La sera che Borsellino mi confidò i sospetti sul suo braccio destro

 

RICORDA gli amici e i nemici, gli imputati sconosciuti o eccellenti, i mafiosi di rango, ricorda soprattutto gli eroi dimenticati. E intorno a loro rievoca paure, le diffidenze e i risentimenti che si sono inseguiti in una Sicilia che sembra lontana nel tempo ma che è ancora lì, cangiante nella forma ma nella sostanza immobile, mascherata. Ricorda anche i tradimenti. È una lunga confessione a se stesso e alla sua Palermo, pensieri su potenti e prepotenti che ha incontrato in ormai quasi un quarto di secolo in quella sacca dove ha trovato e perduto i compagni di una vita. E il suo racconto non poteva partire che da là, da Marsala, dove per lui è cominciato tutto. Dove ha conosciuto un uomo che avrebbe segnato il suo destino: Paolo Borsellino. Le emozioni del procuratore aggiunto Antonio Ingroia sono scivolate in un libro – “Nel labirinto degli dèi, storie di mafia e di antimafia” (Il Saggiatore, pagg. 224, euro 15), una «ricostruzione di fatti» che riporta al passato più drammatico dei siciliani e soprattutto a lui, a quel magistrato incrociato in un tribunale di provincia nella seconda metà degli anni ‘ 80, un uomo piccolo con i baffetti ben curati e la sigaretta sempre in bocca. Uno ascoltava – Ingroia – e l’ altro – Borsellino – a volte si confidava: «Accadeva la sera, Paolo usciva allo scoperto, capace di parlare di tutto, dai suoi antichi trascorsi sportivi fino a delicate vicende giudiziarie del passato, per concludere con la recita, a memoria e in tedesco, dedicati da Goethe a Palermo, la città più bella del mondo, diceva…».
Sono passati quasi vent’ anni e Borsellino è morto, saltato in aria. Da quelle “conversazioni” n’ è nato un capitolo che ha come titolo “Amicizie e tradimenti”. Scrive Ingroia: «Ero un “giudice ragazzino” quando iniziai a frequentare il palazzo di giustizia di Palermo… devo dire che mi è rimasta impressa l’ atmosfera ostile nei confronti di Falcone…». Ma più del clima, il procuratore in quel capitolo parla di due suoi «stretti collaboratori» accusati di tradimento.
Parla per la prima volta del tenente dei carabinieri Carmelo Canale e del maresciallo della Finanza Giuseppe Ciuro.
Sono fra le pagine più dolorose del libro. Partono da una testimonianza inedita su Canale, quella di Borsellino, che del carabiniere si fidava anche se c’ era un’ ombra.
Racconta Ingroia: «Dell’unica ragione di esitazione e perplessità espresse da Borsellino sono stato testimone. Riguardava una vicenda specifica: le indagini sull’ omicidio del colonnello Giuseppe Russo, ucciso il 20 agosto del 1977 a due passi da Corleone…». L’ omicidio fu voluto da Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, ma per tanto tempo furono accusati tre pastori.
Uno si chiamava Casimiro Russo: chiuso in una caserma dei carabinieri si autoaccusò del delitto senza averlo commesso. In quella caserma, proprio quando ci fu la confessione, c’ era anche Carmelo Canale.
Gli chiedeva Borsellino: «Carmelo, dimmi la verità… a me la puoi dire… tu la sai, tu eri lì». Racconta ancora Ingroia: «Sì, c’ era qualcosa che non lo convinceva. Una volta, me lo disse in confidenza». Poi Canale fu coinvolto in un gorgo di mafia dal quale n’è uscito pulito, ma con Ingroia non si parlarono mai più.
Ancora più drammatica e ancora più forte la delusione e il dolore per il suo braccio destro, Ciuro, un finanziere che indagava al suo fianco e che è stato arrestato e condannato per mafia:
«Ho dovuto prendere atto della sua infedeltà, godeva della mia massima fiducia, eravamo anche diventati amici… lui finì con il tradire entrambe, sia la fiducia che l’ amicizia… rivelava li contenuti dei miei interrogatori e persino le date dei miei spostamenti».
Giuseppe Ciuro non ha mai chiesto perdono per ciò che ha fatto. «L’ ho aspettato inutilmente…», confessa Antonio Ingroia. ATTILIO BOLZONI

 

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