Inchiesta mafia-appalti: cosa viene contestato all’ex PM Gioacchino Natoli

A Natoli i Pm contestano:

 

📌 di aver insabbiato l’indagine avviata dalla procura di Massa Carrara Natoli agendo in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco,. 

📌 di aver  aiutato i mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e gli imprenditori Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi) ad eludere le indagini

📌 di aver svolto una “indagine apparente”, “richiedendo, tra l’altro, l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale (inferiore ai 40 giorni per la quasi totalità dei target) e solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione, per assicurare un sufficiente livello di efficienza delle indagini” 

📌 di aver disposto, “d’intesa con l’ufficiale della Guardia di Finanza Screpanti che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la ‘messa a disposizione’ di Di Fresco in favore di Bonura, nonché una concreta ipotesi di ‘aggiustamento’, mediante interessamento del Di Fresco stesso, del processo pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo.

Fonte Grandangolo Agrigento

 

30.7.2024 Borsellino e ‘mafia e appalti’: ascoltati anche Scarpinato e altri magistrati


Mafia e appalti, la pista che viene da lontano

 
La notizia è diffusa da pochi giorni: l’ex magistrato Gioacchino Natoli è indagato per favoreggiamento alla mafia e calunnia. I pubblici ministeri di Caltanissetta lo indagano per aver “aiutato” i boss di Cosa nostra Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco (ex deputato della Dc negli anni ’80, morto nel 2002), Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini, dirigenti di vertice del gruppo Ferruzzi. Nell’invito a comparire si legge che Natoli “disponeva che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato. Interrogato dai pm di Caltanissetta, Natoli si è avvalso della facoltà di non rispondere. I suoi difensori hanno fatto sapere che l’ex pm “si riserva di chiedere alla Procura della Repubblica di Caltanissetta un successivo interrogatorio in cui fornire ogni utile chiarimento”.
I fatti per i quali Natoli è indagato risalgono al 1991 e precisamente nel periodo che va dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio.
Una indagine quella attuale dei magistrati nisseni che si ricollega a quella già espletata e in parte archiviata dall’allora procuratore capo Francesco Messineo, dagli aggiunti Renato Di Natale e Francesco Paolo Giordano, e risalente al giugno di 21 anni fa.
Al centro della questione una indagine che Gioacchino Natoli avrebbe “insabbiato” (è l’ipotesi di accusa) nel giugno del 1992, o meglio non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione il fascicolo aperto dai pm di Massa Carrara e poi confluito nell’indagine madre di Palermo sui rapporti fra i clan e il mondo della politica per l’aggiudicazione degli appalti pubblici.
Secondo certe ricostruzioni, proprio questo filone porta all’omicidio del giudice Paolo Borsellino. Ecco cosa dicevano, ma soprattutto scrissero, i magistrati di Caltanissetta: “La gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia aveva costituito uno dei molteplici moventi che avevano indotto Cosa nostra a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane del 1992; che tale movente era rappresentato dall’interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondimento di indagini, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici; che il movente suddetto aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da Cosa nostra di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancora prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese della cosiddetta tangentopoli”.
Tutto questo determinò un approfondimento da parte della procura di Caltanissetta delle indagini, non soltanto nei confronti degli appartenenti a Cosa nostra, cui il progetto stragista venne genericamente attribuito, ma più specificatamente e più direttamente verso coloro i quali si occupavano in concreto, per conto dell’organizzazione criminale di tipo politico-mafioso-imprenditoriale, dell’illecita gestione degli appalti per deciderne preventivamente l’aggiudicazione, per regolare la distribuzione di subappalti e l’acquisizione di tangenti e forniture.
Soggetti che per tale ragione avevano un preciso interesse a neutralizzare le indagini relative eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle.
