MARIO MORI e la fuga di notizie

 

IL DUBBIO DAMIANO ALIPRANDI

 
Fughe di notizie riservate, pubblicate da Repubblica, colpiscono la presunzione di innocenza e rimettono in scena il clamore mediatico e depistaggi. Rispunta di nuovo il colonnello Riccio, già smentito in Cassazione.
Parliamo di un film già visto, l’eterno ritorno delle stesse ipotesi giudiziarie sconfessate da plurimi processi inflitti contro l’ex capo dei Ros Mario Mori. Stesse congetture, stessi accusatori, vecchie memorie dei procuratori di Palermo di allora che ripiombano nelle infinite indagini della procura di Firenze sui cosiddetti mandanti esterni delle stragi mafiose continentali del 1993. A questo, come denuncia Mori, si aggiungono le fughe di notizie riguardanti atti secretati e verbali di interrogatorio che dovevano rimanere segreti.
Accade che Repubblica, edizione di Firenze, non solo riveli alcuni elementi dell’atto istruttorio secretato riguardante le indagini della Procura di Firenze a carico dell’ex Ros Mario Mori, ma renda noto anche i presunti particolari del primo interrogatorio che ha subito a maggio dell’anno scorso. La curiosità è che lo stesso procuratore di Firenze abbia raccomandato la segretezza agli avvocati di Mori. Non a caso La Nazione, che ha dato notizia dell’interrogatorio, ha giustamente precisato che il confronto tra i magistrati fiorentini e l’ex Ros è segreto. Invece arriva La Repubblica che addirittura riporta una risposta che avrebbe dato Mori sul fatto del perché non avrebbe avvisato le autorità sulle imminenti stragi: «Avevo altro da fare in quel periodo!», avrebbe risposto secco.
Ma è così? Ha dato solo quella risposta che effettivamente agli occhi dei lettori può giustamente apparire di cattivo gusto? Il Dubbio l’ha chiesto all’avvocato Basilio Milio, il legale storico di Mori, ma non ha voluto e potuto svelare quello che effettivamente rispose l’ex Ros nell’interrogatorio dell’anno scorso. Giustamente spiega che deve correttamente rispettare il segreto istruttorio. Il danno della fuga di notizie è quindi evidente. La presunzione di innocenza viene meno.
Chi ha passato le carte secretate a Repubblica? Questa fuga di notizie – a detta di Mori imprecise e quindi fuorvianti – da dove proviene? Di certo non dall’ex Ros e dai suoi legali. «Mi domando se non sia doveroso un intervento del Csm nella sua interezza e del ministro della Giustizia per verificare (e per i provvedimenti conseguenti) fonte e modalità di tale fuga di notizie, oltretutto imprecise», denuncia Mori attraverso un comunicato stampa.
Ma ora bisogna necessariamente attenersi a quello che ha riportato Repubblica. Cosa emerge di nuovo? Nulla. Rispunta l’ennesimo elemento vecchio, già vagliato processualmente e sconfessato. Ma andiamo con ordine sintetizzando la questione già raccontata su queste stesse pagine de Il Dubbio. Secondo i magistrati, Mori non avrebbe intrapreso iniziative investigative o preventive per fermare gli attentati. E dove e quando avrebbe appreso questa notizia? Sempre secondo la procura di Firenze, l’ex Ros avrebbe ricevuto tali informazioni per due volte.
Una ad agosto del 1992: dal maresciallo Roberto Tempesta, tramite la fonte Paolo Bellini, avrebbe saputo che Cosa Nostra progettava di attaccare il patrimonio artistico italiano, in particolare la torre di Pisa. Poi il 25 giugno 1993: durante un colloquio investigativo a Carinola, Angelo Siino gli avrebbe riferito, basandosi su informazioni di Antonino Gioè, Gaetano Sangiorgi e Massimo Berruti, che Cosa Nostra aveva in programma attentati nel Nord Italia.
Come già analizzato nei giorni scorsi, la questione del maresciallo Tempesta che ha riportato a Mori le dichiarazioni dell’informatore Paolo Bellini è ben conosciuta e già vagliata dai processi di Palermo e di Firenze stesso. Poi c’è Angelo Siino, all’epoca arrestato grazie al dossier mafia-appalti. Ebbene, bisogna dare atto che qualche giorno fa, su Il Fatto Quotidiano, Marco Lillo ha dimostrato che le accuse contro Mario Mori da parte della procura di Firenze sono infondate.
Che Mori non abbia avuto alcuna notizia circostanziata sulla pianificazione delle stragi continentali del 1993, era già un fatto oggettivo. Il Fatto, diretto da Travaglio, ha fatto molto di più: ha tirato fuori il verbale di Siino del 1998, quando divenne collaboratore, e in particolare l’interrogatorio dell’allora procuratore fiorentino Michele Chelazzi sul punto. Come si evince dal verbale, in realtà Siino precisò subito che a Mori e De Donno, quando era solo confidente, non disse nulla di circostanziato. Siino taglia corto alle domande poste da Chelazzi: «Non gliel’ho mai detto (a Mori, ndr) e me ne sarei guardato bene».
Cosa c’è quindi di nuovo, come riportato da Repubblica? L’esposto del colonnello Michele Riccio, in cui accusa Mori di aver boicottato l’indagine sui mandanti esterni, e di avergli di fatto impedito di proseguire proficuamente il rapporto con Luigi Ilardo, assassinato a Catania il 10 maggio 1996. Ma anche qui, siamo di nuovo al vecchio. Fatto già vagliato processualmente dal “Mori – Obinu”, quello sulla cosiddetta mancata cattura di Provenzano. Un processo, finito in assoluzione, che si fonda soprattutto sulla testimonianza di Riccio.
Ci viene in aiuto la sentenza di Cassazione. «Già in primo grado – scrivono i giudici supremi – il tribunale aveva analizzato con estrema cautela la sua deposizione, evidenziando gli elementi che minavano la credibilità del teste e l’attendibilità delle sue dichiarazioni». E sottolineano: «Cautela che veniva in appello ad essere ulteriormente fondata dai giudici territoriali sulla veste assunta nel frattempo dal Riccio quale imputato di reato collegato. In particolare erano emerse nelle sue propalazioni diverse defaillance e molte di esse erano state smentite da dati oggettivi».
Tutto qui? La Cassazione elenca tutti i dati oggettivi che smentiscono categoricamente Riccio. I giudici, tra i vari elementi, aggiungono: «Le relazioni scritte trasmesse ai superiori contenute in floppy disk fortuitamente rinvenute dal Riccio si erano rivelate come costruite ad hoc». Altro che ne bis in idem, il basilare diritto di non essere processato due volte per la medesima cosa: qui siamo alla quarta volta. Il processo che nemmeno Kafka è riuscito a concepire per descrivere l’alienazione, l’assurdità del mondo. Quel romanzo dove il protagonista alla fine preferisce farsi uccidere. Viene massacrato “come un cane” lasciandosi dominare da quella società che lo inchioda nonostante la sua innocenza. Nel caso reale sulle stragi continentali, da agonista Mori non si lascerà andare, ma non si può non osservare che esiste un limite biologico. E sembra quasi che qualcuno conti su quello.

Caso Mori – La fuga di notizie

7 Giugno 2024 LA VALLE DEI TEMPLI

 

Come non essere d’accordo con quanto lamentato dal generale Mario Mori nella sua nota stampa?
Mori, dopo essere stato ascoltato dai pm fiorentini che indagano sulle stragi del ’93 ha visto pubblicati stralci dell’interrogatorio e della sua audizione  dello scorso anno coperti da segreto investigativo.
“Il tutto -afferma Mori, il quale è indagato per concorso in strage – in aperta violazione di legge e delle disposizioni impartite dal procuratore”.
A giudicare però dalla foga di alcuni giornalisti e di tanti utenti dei social nel condannare un fatto grave, sembra quasi di trovarsi innanzi al  primo caso di fughe di notizie da ambienti giudiziari o investigativi.
Si tratta, purtroppo, di fatti che accadono molto più spesso di quanto non si possa immaginare, ai quali il più delle volte non viene neppure dato risalto da parte della stampa.
Cosa cambia tra una vicenda e un’altra?
Saremmo tentati di dire che può cambiare la gravità dei fatti oggetto d’indagine, ma mentiremmo a noi stessi e a chi ne è stato vittima, talvolta non soltanto mediaticamente ma anche pagando con la propria vita fuga di notizie.
Come nel caso dell’omicidio di Luigi Ilardo, il quale con le sue rivelazioni portò i carabinieri del Ros a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano.
Ad attribuire a una fuga di notizie interna l’uccisione di Ilardo, è stato Pasquale Pacifico, procuratore aggiunto di Caltanissetta, che ha affermato:
“Ho sempre avuto la percezione che, in merito a questa vicenda, non tutto sia venuto fuori […] il collaboratore di giustizia Giuffré ci ha raccontato che c’era stata una fuga di notizie proveniente da ambienti giudiziari di Caltanissetta”.
Una fuga di notizie coperte dal massimo riserbo, rispetto la quale non si è mai individuato il colpevole.
In quel caso intervenne il Csm?
Tanta pressione mediatica fu fatta anche allora sul Consiglio Superiore della Magistratura?
Ma la storia di fughe di notizie è più vecchia del cucco.
Anche la Corte di Caltanissetta ne ebbe a dire richiamando la deposizione del giudice Borsellino dinanzi al Csm nel 1991,  facendo riferimento ai verbali di Rosario Spatola, pubblicati sul settimanale Epoca, dei quali lo stesso Borsellino non era neppure a conoscenza pur avendo competenza per territorio su alcune dichiarazioni del collaborante.
Una fuga di notizie che avrebbe permesso a falsi collaboratori di giustizia di approfittarne per ottenere credibilità usata poi anche nel depistare le indagini sulle stragi – tra la quale quella di via D’Amelio -, senza che i tanto valorosi giornalisti pronti oggi a difendere il sacrosanto diritto di Mori – ma prima ancora del rispetto del segreto investigativo e della ricerca della verità – per decenni battessero ciglio.
Ancora una volta, dunque, con il caso Mori sembra di assistere più a interessi di schieramenti contrapposti che non al rispetto delle norme, dei diritti dell’indagato e dell’interesse della giustizia.
La critica – specie sui social – e l’invito al Csm a volere intervenire, riguarda soltanto la vicenda che vede coinvolto il generale Mori, o ce ne ricorderemo anche quando non si tratterà di difendere i nostri piccoli “affarucci di bottega”?
Gian J. Morici

