con le foto dell’epoca, realizzate però dai periti balistici (peraltro oggi deceduti) con altri obiettivi, la classica individuazione del tipo di pistola che aveva sparato. Dalle foto non si evidenziano cioè in maniera adeguata se le striature siano riconducibili proprio alla canna della calibro 38 Special che uccise Amato, nè la cosiddetta prova da sparo ha risolto il dubbio. Restano gli interrogativi. Quel che è certo, è che un pezzo di storia e di giustizia è ancora da scrivere. Agi 6.1.2020
Piersanti Mattarella, il primo nemico che la mafia (anche quella politica) volle eliminare Fu l’omicidio mafioso di un “uomo politico nuovo” che voleva cambiare “dal di dentro” un sistema vecchio e marcio. Fu il primo di una lunga e sanguinosa serie di uomini delle istituzioni eliminati perché nemici della mafia, anche politica. Non fu solo un omicidio ordinato dalla mafia militare. Piersanti Mattarella era una anomalia, la prima, in quegli anni di pace tra politica e mafie. E quel delitto, come la strage di Portella della Ginestra, è uno spartiacque nella storia italiana. Era l’Epifania. 1980, 40 anni fa. Anni lontani che sembrano più di un secolo. Mattarella aveva 45 anni. Professore universitario e astro nascente della Democrazia cristiana, un partito onnipotente allora, una cultura in Italia. Un modo di fare la politica, in Sicilia il partito delle relazioni con la mafia. Da presidente della Regione, Mattarella aveva il rango di ministro. “Se sei contro la mafia, o sei ateo o comunista”, tuonavano gli arcivescovi di Palermo in quel tempo. Palermo era cupa. Mattarella Piersanti era cattolico fervente, ma aveva avviato in Sicilia l’alleanza con il Pci. Vito Ciancimino, nativo corleonese, pur non essendolo mai stato (se non per pochi giorni), in quegli anni era il vero sindaco della città. Controllava tutto. Una tranquilla città amministrata dalle cosche. Nel luglio 1979 in un bar dei quartieri del sacco edilizio era stato ucciso il capo della squadra mobile, Boris Giuliano. Perché aveva iniziato a mettere il naso negli affari della Cosa nostra italo americana. Ucciso nell’ultima estate di quel decennio, sei mesi prima di Mattarella e dell’inizio del fuoco mafioso sulle istituzioni. Dopo, cinque anni di fuoco. Il capo dell’ufficio istruzione Cesare Terranova (settembre 1979); il procuratore Gaetano Costa (agosto 1980), il capo del Pci regionale Pio La Torre (luglio 1982); il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (settembre 1982), Rocco Chinnici (luglio 1983). E poi ancora magistrati, poliziotti, giornalisti. A Milano, nel luglio 1979 era stato ucciso dalla mafia, su ordine di Michele Sindona, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata del banchiere di Patti. Un anno prima di Giuliano e un anno e mezzo prima di Mattarella, nel marzo 1978, a Roma era stato rapito Aldo Moro. Che era il leader politico di riferimento di Mattarella. Sinistra Dc. L’Italia era questa, per chi lo abbia dimenticato o sia nato dopo. Giulio Andreotti, dall’estate 1979 non era più presidente del Consiglio nel governo del “compromesso storico” col Pci e dopo le elezioni era stato rieletto alla Camera ma nominato presidente della commissione esteri. Il suo capocorrente in Sicilia, Salvo Lima (poi ucciso nel 1992), era onnipresente e dal 1979 era stato eletto al Parlamento di Strasburgo. E in quella Italia, cupa, attraversata dalla strategia della tensione e del terrore rosso e nero, Mattarella Piersanti era stato prima commissario moroteo della Dc siciliana, poi assessore regionale al Bilancio e, infine, proprio nei giorni del rapimento Moro, era diventato Presidente della Regione. Aveva già fatto una legge di trasparenza sulla pubblica amministrazione e per la programmazione dei fondi regionali, aveva dichiarato “guerra” agli appalti regionali gestiti in modo opaco. L’attuale sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che quegli anni era giovane giurista consulente della Regione, mi ha ricordato che la prima uscita da presidente Mattarella la fece a Cinisi, qualche giorno dopo l’assassinio di Peppino Impastato (9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui Moro – capocorrente di Mattarella – fu consegnato in via Caetani, morto, dalle Br). In prima fila, quel giorno a Cinisi, c’erano i compagni di Peppino che era comunista e fu la prima vittima della società civile morta per ordine di Cosa nostra: “Dc è mafia”, gridavano gli amici di Peppino. Era il partito del presidente della Regione lì sul palco, ma qualcuno presente ricorda di aver colto un cenno di vergogna nel volto di Mattarella. Lui sapeva chi erano