Ancor più tale interesse si era rafforzato allorquando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione riprendendole nel solco originariamente tracciato da Giovanni Falcone.
A tal proposito è stato non solo sottolineato ma anche sentenziato nei vari processi sulla strage di via D’Amelio che l’eccidio ebbe una “accelerazione”.
“Il dossier mafia e appalti era un dossier molto importante – ha sostenuto l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, durante l’audizione davanti la commissione antimafia –, certo era un atto imperfetto, non possiamo considerarlo un rapporto perfetto.
Bisognava starci sopra, d’altra parte Giovanni Falcone che ne sollecitò la consegna nel febbraio del 1991 disse che bisognava affinare le metodologie di indagine”.
L’avvocato Trizzino ha aggiunto: “L’accelerazione della strage non ha senso guardando agli interessi puri e semplici dell’organizzazione mafiosa di Totò Riina”.
Con la notizia dell’indagine che coinvolge l’ex pm Gioacchino Natoli le connessioni tra mafia e appalti sono ritornate di attualità, ma si tratta, usando un eufemismo, di un ricorso storico.
Nella richiesta di archiviazione sui alcuni dei fatti, oggi in primo piano, la procura di Caltanissetta approfondì il tema.
Il tema delle connessioni fra mafia e appalti aveva ricevuto un notevole impulso dalla collaborazione di Angelo Siino prima e di Giovanni Brusca dopo.
Secondo i magistrati nisseni, le persone alle quali era affidata la gestione illecita degli appalti erano individuabili in Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Antonio e Salvatore Buscemi, Giuseppe Lipari, Giovanni Bini (che curava gli interessi della Calcestruzzi spa del gruppo Ferruzzi-Gardini), Antonino Reale, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano amministratore della Reale costruzione srl e consuocero di Vito Ciancimino.
Ecco che entra l’inchiesta della procura di Massa Carrara, giugno 1992. Scrivono i magistrati nisseni: “Che i Buscemi fossero oggetto di investigazioni abbastanza penetranti all’epoca, risulta dalla dichiarazioni del dottor Augusto Lama, già sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Massa Carrara, il quale ha precisato di avere trasmesso nell’agosto del 1991 a Palermo alcuni atti relativi ad indagini espletate nei confronti della Imeg, riconducibile ai fratelli Buscemi e di avere successivamente nel 1994, avuto un contatto con un magistrato della procura di Palermo. In quest’incontro venne evidenziato che gli elementi a suo tempo acquisiti a Palermo circa i rapporti fra il gruppo Ferruzzi e Cosa nostra avevano avuto riscontri cospicui ed erano stati compendiati in una nota informativa redatta dallo Sco della polizia di Stato”.
La società Calcestruzzi era stata citata anche dal collaboratore di giustizia Leonardo Messina, nelle dichiarazioni rese appena diciotto giorni prima della strage di via D’Amelio, proprio al procuratore Paolo Borsellino, come impresa afferente agli interessi di Salvatore Riina.
Dopo la morte di Borsellino la procura di Palermo riprende il vecchio spezzone di indagini pervenuto dalla procura di Massa Carrara sulla Imeg e dà una delega di indagini al Servizio Centrale Operativo della polizia, il quale risponde nel 1994 con una relazione inviata alla procura di Palermo, ufficio giudiziario che a sua volta, senza ulteriore attività, la trasmetteva alla procura di Caltanissetta nel 2000.
In quel rapporto veniva affermato che “sui soggetti considerati dal rapporto aveva indagato Giovanni Falcone e che la prima dichiarazione di Leonardo Messina circa l’interessamento di Riina nella Calcestruzzi fu raccolta da Paolo Borsellino. Quindi, pur non essendovi la prova piena e certa che l’interesse investigativo su mafia e appalti avesse potuto assumere il significato di matrice della strategia stragista, si affermava ugualmente un sottile filo conduttore come legame di lavoro tra Falcone e Borsellino”.
I magistrati di Caltanissetta così conclusero: “La magistratura di Palermo, probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi-Gruppo Ferruzzi, dal momento che il procedimento iniziato a Massa Carrara, a carico di Antonino Buscemi, fu archiviato a Palermo l’1giugno 1992, subito dopo la strage di Capaci”.

 di Giuseppe Martorana | 9 luglio 2024 PIOLATORRE.IT


Indagato l’ex pm Natoli: “Ha insabbiato l’indagine di Massa sulla mafia alle cave”

 

Colpo di scena nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta sull’intreccio. Cosa Nostra-appalti che avrebbe portato alla strage di via D’Amelio. Deve rispondere di favoreggiamento aggravato. “Accuse false”.

