Quello che disse allora Borsellino ai colleghi del Csm è un testamento professionale. Per i 25 anni dalla strage di via d’Amelio, il Csm pubblica gli atti segreti del giudice antimafia. Due audizioni che diventeranno pagine di storia, quella del 1988 e quella del 1991, pochi mesi prima di morire quando Borsellino denunciò il procuratore di Trapani Antonino Coci. Palazzo dei Marescialli chiede così scusa oggi, per gli errori di ieri.
Nel 1988 Paolo Borsellino si dovette quasi scusare con i colleghi del Csm – che pretese quelle scuse – per aver denunciato sui giornali la verità, e cioè che «lo Stato si era arreso» e che del «pool antimafia di Palermo sono rimaste macerie». Erano altri tempi, si dirà: la Cassazione non aveva ancora definito le condanne al maxiprocesso a Cosa Nostra anche se Buscetta aveva già iniziato a collaborare con quei due giudici italiani convinti che la mafia è un fatto umano e come tale sarà sconfitto e per questo lavoravano.
Nel dicembre 1991, sempre Borsellino, dovette ancora una volta presentarsi davanti al Csm per denunciare il suo isolamento nella procura di Marsala e, a specchio, i fatti incredibili che accadevano nelle procure siciliane: delicatissimi verbali di pentiti consegnati ai giornali; nomi di politici, indicati dai boss di mafia, su cui non venivano fatte indagini; eccellenze, notabili e giudici iscritti a logge massoniche (la Scontrino di Trapani). E poi lettere, verbali, appunti, manoscritti.
C’è tutto questo nel volume che il Consiglio superiore della magistratura rende pubblico oggi sul sito (www.Csm.it), quasi 500 pagine di atti fino ad oggi segreti sul rapporto non semplice tra il Csm e Paolo Borsellino, il magistrato ammazzato 25 anni fa da Cosa Nostra in via d’Amelio, circa due mesi dopo un’altra strage, quella dell’amico e collega Giovanni Falcone. Così come non fu semplice il rapporto tra il Csm e Giovanni Falcone (gli atti sono stati pubblicati a maggio).
In quei due mesi del 1992, tra Capaci e via d’Amelio – e in quelli a seguire almeno fino al 1994 con le stragi di Firenze, Roma e Milano – l’Italia ha vissuto una guerra con morti, feriti, misteri. Una guerra che non è ancora conclusa perchè i responsabili, a tutti i livelli, di quelle stragi non hanno ancora un nome. Errori giudiziari a cui pochi credono, hanno fatto sì che dopo 25 anni non ci sia ancora una sentenza finale sulla strage di via d’Amelio. Ed è molto difficile immaginare che un giudice possa scrivere e spiegare come non sia stato possibile evitare che una 126 imbottita di tritolo fosse lasciata parcheggiata indisturbata sotto casa della madre del giudice nonostante l’allarme per la strage di Capaci.
L’iniziativa del Csm e del vicepresidente Giovanni Legnini non può certo andare a riempire questo vuoto di responsabilità. Può però, ed è quello che fa, integrare la memoria di un grandissimo professionista dell’antimafia quale fu Paolo Borsellino. Gli atti tenuti finora segreti negli archivi di palazzo dei Marescialli hanno quindi il pregio di far vivere una volta di più, con le parole dello stesso Borsellino, il senso di smarrimento e isolamento che il giudice sentiva intorno a sé in quegli anni. «Questo ufficio è un colabrodo» disse Borsellino a proposito del fatto che i giornali riuscivano ad avere i verbali di un pentito come Rosario Spatola vanificando così ogni tipo di indagine. In quei verbali c’erano nomi di politici che venivano informati direttamente dai giornali su indagini che, a quel punto, neppure venivano avviate. Quando lo dice e lo ripete a Rosario Santoro, presidente della Prima commissione referente del Csm, che gli chiede conto di quell’espressione riferita dal procuratore di Trapani Antonino Coci, Borsellino insiste: «E certo che ho parlato di colabrodo! Mi sembra ampiamente giustificato perchè un ufficio dove si verificano queste faccende, è un colabrodo».
Le audizioni pochi mesi prima di essere ammazzato
All’audizione del 10 dicembre 1991, quindi pochi mesi prima di essere ammazzato (19 luglio 1992) è dedicata un’intera sezione del volume «L’antimafia di Paolo Borsellino». Luca Forteleoni, membro togato del Csm che ne ha curato la redazione sotto il titolo Mafia, affari e politica: tra la fuga di notizie, i pentiti e la “dottrina dei c.d. professionisti dell’antimafia” , parla di «carte che assumono notevole rilievo perchè offrono uno spaccato a tutto tondo del contesto ambientale giudiziario, ma anche socio-politico, nel quale Paolo Borsellino agiva a pochi mesi dal suo barbaro assassinio con un coraggio all’epoca eroicamente controcorrente».
Borsellino, all’epoca Procuratore di Marsala, venne, infatti, sentito dal Csm in quanto la Procura di Trapani gli trasmise con un anno di ritardo verbali recanti dichiarazioni, definite dallo stesso Borsellino «dirompenti», di due pentiti a carico di alcuni esponenti politici siciliani, definiti «uomini d’onore». Borsellino apprese, con un misto di sconcerto e stupore, il contenuto di quei verbali dei due collaboratori di giustizia (Rosario Spatola e Giacoma Filippello, convivente di Natale D’Ala) soltanto attraverso un articolo di stampa pubblicato in conseguenza di una «fuga di notizie».