P.S. Generale Mori, cosa significa “Avevo altro da fare in quel periodo” in merito alla mancata comunicazione dell’allerta da Lei ricevuta sui possibili attentati? 

 


𝗣𝗲𝗻𝘁𝗶𝘁𝗶 𝗲 𝗰𝗮𝗿𝗮𝗯𝗶𝗻𝗶𝗲𝗿𝗶 𝗮𝗰𝗰𝘂𝘀𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗹 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗿𝗮𝗹𝗲 𝗠𝗼𝗿𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗶 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶 𝘀𝘂𝗹𝗹𝗲 𝘀𝘁𝗿𝗮𝗴𝗶 𝗱𝗲𝗹 ‘𝟵𝟯

di Luca Serranò su la Repubblica del 06/06/2024

Ci sono dichiarazioni di collaboratori di giustizia e testimonianze di ex ufficiali dei carabinieri a formare il quadro d’accusa nei confronti del generale 𝐌𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐢, già comandante del Ros e direttore dei servizi segreti. Per la procura di Firenze 𝐧𝐨𝐧 𝐡𝐚 𝐢𝐦𝐩𝐞𝐝𝐢𝐭𝐨 𝐥𝐞 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐠𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟗𝟑 𝐧𝐨𝐧𝐨𝐬𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐫𝐢𝐜𝐞𝐯𝐮𝐭𝐨 𝐢𝐧𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐬𝐮𝐥 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐚𝐭𝐭𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐧𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐞 𝐪𝐮𝐢𝐧𝐝𝐢, 𝐩𝐞𝐫 𝐠𝐥𝐢 𝐢𝐧𝐪𝐮𝐢𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐧𝐨𝐧 𝐡𝐚 𝐚𝐯𝐯𝐢𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐢 𝐦𝐚𝐠𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐧𝐨𝐭𝐢𝐳𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐭𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐚𝐯𝐮𝐭𝐨. Per questo motivo Mori è indagato e ieri è stato convocato per essere interrogato. Si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Ma la struttura d’accusa ruota sulle rivelazioni dell’infiltrato 𝐏𝐚𝐨𝐥𝐨 𝐁𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢, sulle dichiarazioni di 𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐒𝐢𝐢𝐧𝐨 che riporta le confidenze del mafioso 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢𝐧𝐨 𝐆𝐢𝐨𝐞̀, sulle 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐦𝐚𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐓𝐞𝐦𝐩𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐞 𝐬𝐮 𝐮𝐧 𝐧𝐮𝐨𝐯𝐨 𝐞𝐬𝐩𝐨𝐬𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐧𝐮𝐧𝐜𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐧𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐞𝐥𝐞 𝐑𝐢𝐜𝐜𝐢𝐨.
Sentito a Firenze il 17 maggio 2023, l’ex capo del Ros ha confermato di non aver riferito all’autorità giudiziaria le rivelazioni di Bellini — apprese col tramite del maresciallo Tempesta-, spiegando di non averlo fatto neanche dopo la strage di via dei Georgofili il 27 maggio 1993.
Ha inoltre sostenuto di aver distrutto il biglietto a cui faceva riferimento Tempesta. Poi, alla richiesta di spiegazioni sul perché avesse trascurato la pista investigativa: «𝑨𝒗𝒆𝒗𝒐 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒐 𝒅𝒂 𝒇𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒑𝒆𝒓𝒊𝒐𝒅𝒐».
Sentito nel corso dell’inchiesta anche il maresciallo, secondo cui Mori nell’agosto 1992 era stato informato delle “soffiate” di Bellini, compreso il progetto di possibili attentati alla Torre di Pisa e a monumenti nazionali. Tempesta ha detto di aver consegnato a Mori il biglietto contenente nomi per i quali Cosa nostra chiedeva l’ottenimento di benefici: l’ex capo del Ros, però, gli avrebbe detto di non predisporre relazioni di servizio.