i suoi nemici. Lo hanno ucciso vicino casa, nel centro di Palermo, viale della Libertà, due passi dalla prefettura. Il 6 gennaio il Comune di Palermo gli intitola il giardino Inglese. Parco Mattarella. Quella mattina lui usciva per andare a messa, sulla sua Fiat 132. Non aveva scorta. Con lui la moglie, i due figli e la suocera. Morto. Lo scrittore Leonardo Sciascia alluse subito a “confortevoli ipotesi” che avrebbero potuto ricondurre l’omicidio alla semplice firma della mafia siciliana. E così è stato. I processi nati da quel delitto hanno portato a un paradosso giudiziario: condannati in via definitiva i mandanti, i membri della cupola di Cosa nostra (da Totò Riina in giù), ma mai accertato in un’aula di giustizia il nome degli esecutori materiali. Fu ipotizzato uno “scambio” (non inedito in quegli anni) tra mafia e destra estrema. Una pista portò a un processo contro presunti killer neofascisti, a Giusva Fioravanti, accusato (e per questo condannato in via definitiva) della strage alla stazione di Bologna, avvenuta sei mesi dopo il delitto Mattarella. Ma Fioravanti, riconosciuto dalla moglie di Mattarella, è stato poi assolto. Nella sentenza della Corte di Assise del 12 aprile 1995, che ha giudicato i mandanti dell’assassinio, è scritto che “l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti interessi”. Il pentito Marino Mannoia ha raccontato di due riunioni avvenute a Palermo alla fine del 1979 nelle quali i vertici mafiosi dell’epoca avrebbero avvertito Lima e Andreotti del loro odio per Mattarella. La veridicità di una di quelle riunioni è stata confermata in Cassazione. La testimonianza del pentito è finita nel processo Andreotti, assolto per le sue presunte connivenze, ma prescritto per le sue relazioni pericolose avvenute fino a quel 1980 siciliano. Di quel delitto Mattarella, il giudice Giovanni Falcone, nell’audizione del novembre 1989 davanti alla Commissione parlamentare antimafia, ha detto: “Si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa a quella mafiosa o si compenetri con quella mafiosa”. Sei mesi prima del delitto Mattarella, Falcone aveva iniziato a lavorare nel pool antimafia di Chinnici. Quel verbale reso da Falcone tre anni prima di essere ucciso a Capaci è stato secretato fino al 21 dicembre scorso. Ma nessun magistrato ha mai sciolto il dubbio su quella convergenza di interessi politico-criminali sul delitto Mattarella. IL FATTO QUOTIDIANO 6.1.2020
- Mattarella: “Delitto di convergenza tra mafia ed eversione”
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- Mattarella, il presidente torna in Sicilia per l’anniversario della morte del fratello Piersanti. Visita al cimitero con la famiglia
Note
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- ^ Testimonianza di Cristiano Fioravanti, pentito del gruppo NAR, al processo per la strage di Bologna: Dai discorsi fatti la mattina capii che avevano deciso di agire non solo nei confronti del Mangiameli ma anche nei confronti di sua moglie e perfino della bambina. Comunque le motivazioni delle azioni da compiere contro il Mangiameli erano sempre le solite e cioè la questione dei soldi, la questione della evasione di Concutelli. Il giorno dopo (l’omicidio, ndr) rividi Valerio e lui era fermo nel suo proposito di andare in Sicilia per eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli e diceva che bisognava agire in fretta prima che venisse scoperto il cadavere e la donna potesse fuggire. Io non riuscivo a capire questa insistenza nell’agire contro la moglie e la figlia, una volta che questo (Mangiameli, ndr) era stato ormai ucciso e allora Valerio mi disse che avevano ucciso un politico siciliano in cambio di favori promessi dal (rectius: al) Mangiameli e relativi, sempre, all’evasione di Concutelli oltre ad appoggi di tipo logistico in Sicilia. Mi disse Valerio che per decidere l’omicidio del politico siciliano vi era stata una riunione in casa Mangiameli e in casa vi erano anche la moglie e la figlia, riunione cui aveva partecipato anche uno della Regione Siciliana che aveva dato le opportune indicazioni e, cioè, la dritta per commettere il fatto. Mi disse Valerio che all’omicidio (Mattarella) avevano partecipato lui e Cavallini e che Gabriele De Francisci aveva dato loro la casa. L’azione contro la moglie e la figlia di Mangiameli veniva allora motivata da Valerio col fatto che esse erano state presenti alla riunione: diceva Valerio che, una volta ucciso il marito, esse erano pericolose quanto lo stesso Mangiameli. Poi l’azione contro le due donne non avvenne in quanto il cadavere di Mangiameli fu poco dopo ritrovato.
