La parabola di Natoli, dal pool antimafia all’accusa di aver favorito Cosa nostra

 

La Procura di Caltanissetta accusa l’ex pm di aver insabbiato un’inchiesta avviata nel 1991 a Massa Carrara sui rapporti tra corleonesi e imprese del nord

 

Per capire perché l’ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli sia indagato dalla Procura di Caltanissetta per i reati di favoreggiamento alla mafia e calunnia, bisogna fare un salto indietro nei luoghi e nel tempo. La vicenda riguarda un filone dell’inchiesta mafia-appalti, svolta nel capoluogo siciliano agli inizi degli anni ’90, tra i moventi della strage costata la vita al giudice Paolo Borsellino.

A Natoli i Pm contestano di aver insabbiato l’indagine avviata dalla procura di Massa Carrara e confluita nel procedimento mafia-appalti per favorire esponenti mafiosi come gli imprenditori Francesco Bonura e Antonino Buscemi. Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto, e con l’allora capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti.

Il presunto istigatore

Nell’invito a comparire Giammanco viene definito dai pm nisseni l’“istigatore”. Secondo l’accusa l’ex magistrato avrebbe aiutato i mafiosi Buscemi e Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e gli imprenditori Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi) ad eludere le indagini. In particolare al magistrato viene contestato di aver svolto, nell’ambito del procedimento 3589/1991 aperto a Palermo dopo l’invio delle carte da Massa Carrara su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, un’«indagine apparente», «richiedendo, tra l’altro, l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale (inferiore ai 40 giorni) e solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione, per assicurare un sufficiente livello di efficienza delle indagini» e di aver disposto, «d’intesa con l’ufficiale della Guardia di Finanza Screpanti che provvedeva in tal senso, che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la “messa a disposizione” di Di Fresco in favore di Bonura, nonché una concreta ipotesi di “aggiustamento”, mediante interessamento del Di Fresco stesso, del processo pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo, sempre a carico di Bonura per un duplice omicidio».

Natoli inoltre non avrebbe aperto alcuna indagine nei confronti dell’imprenditore Luciano Laghi e dell’imprenditore Claudio Scarafia, «sebbene i due fossero risultati a completa disposizione di Bonura e dei suoi familiari» e avrebbe chiesto l’archiviazione del procedimento «senza curarsi di effettuare ulteriori approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Massa Carrara».

Infine, per Caltanissetta, «per occultare ogni traccia del rilevante esito delle intercettazioni telefoniche, avrebbe disposto la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci». I reati sarebbero stati commessi con l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa «con riferimento agli interessi della stessa nel settore dell’aggiudicazione degli appalti (operazione gestita unitamente al mondo imprenditoriale e a quello della politica)».

«Sono stato e sono un uomo delle istituzioni e ho piena fiducia nella Giustizia. Darò senz’altro il mio contributo nell’accertamento della verità», ha dichiarato a caldo Natoli.

Salto nel tempo

E qui inizia il salto indietro nel tempo. Siamo al 27 marzo 2017 e il giudice Augusto Lama presenta a Firenze il libro “Gli anni bui della Repubblica”, scritto da Piero Franco Angeloni, ex maresciallo della Guardia di Finanza e collaboratore fidato delle più importanti indagini del magistrato ora in pensione  Lama raccontato nei dettagli l’inchiesta principale di cui fu protagonista con il maresciallo, quella sulle infiltrazioni mafiose nelle società proprietarie delle attività estrattive nella provincia apuana negli anni ‘90. «L’indagine – disse Lama – prese il via quasi per caso, sulla scorta di confidenze negli ambienti lavorativi dei cavatori, circa la presenza di personaggi provenienti dalla Sicilia. Fu quello solo lo spunto, perché poi si trattò di un’inchiesta meramente economica-finanziaria che mise in luce come nelle società che gestivano il 70% delle attività nelle cave, attraverso l’infiltrazione della subentrata Calcestruzzi Ravenna, appartentnte al gruppo Ferruzzi-Gardini, si potesse risalire a partecipazioni societarie dei corleonesi, in particolare di due mafiosi di spicco quali Buscemi e Bonura. Gli atti, anche in seguito a tentativi politici di ostacolare le indagini, furono inviati alla Procura di Palermo che, in un primo momento sottovalutò la cosa, per poi riconoscerne l’intuizione sul finire degli anni ’90, acquisendola nel faldone del maxiprocesso».

Procedimento disciplinare

Quel che non dice, Lama, è che l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, il 26 novembre 1993, aprì un procedimento disciplinare contro il magistrato, sulla base di un esposto che censurava le sue esternazioni su possibili coinvolgimenti del gruppo Ferruzzi con la mafia. Finì in cavalleria. Dopo oltre sette anni e con l’importanza del filone di indagine “mafia-appalti” sottolineata e spinta in Commissione parlamentare antimafia dalla famiglia Borsellino, quelle affermazioni hanno acquistato nuova luce.

Ricordi sul tavolo

Già, perché Lama, il 18 gennaio 2024 è stato chiamato proprio dalla Commissione antimafia a rispolverare i ricordi su quel filone toscano che aveva legami con la Sicilia. «Il fascicolo – ricostruisce Lama – era stato trasmesso per competenza alla procura di Palermo e che notizie del fatto furono inviate anche a Lucca e, mi sembra, a Roma o a Firenze. Viceversa, e qui torniamo agli accertamenti che ho fatto io, naturalmente dietro regolare richiesta scritta, ho potuto avere accesso ai brogliacci. Allora ovviamente non c’era ancora l’informatizzazione dei registri, quindi era fatto tutto a mano. Io mi astenni il 15 febbraio dell’anno 1992, quindi non ho saputo anzitutto l’esito che avevano avuto le intercettazioni telefoniche che invece aveva disposto il collega Natoli presso la procura di Palermo. Ho potuto poi accertare, sia tramite gli atti che ha trovato Angeloni sia tramite quelli che mi ha mandato l’avvocato Trizzino, che il collega, dopo una iniziale proroga di indagini, aveva effettivamente intercettato tutta una serie di utenze telefoniche rispetto alle quali però, come da un rapporto finale della Guardia di finanza del 26 marzo 1992, pur riscontrando tutti gli intrecci e i collegamenti societari di cui ho parlato, quindi il controllo di Calcestruzzi Ravenna e delle due società e la riconduzione delle società a tutti quei personaggi di cui ho parlato prima, non era riuscito a trovare elementi di prova che in qualche modo dimostrassero che dietro questi collegamenti societari vi fosse un vero e proprio sodalizio mafioso. Questa informativa è del 26 marzo 1992».
Quindi un primo dato è che Natoli – secondo questa ricostruzione – non aveva trovato elementi e Lama non sa «se poi il collega Natoli ebbe a trasmettere qualcosa, ma io a quel punto non avevo più nessun accesso e nessun rapporto con gli atti. A seguito di questo, il collega chiese e ottenne dal Gip presso la procura di Palermo, nel giugno del 1992, l’archiviazione del fascicolo 3589/91 che aveva aperto a carico di Bonura».

La smagnetizzazione

Poco dopo Lama chiarisce – su richiesta dei commissari antimafia – il discorso relativo alla smagnetizzazione, e dunque inutilizzabilità, delle intercettazioni. Lama mette i suoi puntini sulle “i”: «Qui chiaramente si tratta di un errore perché, come abbiamo visto, il fascicolo a Palermo non c’è mai stato, e quindi l’archiviazione riguardava il fascicolo 3589/91, quello che era stato gestito dal collega Natoli, e le smagnetizzazioni, che poi sembra non siano avvenute, riguardavano le intercettazioni che aveva disposto quell’ufficio e non quello di Massa Carrara. Come ripeto, non sono in grado di dirvi purtroppo che fine abbia fatto il mio fascicolo perché, a quanto ho saputo, è poi finito al Tribunale di Roma».

Lama racconta molto altro e sottolinea che tra gennaio e febbraio 1993 l’allora procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, chiese la riapertura delle indagini a carico di Buscemi e degli altri. A seguito di questo Buscemi fu sottoposto ad arresto e fu condannato con sentenza irrevocabile nel 1996, mentre il 2 luglio 2002, quando andò a sentenza il complesso dei rapporti con la Calcestruzzi, in cui alcuni dirigenti, Buscemi fu dichiarato non procedibile per ne bis in idem essendo già stato condannato.

Cointeressenze societarie

«Quello che avevo scoperto – continua Lama – è che c’erano cointeressenze societarie che apparivano estremamente sospette. Non sapevo nulla all’epoca del nascente rapporto del Ros e di quello che poi si è saputo in quegli anni e che aveva interessato anche il collega Borsellino con i rapporti difficili con il procuratore Giammanco. È chiaro che se io avessi avuto ancora la titolarità del fascicolo avrei sicuramente proceduto anch’io a delle iscrizioni e avrei sicuramente approfondito le indagini prendendo contatti con il collega Natoli. Al momento, sapevo solo che il collega Natoli aveva sottoposto ad ascolto con intercettazioni telefoniche, però non avevo contezza del loro esito. Se avessi avuto ancora il fascicolo sicuramente avrei approfondito. All’epoca io mi muovevo molto, già altre volte ero andato a Palermo per prendere contatti. Credevo molto nel contatto diretto con il collega, quindi sarei andato a Palermo per collaborare. Mi rammarico quanto al fatto della trasmissione degli atti a Lucca, su cui ho già detto, formalmente corretta, ma nel momento in cui si ipotizza un 416-bis, mi è sembrata una lettura molto sminuente, molto formale e limitata agli aspetti societari della vicenda. Mi ha rammaricato molto perché penso che se tutto il fascicolo, comprese le famose bobine delle intercettazioni telefoniche, le nostre, che, non tanto, ma qualcosa avevano detto, fossero state mandate a Palermo, probabilmente non ci sarebbe stata l’archiviazione del giugno 1992 e forse ci sarebbe stata una prosecuzione di indagine che, incartate le dichiarazioni di Leonardo Messina, poteva aprire la via poi a quelle che furono le dichiarazioni. Ho letto in questo atto della procura di Caltanissetta le dichiarazioni di Siino e le dichiarazioni di Giovanni Brusca che invece aprono tutto uno scenario che naturalmente non potevo conoscere ma che avevo intuito, perché una grande azienda come questa che si mette a fare tali operazioni, mi suonava molto strano».

Parola a Natoli

Il 23 gennaio e il 1° febbraio 2024 Natoli è pronto a ribattere in Commissione parlamentare antimafia alle ricostruzioni di Lama e alle motivazioni della famiglia Borsellino. Nella prima audizione, si sofferma su quella che chiama «l’erronea attribuzione della smagnetizzazione delle bobine provenienti da Massa Carrara», nelle cui conversazioni intercettate avrebbero potuto esserci alcune tra le ragioni della strage di via D’Amelio. La smagnetizzazione avrebbe impedito per sempre l’approfondimento. «Siccome questa era l’accusa, permettetemi di chiamare le cose con il loro nome – dirà in Commissione antimafia Natoli – che mi veniva mossa, ovviamente ho ritenuto di provare documentalmente che quelle bobine non sono mai arrivate a Palermo. Ribadisco che questo lo ricavo documentalmente, come ho provato con uno degli allegati depositati, dalla nota del maggiore Roberto Rossetto del 17 settembre 1991, in cui si dà atto in maniera analitica delle cose che venivano consegnate all’ufficio di Palermo e non si parla assolutamente di bobine».

