VIA D’AMELIO 🟧 ARCHIVIO Corriere della Sera – Il boato alle 16.58, e’ un massacro.

 

Si sapeva che sarebbe accaduto. A lui o a un altro dei “cadaveri ambulanti” di questo mattatoio. E il boato per annunciare a una sonnolenta Palermo che anche Paolo Borsellino era stato massacrato con cinque agenti di scorta e’ echeggiato tetro su un pomeriggio assolato, alzando una colonna di fumo nero da un quartiere a soqquadro dove si sono spente le residue speranze di una povera citta’ in ginocchio, piegata ai disegni di una bestia uscita dal letargo. Per uccidere il naturale successore di Giovanni Falcone la mafia, e chi se ne serve, ha usato il sistema dell’autobomba piazzata davanti a un palazzo di via D’Amelio, squinternato come quello accanto, come quelli di fronte, con gli intonaci che vengono giu’ dal decimo piano, le serrande che si gonfiano e scoppiano mentre intere famiglie fuggono a piedi e rotolano per le scale con bambini scalzi che corrono sui vetri sanguinando.

Ecco la Beirut di casa nostra in un anonimo quartiere a due passi dalla Fiera, dove gli assassini erano al corrente di una saltuaria consuetudine che consentiva al giudice di rivedere quasi ogni domenica nell’appartamento della sorella Rita, farmacista, la mamma, Maria Lepanto, una signora anziana, sempre in tensione. Il boia, che ha schiacciato il telecomando che ha fatto detonare i 50 chili di esplosivo stipati in una vecchia Fiat 600, e i suoi complici feroci sapevano dove colpire quest’uomo sempre protetto da una conchiglia di sei agenti, pronto a correre con passetti veloci ogni volta che si trovava allo scoperto per guadagnare in una manciata di secondi il guscio della Croma blindata.
Quello che era impossibile fare davanti alla sua abitazione di via Cilea, dove nessuno puo’ parcheggiare, o davanti al Palazzo di Giustizia e’ stato semplicissimo in questo troncone mozzo di via D’Amelio, la stessa strada in cui fu trovato un covo dei Madonia con il libro mastro della mafia. Nessuna sorveglianza. E nessun controllo alle auto parcheggiate davanti alla guardiola che consente l’ accesso ai palazzi segnati dai numeri 19 e 21. E’ qui che il corteo blindato di Borsellino si ferma cinque minuti prima delle 17.
Ed e’ qui che e’ piazzata l’anonima e vetusta 600.
Il giudice scende dalla Croma, corre, sfiora l’auto della morte, alza un braccio, tende un dito per suonare il campanello e proprio in quell’istante un altro tasto viene premuto due volte. Prima per sbloccare il codice del telecomando. Poi per fare esplodere la micidiale carica. E’ l’apocalisse. Un’altra dopo quella di Capaci. La 600 si disintegra volando per trenta metri, schizzando morte e distruzione, devastando le auto blindate, riducendo a carcasse fumanti altre trenta macchine e facendo tremare le fondamenta mentre i corpi di Borsellino e degli agenti che gli stanno a fianco vengono maciullati e bruciati con resti che volano e si schiacciano sull’ asfalto un po’ nero un po’ rosso.

Il boato del finimondo si avverte fino alla circonvallazione e Palermo trema. Le prime telefonate dicono solo “Via Autonomia siciliana” e tanti pensano al giudice Ayala che abita vicino e che, invece, corre giu’ a piedi per trecento metri insieme con i raggazzi della sua scorta arrivando fra i primi ai bordi dell’ inferno. Fra le macerie di quest’ altra battaglia perduta dallo Stato, accanto ai resti di Borsellino, c’ e’ il corpo martoriato di Emanuela Loi, appena rientrata dalle vacanze nella sua Sardegna. E poi Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina e Claudio Traina. Resiste in ospedale Antonino Vullo. E nelle corsie arrivano feriti a decine. A mezzanotte erano 23. Ayala si muove sottile e smunto come un’ ombra tra i fumi maleodoranti di questo girone mortale dove camminando trovi ora un piede, ora una gamba. E un buco, una fossa davanti al cancello del numero 21 dove era parcheggiata la 600 volata via e trovata per meta’ con le ruote aggrappate al muretto del giardino di limoni. Qui gli agenti che arrivano piangono e gridano investendo magistrati e uomini politici: “E’ una guerra. O la combattiamo o costituiamo le “sette” per eliminare i mafiosi”. E invocano la pena di morte mentre un giudice catanese inveisce contro il segretario del Psdi Carlo Vizzini, pronto a replicare commosso: “Io le chiedo scusa e mi vergogno di essere il segretario di un partito che governa questo Paese”.
Un ragazzo alto e massiccio porta in braccio la sua nonna ferita alle gambe. Due vigili del fuoco accarezzano una signora disperata. Un poliziotto trova sul marciapiede di fronte un ragazzo che sanguina dalla bocca. Dino Ceraulo, un impiegato delle Poste scappa con i suoi due figli in lacrime.

Raffaele Lupo, un geologo che abita al decimo piano dello stesso palazzo dei Borsellino, schizza per strada sanguinante alle gambe con il figlio dopo una corsa affannosa tra fumo e vetri.
La gente passa dalle strade vicine alla Fiera e si ferma. In dieci minuti migliaia di persone si trovano faccia faccia con la morte. E le Tv lanciano l’ allarme che arriva cosi’ nella casa di villeggiatura di un ex deputato missino, Giuseppe Tricoli, a Villagrazia di Carini, dove Borsellino, dopo la colazione e dopo un breve riposo, ha lasciato la moglie Agnese Leto, il figlio piu’ grande, Manfredi, e Lucia, la ragazza che tante preoccupazioni ha dato al giudice in questi anni ammalandosi per papa’. Fiammetta, la piccola di casa, 19 anni, e’ in vacanza in Indocina. E’ Manfredi ad arrivare per primo con un amico in via D’Amelio restando obnubilato dallo scenario apocalittico, vagando abbracciato ora a un giudice ora a un altro e allontandosi distrutto per raggiungere a casa la madre che chiede dov’ e’ Paolo. Oggi, la Palermo che si preparava a celebrare le Messe per i due mesi della strage di Capaci, e’ invece pronta a sfilare di nuovo in un Palazzo di Giustizia trasformato in camera ardente. E qui sara’ la salma del giudice Paolo Borsellino. In nottata i poliziotti delle scorte, che si sono autoconsegnati in questura, hanno invece chiesto di poter esporre nella caserma “Ungaro” le bare dei colleghi trucidati.

Felice Cavallaro CORRIERE DELLA SERA 20 luglio 1992

 

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