Un altro capitolo riguarda poi le confidenze di Siino, su cui a lungo si sono soffermate le indagini dei pm 𝐋𝐮𝐜𝐚 𝐓𝐞𝐬𝐜𝐚𝐫𝐨𝐥𝐢, 𝐋𝐮𝐜𝐚 𝐓𝐮𝐫𝐜𝐨 e 𝐋𝐨𝐫𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐆𝐞𝐬𝐭𝐫𝐢. Secondo la ricostruzione, agli inizi del 1993 Gioè, a Rebibbia, incontrò Siino, e gli confidò che 𝐋𝐞𝐨𝐥𝐮𝐜𝐚 𝐁𝐚𝐠𝐚𝐫𝐞𝐥𝐥𝐚 e i 𝐛𝐨𝐬𝐬 𝐆𝐫𝐚𝐯𝐢𝐚𝐧𝐨 si stavano muovendo anche in ragione «𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑖 𝑆𝑒𝑟𝑣𝑖𝑧𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑣𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝐺𝑖𝑜𝑒̀». Quest’ultimo (trovato morto nella notte fra il 28 e il 29 luglio del ‘93 a Rebibbia) avrebbe detto a Siino che Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrarlo per avviare contatti con Craxi, e che lo stesso Bagarella stava assumendo posizioni dominanti in Cosa nostra dopo l’arresto di Riina — tanto da intimorire anche Provenzano -, progettando azioni eclatanti in danno di monumenti ed edifici di interesse artistico, tra i quali la Torre di Pisa.
Gioè avrebbe inoltre fatto trovare a Siino un biglietto in cui erano scritti gli attentati che dovevano essere compiuti. Un progetto «di mettere sottosopra l’Italia» di cui il Ros, il 25 giugno 1993, venne a conoscenza. Senza però conseguenze concrete.
Nell’indagine su Mori (assolto in via definitiva per la trattativa Stato-mafia), infine, spunta anche un esposto presentato sempre a Firenze, circa un anno fa, dal colonnello Michele Riccio. Un esposto in cui 𝐑𝐢𝐜𝐜𝐢𝐨 𝐚𝐜𝐜𝐮𝐬𝐚 𝐢𝐥 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐯𝐞𝐫 𝐛𝐨𝐢𝐜𝐨𝐭𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐝𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞 𝐬𝐮𝐢 𝐦𝐚𝐧𝐝𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐞𝐬𝐭𝐞𝐫𝐧𝐢, 𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐠𝐥𝐢 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐞𝐝𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐨𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐢𝐜𝐮𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐥 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐋𝐮𝐢𝐠𝐢 𝐈𝐥𝐚𝐫𝐝𝐨, 𝐚𝐬𝐬𝐚𝐬𝐬𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐚 𝐂𝐚𝐭𝐚𝐧𝐢𝐚 𝐢𝐥 𝟏𝟎 𝐦𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝟏𝟗𝟗𝟔: 𝐌𝐨𝐫𝐢, 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐞 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐞, 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐯𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐧𝐞𝐠𝐚𝐭𝐨 𝐥’𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐢𝐳𝐳𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐝 𝐚𝐟𝐟𝐫𝐨𝐧𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐟𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐚, 𝐟𝐚𝐜𝐞𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐫𝐢𝐫𝐞 𝐯𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐞 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐫𝐢𝐟𝐞𝐫𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐚𝐢 𝐝𝐢𝐚𝐥𝐨𝐠𝐡𝐢 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐜𝐨𝐫𝐬𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐈𝐥𝐚𝐫𝐝𝐨.
Le accuse riguardano anche il presunto boicottaggio per impedire una collaborazione che avrebbe fornito accuse nei confronti di Dell’Utri e di Berlusconi, anche in riferimento alle stragi