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- ^ Gli incontri tra Andreotti e i boss mafiosi al fine di discutere il delitto Mattarella sono trattati nella Sentenza Corte di Appello di Palermo 2 maggio 2003, Parte III cap. 2 pp. 1093-1185 Presidente Scaduti, Relatore Fontana. In particolare, nelle conclusioni si legge (pp. 1514-1515): «Del resto, ad ultimativo conforto dell’assunto, basta considerare proprio la, assolutamente indicativa, vicenda che ruota attorno all’assassinio dell’on. Pier Santi Mattarella. Anche ammettendo la prospettata possibilità che l’imputato sia personalmente intervenuto allo scopo di evitare una soluzione cruenta della questione Mattarella, alla quale era certamente e nettamente contrario, appare alla Corte evidente che egli nell’occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del Presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali. A seguito del tragico epilogo della vicenda, poi, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è “sceso” in Sicilia per chiedere al boss Stefano Bontate conto della scelta di sopprimere il Presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e, come già si è evidenziato, non può che leggersi come espressione dell’intento (fallito per le ragioni già esposte in altra parte della sentenza) di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sull’azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse.»
- ^ il pentito: “nella villa urlavano”, Corriere della Sera, 15 aprile 1993. URL consultato il 6 gennaio 2020 (archiviato dall’url originale il 10 novembre 2014).
- ^ a cura di Marco Travaglio, Il caso Andreotti: gli stralci della sentenza, Centomovimenti News, 26 luglio 2003. URL consultato il 7 gennaio 2020 (archiviato dall’url originale il 5 agosto 2003).
- ^ Sentenze: Giulio Andreotti, su marcotravaglio.it. URL consultato il 19 febbraio 2007 (archiviato il 17 giugno 2007).
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Bibliografia
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- Achille Melchionda, Piombo contro la Giustizia. Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi, Pendragon 2010.
- Giovanni Grasso, Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, Cinisello Balsamo, San Paolo editore, 2014, ISBN 978-88-215-9131-0.
- Assemblea Regionale Siciliana, Piersanti Mattarella – Scritti e Discorsi, Introduzione di Leopoldo Elia, Quaderni del Servizio Studi Legislativi, due volumi, Palermo, 2005.
- Parlamento Italiano – Archivio digitale Pio La Torre – raccoglie gli atti giudiziari relativi ai processi penali per gli omicidi di Reina, La Torre e Mattarella.
- Piersanti Mattarella, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
- Pierluigi Basile, Un democristiano siciliano “diverso”. Il pensiero e l’opera di Piersanti Mattarella, in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. Dossier : Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, 2 (2010), n. 3
- Intervista a Giulio Andreotti relativa al suo processo, da Le Iene
- L’omicidio Mattarella, Repubblica Pierluigi Basile, Il delitto Mattarella un giallo lungo 29 anni, tratto da “la Repubblica” (edizione Palermo), 6 gennaio 2009
- Giorgio Siepe, Delitto Mattarella: l’ultimo processo di Falcone, in Delitti (im)perfetti, 2013
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco