ARCHIVIO – CARMELO CANALE e la BORSA dei MISTERI

 
Ottobre 2012
DOPO LA STRAGE LA BORSA SPARÌ PER QUALCHE GIORNO.
CANALE: “ARNALDO LA BARBERA MI DISSE CHE LA BORSA È ANDATA DISTRUTTA”.
POI FU RITROVATA CON TUTTI GLI OGGETTI CHE CONTENEVA.
TRANNE UNO: L’AGENDA ROSSA.
Di Aldo Sarullo , pubblicato sul mensile S di ottobre 2012

 

“Manuela, la mia borsa la porti tu”.

La fanciulla, uscita di scuola, usava recarsi nell’ufficio del padre per rincasare insieme. Aveva preso quell’abitudine dopo la morte, a quattordici anni, della sorella Antonella. E Paolo Borsellino si divertiva spesso ad adibire la figliuola del suo più stretto collaboratore, il maresciallo Carmelo Canale, a quel ruolo apparentemente trasgressivo, ma certamente emblematico.
“La mia borsa la porti tu” e si avviavano fuori dell’ufficio, la Procura di Marsala. L’aria scanzonata del Procuratore capo, conosciuta da chi lo frequentava come il suo abito leggero, era quella di un uomo la cui vita, invece, era dedita ad un pesantissimo ruolo vissuto senza debolezze e senza cali di impegno.
ll maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, ricordato dalla storia come il “tenente Canale”, era per Borsellino il collaboratore più amato e fidato, tanto da definirlo pubblicamente “fratello”.
Canale condivideva la pesantezza rischiosa di quel lavoro speciale che era la guerra sul campo contro la mafia, ma anche il gusto dei sorridenti paradossi alla siciliana.
Conosco Carmelo da anni, da quando mi chiese di aiutarlo a gestire il drammatico frangente che lo vedeva accusato d’essere un colluso. Ne uscì dopo quindici anni con la piena assoluzione nei tre gradi del giudizio ed oggi riveste alte funzioni di comando alla Legione carabinieri di Palermo.
Lo Stato gli ha finanche riconosciuto il diritto di rimanere in servizio per recuperare gli anni perduti a causa della sospensione subita per il processo.
Nel tormento delle ore successive alla strage di via D’Amelio, accaduta mentre Canale era in Calabria, egli si preoccupò subito anche della sorte dell’agenda del procuratore e della borsa che la conteneva.
Sapeva bene quanto su quei fogli vi fossero appunti preziosi, elementi di terribili verità, sino all’ultimo, semplice, quello di un lunghissimo numero telefonico internazionale, verosimilmente riconducibile alla Germania, dove avrebbero dovuto recarsi per sentire un nuovo pentito. “Arnaldo La Barbera mi ha detto che la borsa è andata distrutta” disse a Canale la signora Agnese Borsellino e sembrò che così potesse ritenersi calato il sipario sulla conoscenza dei contenuti dell’agenda. Dopo pochi giorni, però, la borsa fu restituita alla famiglia del Procuratore. Sia l’interno che la parte posteriore, protetta, al momento dell’esplosione, dall’essere stata poggiata in auto a contatto del sedile, erano praticamente intatti.
Il resto sì, era sventrato e in parte carbonizzato, cristallizzato. E gli oggetti contenuti erano lì. Ma l’agenda non c’era più.
Con l’aristocrazia dell’anima che abbiamo imparato a conoscere, Agnese Borsellino e i suoi ragazzi ritennero che quella borsa, ormai testimone perenne di una violenza inesaurita, dovesse andare nelle degne mani del tenente Canale.
Oggi egli la custodisce gelosamente in caserma e la protegge in una teca dagli ulteriori guasti del tempo. Nel prenderla per mostrarmela, il maggiore Canale, Carmelo, si muove lento, con gesti accorti, con il senso del sacro da ostendere. “Un giorno la darò in prestito al Museo della Memoria, inaugurato il 3 settembre alla Legione di Palermo” mi dice e restiamo per lunghi secondi in silenzio.
Canale è un uomo d’azione, sa gestire la propria natura impetuosa, ma non la nasconde. Rompe quel silenzio per entrare nel cuore del problema: “Hanno perso troppo tempo – esclama – io parlai subito del rilievo investigativo di quell’agenda. Ma soltanto dopo anni dal mio allarme sulla sua importanza l’agenda è divenuta oggetto di vero interesse. Sapevo quanto fosse preziosa e quanto il Procuratore la tenesse fisicamente sempre sott’occhio. Quando una settimana prima di morire, eravamo a Salerno in casa del dottor Diego Cavaliero (prima sostituto di Borsellino e oggi giudice civile a Salerno, ndr), s’accorse di avere dimenticato l’agenda in albergo, se ne preoccupò moltissimo e corse a recuperarla. E di recente lo stesso dottor Cavaliero, il vero pupillo di Borsellino, ha parlato della importanza che l’agenda aveva per il Procuratore”.
Il racconto di Carmelo si sposta indietro nel tempo. “Gli era stata donata dal comandante dei carabinieri di Mazara del Vallo. Durante le vacanze di Natale del ’91 venne a Marsala e ci portò le agende”. “Le agende? Ce n’è un’altra uguale?”, lo interrompo. Carmelo apre un cassetto della scrivania e mi mostra l’agenda gemella. Leggo: agenda dei Carabinieri 1992.
