26.1.1996 FRANCESCO ANDRIOTTA – dalla sentenza “Borsellino Uno”

 

Attraverso i particolari forniti dai due collaboranti e sulla base delle conseguenti indagini espletate era emerso al di là di ogni residuo dubbio che era stato il Candura Salvatore ad eseguire materialmente il furto della Fiat 126 della Valenti Pietrina successivamente utilizzata come autobomba.
Il Candura, ammettendo tale addebito, aveva in particolare riferito di avere avuto commissionato il delitto da Scarantino Vincenzo che, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purchè marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000. In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Valenti Pietrina (sorella dell’amico Valenti Luciano), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nel luogo ed all’ora concordati.
Il Candura aveva altresì riferito del timore in lui ingenerato dall’apprendimento della notizia della strage e dalla diffusione da parte degli organi di informazione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba, precisando che, mosso proprio da tale preoccupazione, nei giorni successivi alla strage, in più occasioni si era recato dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’auto che aveva procurato non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però nuove reazioni negative.
Sulla base delle dichiarazioni fornite dal Candura, positivamente riscontrate dagli esiti dell’attività investigativa svolta, era stata emessa in data 26/9/1992 ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Scarantino Vincenzo in ordine ai delitti di strage, concorso in furto aggravato ed altro.
Il P.M. delineava poi il profilo criminale dello Scarantino Vincenzo, sulla base dei precedenti penali e giudiziari del medesimo, nonchè delle dichiarazioni sul suo conto rese dai collaboratori della giustizia Figlia Sinibaldo, Candura Salvatore ed Augello Salvatore, sottolineando in particolare che lo Scarantino
Vincenzo apparteneva ad un nucleo familiare notoriamente inserito nel contesto criminale operante nella zona territoriale della “Guadagna” e che il prestigio, la supremazia territoriale acquisiti dall’imputato in quel contesto, così come tutta la sua attività criminale erano stati resi possibili e realizzati in virtù del rapporto di affinità che lo legava a Profeta Salvatore (quest’ultimo era cognato dello Scarantino, avendo sposato la di lui sorella Ignazia), uomo d’onore di grande rilievo e diretto committente, oltre che supervisore, controllore e beneficiario delle azioni illecite.

Proseguiva il P.M. riferendo che il sospetto di un possibile coinvolgimento del Profeta, quale persona che poteva aver commissionato allo Scarantino il reperimento dell’autovettura utilizzata come autobomba per la perpetrazione della strage aveva trovato nel prosieguo delle indagini puntuale conferma.
In data 14/9/1993, infatti, aveva iniziato a collaborare con l’Autorità Giudiziaria Andriotta Francesco.
Il contributo determinante alle indagini fornito dall’Andriotta originava da un periodo di comune detenzione dal medesimo sofferto con Scarantino Vincenzo, all’interno della Casa Circondariale di Busto Arsizio, dal 3 giugno 1993 al 23 agosto dello stesso anno.
In questo periodo l’Andriotta era entrato sempre più in confidenza con lo Scarantino che aveva iniziato a fidarsi di lui, in virtù dei pregressi rapporti che il primo aveva avuto con esponenti di rilievo della malavita palermitana ed anche per via dell’aiuto che lo stesso Andriotta gli prestava, consentendogli, tramite la moglie, di mandare messaggi alla sua famiglia.
Precisava il P.M. che il ruolo di tramite con l’esterno rivestito dall’Andriotta era stato positivamente riscontrato sia mediante il sequestro nell’abitazione del collaboratore di taluni bigliettini che l’Andriotta aveva scritto su incarico dello Scarantino, di poi consegnandoli alla moglie durante i colloqui perchè ne trasmettesse i relativi messaggi ai familiari dello Scarantino, sia dal contenuto di talune conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso a Scarantino Pietra.
L’Andriotta, nel corso delle indagini preliminari, aveva in particolare riferito che il giorno successivo alla divulgazione della notizia dell’avvenuto arresto di Orofino Giuseppe, lo Scarantino si era lasciato andare ad ulteriori confidenze, ammettendo di aver commissionato il furto della Fiat 126, poi rubata alla sorella di Valenti Luciano, ed imbottita di un quantitativo di esplosivo tale che “non sarebbe dovuto rimanere neanche il numero di telaio”. Lo Scarantino inoltre era apparso visibilmente preoccupato per il timore di un possibile pentimento dell’Orofino che avrebbe consentito agli inquirenti di acquisire la prova della propria compartecipazione alla strage.
Nello stesso contesto lo Scarantino aveva confidato all’Andriotta che il furto delle targhe di un’altra Fiat 126 (apposte sull’autobomba) era stato denunciato a bella posta il lunedì 20/7/1992 e che il ritardo era stato giustificato dalla circostanza della chiusura del garage nel giorno di domenica 19/7/1992.