L’accusa, specie per un magistrato, è tra le più infamanti: favoreggiamento aggravato alla mafia. È questo il reato (oltre alla calunnia) che la Procura di Caltanissetta, a oltre 30 anni dalle presunte condotte che sarebbero ampiamente prescritte, contesta all’ex pm Gioacchino Natoli, una vita nell’antimafia, per anni componente del pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, pubblica accusa al processo Andreotti. In sintesi, secondo i colleghi che gli hanno notificato un invito a comparire per rendere interrogatorio, Natoli per aiutare imprenditori mafiosi come Francesco Bonura e Antonio Buscemi avrebbe cercato di insabbiare un filone della cosiddetta inchiesta mafia-appalti, una indagine che, ritengono i familiari del giudice Borsellino, sarebbe poi stata la causa dell’attentato di Via D’Amelio. “Su di me gravissime insinuazioni e accuse false. Ma sono stato e sono un uomo delle istituzioni e ho piena fiducia nella giustizia. Darò senz’altro il mio contributo nell’accertamento della verità”, ha replicato l’ex magistrato che questa mattina sarà interrogato dalla Procura di Caltanissetta.
Ma in che modo Natoli, nel tempo arrivato a ricoprire ruoli di vertice nella magistratura, avrebbe favorito Cosa Nostra? Nell’invito a comparire la Procura elenca una serie di condotte che ruotano tutte attorno a un procedimento a carico di ignoti, che ipotizzava a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 infiltrazioni mafiose nelle cave di Carrara, aperto dalla Procura di Massa Carrara e trasmesso a Natoli, allora pm a Palermo. Per i colleghi di Caltanissetta, su istigazione dell’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto, e con l’allora capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti, Natoli avrebbe finto di indagare disponendo intercettazioni lampo e “solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione”, scrivono i pm, evitando così che fossero trascritte invece conversazioni “particolarmente rilevanti dalle quali sarebbe emerso, ad esempio, il legame tra l’ex politico Ernesto Di Fresco e l’imprenditore mafioso Francesco Bonura. L’ex pm inoltre avrebbe omesso di indagare due imprenditori a disposizione di Bonura e poi chiesto l’archiviazione del fascicolo toscano “senza curarsi di effettuare ulteriori approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Massa”. Come se non bastasse, “per occultare ogni traccia del rilevante esito delle intercettazioni telefoniche, avrebbe disposto la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci”.
Sulla vicenda Natoli si era già difeso davanti alla Commissione Antimafia a cui aveva chiesto di essere sentito, stigmatizzando le accuse del genero di Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, che l’aveva indicato come il responsabile dell’insabbiamento di una inchiesta che, a suo dire, il suocero avrebbe invece certamente approfondito. Davanti all’Antimafia era stato ascoltato anche il giudice Augusto Lama che condusse da procuratore, in maniera brillante, l’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose nelle cave insieme all’ex maresciallo della Guardia di Finanza Piero Franco Angeloni. Un’inchiesta che dimostrava il tentativo di Cosa Nostra, alla fine degli anni ’80, di ripulire gli enormi proventi della droga investendo in attività lecite, come l’ingresso nelle cave apuane e penetrando negli appalti pubblici siciliani tramite società… al di sopra di ogni sospetto.


“Mafia e appalti”, indagato l’ex pm Gioacchino Natoli a Caltanissetta

 

La procura nissena interrogherà l’ex magistrato del pool antimafia di Palermo sulle ipotesi di favoreggiamento e calunnia

Natoli, pm ‘duro e puro’ e il Rapporto mafia appalti

Una fama di duro e puro, pronto a mostrare la Costituzione della Repubblica in una manifestazione di protesta generale indetta nel 2010, quando Gioacchino Natoli era vicepresidente nazionale dell’Anm:all’inaugurazione dell’anno giudiziario, per rivendicare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rispetto alle invasioni di campo della politica (presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, guardasigilli Angelino Alfano), i giudici si presentarono in toga e con la Costituzione in mano.
Presidente dell’associazione nazionale di cui Natoli era vice, all’epoca, era Luca Palamara, poi finito al centro di inchieste e oggi radiato dalla magistratura. Ora, d’improvviso, in bassa fortuna si ritrova lo stesso ex pubblico ministero del processo Andreotti, poi divenuto giudice e che ha concluso la carriera da presidente della Corte d’appello di Palermo, incarico che ha avuto fino al 2017, per chiudere del tutto con un anno di incarico al ministero della Giustizia, guidato da Andrea Orlando, come capo dell’Organizzazione giudiziaria.
Natoli – adesso indagato a Caltanissetta per calunnia e favoreggiamento, in riferimento al rapporto mafia e appalti – ha oggi 77 anni ma da giovane era stato, negli anni ’80, giudice istruttore del pool antimafia di cui facevano parte anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano gli anni di piombo siciliani, quelli in cui stavi da una parte o dall’altra: e da una parte, quella di magistrati, investigatori, politici scomodi, si moriva o comunque si rischiava.
Gioacchino Natoli si era sempre collocato su quelle posizioni intransigenti, restie ad accordi, interlocuzioni, colloqui, compiacenze con la parte opposta, quella delle collusioni e delle inconfessabili intese con Cosa nostra, fatta di borghesia e politica. Così, dopo le stragi del ’92, Natoli – nel frattempo passato in procura – si ritrovò in mezzo al guado. Non fu tra gli otto firmatari della lettera con cui, dopo via D’Amelio, un gruppo di pm presentò le proprie dimissioni, di fatto chiedendo al procuratore Pietro Giammanco di lasciare. E lui, il criticatissimo capo della Dda, ritenuto molto vicino all’esponente democristiano Mario D’Acquisto, della corrente andreottiana siciliana di Salvo Lima, lascerà effettivamente tra le polemiche.
Tra gli otto firmatari non c’era Natoli ma nemmeno Guido Lo Forte: eppure i due si ritroveranno, con Roberto Scarpinato (che invece la lettera la firmò) a far parte di un altro pool antimafia, quello della Procura, guidato, a partire dal 15 gennaio 1993, da Gian Carlo Caselli. Il nuovo procuratore arrivato da Torino e dall’esperienza maturata nella lotta al terrorismo (e poi al Csm) si fiderà ciecamente dei tre pm, ai quali affiderà la gestione della delicatissima inchiesta sull’omicidio proprio di Salvo Lima e poi l’istruttoria del processo dei processi, quello contro il senatore a vita Giulio Andreotti.
Caselli si insedia il 15 gennaio 1993, giorno della cattura di Totò Riina, successo enorme dello Stato e dei carabinieri del Ros, subito macchiato dalla mancata sorveglianza del covo del superboss, che poi verrà ripulito da emissari corleonesi, sicuri di non essere scoperti. La villa del complesso residenziale di via Bernini, ufficialmente, sarà “trovata” solo il 2 febbraio, diciotto giorni dopo. Nelle polemiche al veleno che ne seguiranno, più e più volte l’allora vicecomandante del Ros, Mario Mori, regista dell’operazione conclusa con la cattura di Riina, evocherà il rapporto Mafia e appalti come la vera causa dello scontro con i magistrati di Palermo.
Un rapporto, presentato la prima volta nel 1990, che conteneva la fotografia dei rapporti tra Cosa nostra, politici e imprenditori collusi: questo secondo il Ros, mentre la procura ha sempre sminuito il peso di quel contributo investigativo, ritenuto monco o privato a bella posta di varie parti. In oltre trent’anni di quell’informativa si è parlato tantissimo e proprio di recente è stata nuovamente indicata dall’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino nei processi sulla strage e sul depistaggio delle indagini, come il filone in cui Paolo Borsellino credeva di più per dare un volto agli assassini e ai mandanti esterni della strage Falcone.
Nel tempo gli ambienti della procura, di Mafia e appalti avevano detto l’opposto e cioè che serviva a poco, che era aria fritta e che da li’ non sono mai venuti fuori filoni importanti. Oggi torna ancora una volta di attualità con l’inchiesta della Procura di Massa Carrara, che nel 1991 era stata trasmessa proprio al pm Natoli. E a raccontare questi fatti alla commissione nazionale Antimafia era stato l’avvocato Trizzino.

 

3.7.2024 MAFIA e APPALTI: ex pm Natoli indagato per favoreggiamento