Silenzio. Carmelo comprende la mia rinnovata emozione. Quella data, 1992, prendeva lo stomaco, costringeva a vedere le mani di Paolo Borsellino tracciare frammenti di terribili verità.
“Chi l’ha ucciso?” gli chiedo. Si stupisce, Carmelo, come dinanzi ad una domanda banale. “Tu sai che la mia vicenda giudiziaria e le accuse di più di venti pentiti si scatenarono quando dissi di essere stato sempre convinto che il Procuratore era stato ucciso per quell’indagine su mafia e appalti.
Tu lo sai”. Penso che forse sì, ero stato banale. E aggiunge: “Ma anche Borsellino si diceva certo che Giovanni Falcone, insieme con altre concause, fosse morto perché quella indagine avrebbe sconquassato mezzo mondo politico e imprenditoriale”.
Ora quella di Carmelo sembra una requisitoria: “Non è comprensibile, non è accettabile che Paolo Borsellino non sia mai stato sentito sulla morte di Falcone. E dire che aveva detto spesso che ciò che sapeva sulla strage di Capaci voleva rivelarlo ai pm.
Pensa – aggiunge – che aveva anche invitato a cena a casa propria il dottor Vaccara, il giovane sostituto inviato da Caltanissetta a Palermo per seguire gli sviluppi delle indagini di questa Procura.
Certo, Borsellino gli riversava la propria scienza investigativa e giudiziaria, ma sperava in un maggiore coinvolgimento.
Nulla, mai sentito. I vertici che avrebbero dovuto prendere l’iniziativa non lo fecero”.
Canale si sposta ancora nel tempo: “Falcone aveva chiesto e ricevuto dal capitano Giuseppe De Donno quel dossier su mafia e appalti. Pur sapendo che di lì a poco sarebbe stato trasferito al ministero di Grazia e Giustizia, era convinto che il proprio impulso iniziale avrebbe facilitato un’attenzione maggiore su quelle centinaia di pagine. Ma il procuratore capo Giammanco non gli assegnò la pratica…”. Mi evocano un ricordo le parole di Carmelo: anche Ingroia, nel 1997, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta disse che Borsellino si era detto convinto che dall’agenda elettronica di Giovanni Falcone si sarebbe potuto risalire alla scoperta dei moventi della strage di Capaci. “E dopo quel 23 maggio – continua Canale – arrivò un esposto anonimo sugli strani percorsi di quel dossier.
Borsellino volle incontrare Mori e De Donno e pretese che nessuno lo sapesse perché in Procura qualcuno aveva sospettato che l’anonimo fosse proprio De Donno. Eluse anche la scorta e si recò alla caserma Carini.
Ormai non si fidava della sua Procura. In caserma prima incontrò il colonnello Mori, poi chiamarono De Donno. Il Procuratore ne uscì convinto che avrebbe seguito lui quel filone su mafia e appalti, anche al di là delle altrui decisioni”.
Il racconto di Carmelo mi fa tornare in mente un altro ricordo, immagazzinato non so più quando.
Quello relativo alla riunione, credo del 15 luglio ’92, in cui i pm di Palermo che seguivano Mafia e Appalti comunicarono alla Dia che ne avrebbero chiesto l’archiviazione. Borsellino, presente, s’era mostrato quasi disinteressato ed aveva dato più attenzione agli sms sul telefonino.
“Non so se ti basta questa mia risposta – aggiunge Carmelo – ma c’è una nebbia fitta su quei fatti, tanto fitta da sembrare che voglia essere la protagonista”. “Che vuoi dire?” gli chiedo. E lui: “Tutte le mie querele contro i pentiti miei accusatori sono state archiviate.
Vorrei sapere dal gip che ha firmato le richieste di archiviazione dei pm se nella sentenza che mi ha assolto c’è una sola dichiarazione di un solo pentito riscontrata come vera. Sempre che quella sentenza assolutoria il gip l’abbia letta…”.
Insisto: “Non mi hai risposto. Chi ha ucciso Borsellino?”.
E Carmelo: “La morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino era desiderata, voluta da tanti. Matura, però, sulla via di Tangentopoli, quella siciliana, cioè mafia e appalti e quella milanese. Chi può immaginare, infatti, Falcone o Borsellino a capo della Direzione Nazionale Antimafia in quel tempo?
Chi può pensare che, da quel ruolo, avrebbero tollerato la disinvoltura giudiziaria di quel tempo?”.
Silenzio. Lascio Carmelo Canale al suo mondo, a quel mondo che esiste per proteggere il nostro.
Ed esco con tre date nella mente.
Come una giostra senza musica:
19 luglio ’92 morte di Borsellino,
20 luglio ’92 richiesta di archiviazione di Mafia e Appalti,
14 agosto ’92 archiviazione.
Non so che ora sia, ma a Palermo c’è buio.

 

LA BORSA DEI MISTERI E LA SPARIZIONE DELL’AGENDA ROSSA

 

Processo CANALE