E sempre in quel contesto l’Andriotta aveva appreso notizie su alcune fasi di preparazione dell’attentato, tra cui quelle attinenti all’intercettazione abusiva delle telefonate effettuate sull’utenza della famiglia Fiore-Borsellino ed alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sull’auto compendio del furto consumato in danno della Valenti Pietrina.
Con specifico riferimento a quest’ultimo punto l’Andriotta aveva in particolare riferito che a dette operazioni, sempre secondo quanto confidatogli dallo Scarantino, aveva partecipato anche il di lui cognato Profeta Salvatore.
Sulla base delle dichiarazioni rese dall’Andriotta, in data 8/10/1993 il G.i.p. di Caltanissetta aveva emesso ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Profeta Salvatore per il delitto di strage e reati connessi.
Proseguiva il P.M. tratteggiando il profilo criminale del Profeta sulla base dei precedenti penali e giudiziari rilevati a suo carico e delle dichiarazioni rese sul conto dello stesso dai collaboratori di giustizia Cancemi Salvatore, Di Matteo Mario Santo, Drago Giovanni, Favaloro Marco, Marchese Giuseppe, Mutolo Gaspare e Francesco Marino Mannoia, i quali lo avevano concordemente indicato quale uomo d’onore di spicco della “famiglia” di S.Maria di Gesù, molto vicino al capomandamento Pietro Aglieri ed al suo vice Greco Carlo.
Per quanto attiene agli ulteriori accertamenti in ordine alle targhe, delle quali era stato denunciato il furto dall’odierno imputato Orofino Giuseppe in data 20/7/1992, riferiva il P.M. che la concomitanza dell’esecuzione del furto con la data della strage aveva fatto sorgere negli Inquirenti il sospetto che dette targhe fossero state apposte, quali documenti di copertura, sulla Fiat 126 utilizzata come autobomba. Era stato infatti prontamente inviato presso l’autocarrozzeria personale della Polizia Scientifica per effettuare gli opportuni rilievi. Dalla documentazione fotografica effettuata era emerso che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Orofino in sede di denuncia, le parti in ferro del lucchetto apparivano coperte di ruggine, così evidenziando l’esposizione da tempo agli agenti atmosferici ed attestando la rottura del lucchetto in epoca certamente anteriore a quella in cui il furto era stato perpetrato.
La targa di cui era stato denunciato il furto era stata rinvenuta sul luogo della strage in data 22/7/1992. Ne risultava pertanto confermato l’originario sospetto che proprio quelle targhe fossero state apposte all’autobomba in funzione di copertura.
Per tali ragioni l’Orofino era stato invitato negli Uffici della Squadra Mobile della Questura di Palermo il 10/8/1992 e, ad integrazione della denuncia sporta, aveva dichiarato che l’autovettura gli era stata consegnata alcuni giorni prima del furto, che le riparazioni erano state ultimate il sabato 18/7/1992, giorno di chiusura della ditta che aveva commissionato i lavori, precisando che l’officina era rimasta aperta anche nella giornata del sabato fino alle ore 13.30 e che si era accorto personalmente del furto allorchè la mattina del 20/7/1992 aveva riaperto il locale.