Un “fascicoletto”

Il 1° febbraio Natoli dirà chiaro e tondo che «con mafia e appalti questo fascicoletto (toscano, ndr) non ha nulla a che vedere» anche se il commissario Mauro D’Attis (Fi), ricorda la richiesta di decreto di archiviazione sui mandanti occulti bis della Procura di Caltanissetta, datata 9 giugno 2003, in cui, facendo proprio riferimento alla sua decisione di archiviare il provvedimento collegato alle indagini di Massa Carrara, il giudice dà atto di una sottovalutazione del fenomeno.
«La magistratura di Palermo – si legge nel passo citato da D’Attis – probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi-Gruppo Ferruzzi, dal momento che, uno, il procedimento iniziato a Massa Carrara a carico di Buscemi Antonino fu archiviato a Palermo il 1° giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci le relative intercettazioni furono smagnetizzate anche se si diede atto dei rapporti commerciali, di scambio e di concambio di pacchetti azionari fra Ferruzzi, la famiglia, Calcestruzzi e i Buscemi. Due, soltanto in un secondo momento, a carico di Buscemi Antonino vennero elevate imputazioni inerenti al reato associativo. Tutto questo fa ritenere che vi fosse una sorta di scompenso fra le intuizioni investigative che erano state elaborate, in questo caso da Giovanni Falcone e dal team, dal suo pool, e puntualmente tracciate dai reparti specializzati di polizia giudiziaria – il Ros in primo luogo, poi anche lo Sco – da un lato le utilizzazioni processuali conseguenti da parte della procura di Palermo dell’epoca, che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, cosa nostra, di fatto, poi, aveva raggiunto i suoi scopi».

Frasi riprese

Natoli, a questa lunga citazione, risponderà così: «Mi permetto di rilevare che questa prima frase, che è presa dalla mia richiesta di archiviazione del 1 giugno 1992, corrisponde testualmente a quanto la Guardia di finanza, nella annotazione del 26 marzo 1992, a pagina 6 e 7, scrive relativamente alle indagini che erano state richieste a Palermo, cioè alle intercettazioni: “in attualità di rapporti fra Buscemi Antonino con Cimino Girolamo, che è suo cognato, e le richiamate imprese del Carrarese, cioè Sam e Imeg”, delle quali il Cimino era amministratore delegato, o comunque amministratore unico, non ricordo. Confermati i rapporti fra le società palermitane del Buscemi e la Calcestruzzi Ravenna, come logica conseguenza e testuale del controllo azionario esercitato dalla società ravennate sulle menzionate imprese siciliane – che, ripeto, erano note, soltanto con riguardo, ad esempio, ai registri della Camera di commercio, sin dal 1984 e poi 1985 e 1986 – compresi i rapporti azionari. Rispetto alla Finsavi che era la “cassaforte” del gruppo Buscemi, “il 50 per cento della Finsavi è della Calcestruzzi Ravenna, il 17 per cento arrotondato è di Buscemi Antonino, il 33 per cento è dell’altro fratello chirurgo universitario di Palermo, cioè Giuseppe Buscemi”».

Lo “stampone”

Nella stessa pagina 9 della richiesta di Caltanissetta, alla lettera b) dice: «Soltanto in un secondo momento a carico del Buscemi Antonino vennero elevate imputazioni inerenti al reato associativo». E in nota si precisa: «All’epoca dell’ordinanza di custodia cautelare del 25 maggio 1993 nel procedimento 6280/92 della DDA di Palermo».
«È quello, cioè, che i colleghi che si occupavano di mafia e appalti, tra cui il qui presente senatore Scarpinato – concluderà sul punto Natoli – avanzano a maggio 1993, perché sono sopravvenute le dichiarazioni soprattutto di Balduccio Di Maggio, a partire dall’8 gennaio1993. Condivido quello che sto leggendo testualmente da questo decreto, anzi da questa richiesta di archiviazione che venne accolta dal Gip con uno stampone». Ora non resta che attendere le prossime mosse. ROBERTO GALULLO SOLE 24 ORE 3.7.2024

 

 

 

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