Due modi di fare antimafia
Le carte fanno emergere due modelli opposti di essere magistrato antimafia. «Da un lato – si legge – l’atteggiamento del magistrato requirente, denominato nella citata delibera Csm “dottrina Coci” (dal cognome del Procuratore di Trapani Antonino Coci che poi fu trasferito d’ufficio), che, muovendo dalla rassegnata considerazione della esistenza atavica del fenomeno mafioso, col quale inevitabilmente si doveva convivere, operava con eccesso di prudenza nell’azione investigativa antimafia, teorizzando l’opportunità di una limitata esposizione al rischio e, pertanto, di una ridotta visibilità».
La cosiddetta “dottrina Coci” – scrive il Csm nella delibera adottata nel 1992 tra la strage di Capaci e via d’Amelio, «consisteva nel consiglio a non esporsi troppo con atti che potessero indurre i criminali ad azioni violente contro la persona e, dall’altro, in una valutazione rassegnata del fenomeno della mafia e delle sue conseguenze sociali». Dalle carte consiliari emerge anche come «i teorici della prudenza nella lotta alla mafia erano allo stesso tempo aspramente critici nei confronti dei colleghi che si erano distinti invece per coraggio e per i risultati nel contrasto al fenomeno mafioso, qualificati alla stregua di “professionisti dell’antimafia”, termine ingeneroso e infelice coniato da Sciascia in uno sfortunato articolo di stampa del gennaio 1987». Ai magistrati coraggiosi ed eroici, come Paolo Borsellino, insomma, si contestava, a torto, un eccesso di visibilità nell’azione antimafia, se non addirittura «una sottesa finalità di autoaffermazione nell’agire investigativo». Così andavano le cose tra il 1991 e il 1992. E oggi?
Il vero magistrato antimafia
Dalle carte del Csm emerge anche, per fortuna, l’altro modello di magistrato: quello che non temeva di andare a fondo nella propria azione investigativa, «anche quando era destinata ad intaccare quello che storicamente viene definito ‘terzo livello’ e che chiama in causa il rapporto tra mafia, affari e politica». Cioè Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Accanto a quel modello, c’è stato e sopravvive oggi un metodo di lavoro: la trattazione coordinata e unitaria delle indagini, l’avversione per la frammentazione investigativa. Dice Borsellino ai colleghi del Csm: «Anche se personalmente poco convinto, so che devo prestare ossequio alla famosa sentenza della I sezione, presieduta dal collega Carnevale, che decise, invece, che siccome la mafia non avrebbe una struttura unitaria, ogni Tribunale, ogni Procura, delle 18 (quante ce ne sono in Sicilia), si fa la propria». Al di là dell’ironia che diventa sarcasmo, Borsellino denuncia con forza in quelle audizioni al Csm il metodo che frammentava le indagini ed esalta invece la trattazione unitaria e coordinata. Come si fa a trattare in maniera separata «un’indagine che coinvolge esponenti politici anche di livello nazionale in tre procure diverse – Marsala, Trapani e Sciacca – ma racchiuse in pochi chilometri?
Quello che disse allora Borsellino ai colleghi del Csm è un testamento professionale di cui quasi si riesce a percepire il tono della voce. «Io ho il dovere – disse l’allora procuratore di Marsala – di fare una indagine esplorativa a vasto raggio, anche nell’interesse dello stesso indagato, perché, se l’indagato deve essere sollevato da questa accusa, non deve essere sollevato da questa accusa, perché le dichiarazioni del collaboratore di giustizia non hanno trovato riscontri; se deve essere sollevato da questa accusa, deve essere sollevato a pieno titolo, dopo che il magistrato ha fatto quello che è suo dovere, cioè cercare le prove dovunque è possibile trovarle». E ancora: «Una volta che debbo indagare sulla asserita appartenenza di una persona a Cosa Nostra, debbo aprire il ventaglio di indagini a tutte le possibili fonti di prova, su tutto ciò che nel panorama giudiziario italiano risulta, come indagini, su queste persone». E poi il rigore nella verbalizzazione; la ricostruzione del profilo soggettivo personale e criminale del collaboratore di giustizia per inquadrarne la potenzialità dichiarativa e la credibilità delle chiamate in correità; la tutela della genuinità del contributo dichiarativo; l’importanza delle titela del segreto istruttorio. Nell’audizione al Csm Borsellino rivendica con orgoglio come lui e Falcone riuscirono a non far trapelare nulla delle indagini che portarono al maxiprocesso.
La lettera
Gli anniversari rischiano spesso di diventare riti stanchi. La retorica è in agguato e non fa sconti anche ai grandi del nostro tempo. Usare i documenti, toglierli dal segreto, ordinarli è certamente il modo migliore per onorare la memoria di Falcone Borsellino. Soprattutto per imparare. Una volta di più. E tutti: giudici, avvocati, giornalisti, istituzioni.
Se poi si vuole indulgere almeno un po’ alla nostalgia e crogiolarsi nelle emozioni, il volume del Csm regala anche spaccati quasi privati. Come la lettera che Giovanni Falcone scrisse a Palazzo dei marescialli chiedendo di essere trasferito da Palermo in dissenso con le scelte del nuovo consigliere istruttore del pool antimafia Antonino Mele. Scriveva Falcone il 30 luglio 1988 all’indomani della denuncia che trascinò il collega davanti al Csm: «Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato ed il coraggio, denunciando pubblicamente omissioni ed inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti». E Borsellino diceva di Falcone: «È un rapporto che va molto oltre l’amicizia». Al Consiglio superiore della magistratura, che certo non brillò in quei tragici anni per comprensione e visione, va dato atto del tentativo di chiedere scusa oggi una volta per tutte di quei tragici errori e fatali incomprensioni.
Claudia Fusani 18 luglio 2017 NOTIZIE TISCALI