Peraltro in data 8/9/1992 l’Orofino aveva integrato la denuncia di furto del 20/7/1992, aggiungendo che dalla Fiat 126 targata PA 878659 erano stati asportati anche il libretto di circolazione ed il foglio complementare.
Gli esiti dei rilievi tecnici e fotografici eseguiti dalla Polizia Scientifica avevano già indotto negli Inquirenti il sospetto che la denuncia di furto fosse simulata.
Tale ipotesi investigativa aveva trovato poi ulteriore supporto nell’esito degli accertamenti che consentivano di escludere altri furti di targhe nei giorni immediatamente antecedenti la strage e dalla davvero fortunata coincidenza, per i presunti autori del furto, del rinvenimento a “colpo sicuro” di una autovettura munita anche dei documenti di circolazione, indispensabili per sviare qualsiasi sospetto nel caso di un eventuale controllo di Polizia al momento del trasferimento dell’auto-bomba nel luogo prescelto per l’attentato.
L’attività di indagine era poi proseguita con l’esame testimoniale della proprietaria dell’autovettura Sferrazza Anna Maria, del di lei marito Viola Giuseppe e di Grassadonia Giuseppe, consulente presso la SIRA, il quale aveva riferito che venerdì 17/7/1992, nella mattinata, durante una conversazione telefonica, Agliuzza Francesco Paolo gli aveva confermato che l’autovettura era pronta e che nel corso della giornata l’avrebbe consegnata.
Sulla base di questa affermazione del Grassadonia, in data 7/7/1993 erano stati convocati per essere assunti a sommarie informazioni Orofino Giuseppe, i di lui cognati Agliuzza Gaspare e Francesco Paolo, nonchè il dipendente dell’autocarrozzeria Corrao Cosimo.
In tale sede mentre i fratelli Agliuzza avevano dichiarato che i lavori sulla Fiat 126 erano già stati ultimati il 17/7/1992 e le targhe erano già state apposte in quella data e che l’officina era rimasta certamente chiusa il sabato 18/7/1992, così come ogni sabato nei mesi festivi, il Corrao Cosimo aveva confermato la circostanza che l’officina nel periodo estivo rimaneva sempre chiusa nella giornata del sabato e che il 18/7/1992 era rimasta sicuramente chiusa, ricordando in particolare che il giorno 20/7/1992 aveva personalmente aperto l’officina in presenza dei titolari e che al momento dell’apertura era stato constatato non soltanto il furto della targhe ma anche del libretto di circolazione, l’Orofino invece aveva insistito nell’affermare che il sabato aveva lavorato regolarmente con gli altri contitolari fino alle ore 13.30, che aveva provveduto a collocare personalmente la targa posteriore della Fiat 126 di proprietà della Sferrazza proprio nella mattina del sabato 18/7/1992, di avere appreso che gli ignoti autori del furto avevano sottratto oltre alle targhe anche il libretto di circolazione soltanto dopo molto tempo dal responsabile della società che gli aveva commissionato i lavori.

Tali discordanze erano state maggiormente evidenziate dal tenore della intercettazione ambientale eseguita in data 7/7/1993 relativa alla conversazione intercorsa fra i fratelli Agliuzza e l’Orofino all’interno dell’autovettura a bordo della quale i tre si erano allontanati dagli Uffici della Squadra Mobile dopo la audizione.
Nel corso della conversazione suddetta l’Orofino aveva tentato di convincere i cognati che l’officina era rimasta aperta sabato 18/7/1992 per mezza giornata, Agliuzza Gaspare aveva peraltro ribadito che le targhe erano state montate il venerdì 17/7/1992, aggiungendo che il lucchetto era rotto già da tre mesi e che “con la 126 di questo libretto era saltato Borsellino”.
In relazione alle risultanze processuali emerse l’Ufficio del P.M. aveva richiesto ed ottenuto dal G.I.P. in sede l’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Orofino Giuseppe, indagato in ordine ai delitti di strage e simulazione di reato.
Sentiti dal P.M. in data 30/7/1993 i fratelli Agliuzza, a seguito della contestazione di taluni brani della conversazione intercettata, finivano con l’ammettere che il lucchetto era già stato rotto almeno tre mesi prima, poichè erano state smarrite le relative chiavi, aggiungendo che non avevano ritenuto necessario installare un nuovo lucchetto anche perchè non avevano mai subito nella propria officina nè furti, nè attentati, nè richieste estorsive.
Anche l’Orofino ammetteva,a contestazione, la circostanza della pregressa rottura del lucchetto, ribadendo per il resto la propria versione dei fatti ed aggiungendo che all’interno dell’officina vi era un cane da guardia che sorvegliava il garage anche durante la notte.
Nel delineare il profilo criminale dell’Orofino il P.M. evidenziava che l’autocarrozzeria di pertinenza dello stesso era ubicata territorialmente nella zona di influenza della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, alla quale è affiliato Giuliano Salvatore, a sua volta legato, anche da legami parentali, al sottocapo della stessa famiglia Tagliavia Francesco, sottolineando che l’assenza di furti e di episodi estorsivi in danno della carrozzeria e dei suoi titolari non può ritenersi casuale, ma attesta il solido inserimento dell’Orofino nell’apparato criminale gravitante nella zona di Corso dei Mille, circostanze queste che il P.M. si
riservava di provare in dibattimento con l’audizione dei collaboratori di giustizia Marchese Giuseppe, Marino Mannoia Francesco e Drago Giovanni.

Quanto infine all’ulteriore profilo di indagine connesso all’ipotesi di una possibile illecita intercettazione telefonica effettuata sull’utenza Fiore- Borsellino, formulata anche sulla base delle prime dichiarazioni rese dai familiari del giudice, evidenziava il P.M. che tale ipotesi era stata successivamente suffragata dagli esiti della consulenza tecnica conferita al dr. Gioacchino Genchi. Dall’indagine peritale era infatti emerso che le molteplici anomalie lamentate dai componenti la famiglia Fiore-Borsellino nel funzionamento del telefono installato nella loro abitazione non avevano trovato alcuna plausibile giustificazione di natura tecnica in eventuali guasti dell’impianto o degli apparecchi, che le riferite anomalie, per la loro natura e tipologia, potevano invece aver trovato origine esclusivamente nella realizzazione di un impianto precario finalizzato all’intercettazione delle conversazioni telefoniche. Il consulente aveva inoltre segnalato nella relazione che per la realizzazione di detto impianto di ascolto abusivo appariva verosimile la cooperazione criminosa di personale della SIP o di altra ditta privata operante nel settore telefonico, dovendosi predisporre circuiti di “parallelamento” e “deviazione” necessari alla installazione clandestina di un “terminale remoto”, cioè della postazione presso cui doveva essere di fatto compiuto l’ascolto abusivo delle telefonate.
L’attività investigativa che era stata successivamente svolta, anche alla luce delle risultanze dell’indagine del C.T. U., aveva consentito di accertare la presenza dell’odierno imputato Scotto Pietro, dipendente della società ELTE (ditta che esegue lavori sugli impianti e le reti telefoniche per conto della SIP), intorno alle ore 08.00 del 14 o del 16 luglio 1992, nello stabile di via D’Amelio 19, intento a lavorare alla scatola di derivazione delle linee telefoniche, ubicata proprio sul pianerottolo su cui si affaccia l’abitazione della famiglia Fiore.
Fiore Cecilia, nipote del dr. Borsellino, aveva dichiarato infatti di aver notato, all’ora anzidetta, in un giorno che la stessa collocava subito prima o subito dopo quello della festa di S.Rosalia (che cade il 15 luglio), un tecnico che armeggiava nella cassetta dei cavi telefonici, installata su una parete del pianerottolo relativo alla propria abitazione. La ragazza, in sede di individuazione fotografica, aveva riconosciuto senza alcuna esitazione ed incertezza in Scotto Pietro l’operaio di cui aveva notato la presenza.

 


Le menzogne di Andriotta per mettere Scarantino “con le spalle al muro”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione cosa vostra. In questa serie, seguiamo gli sviluppi del processo Borsellino quater, dopo la strage di via d’Amelio: uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.

La collaborazione di Francesco Andriotta (intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apriva la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che iniziava a giugno 1994), ma permetteva altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998.

Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella ‘collaborazione’, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino.

Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino.

Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:

 chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;

 proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come

usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;

 Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché ‘uomo d’onore’, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;

 col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul ‘pizzino’, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;

 nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio. Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni). Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione. Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio. Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio. In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello). L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto). Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 Lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza). L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio. Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo. Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato.

I nuovi interrogatori

A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato. In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva:

 di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”). Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;

 che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso. Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;

 che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;

 che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.

In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:

 riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);

 su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;

 nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.

Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna.

Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta).

Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva. I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino.

In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà).

Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto. In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera. Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato).

In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire.

Nel “Borsellino Uno” Andriotta è ritenuto credibile

Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio.

[…] In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea.

A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: […]. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi.

Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992.

Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:

 dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);

 potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;

 era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.

Il giudizio del “Borsellino Bis”

In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio.

[…] In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado).

A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.

La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto:

“Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”.

Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino.