Chi è Giuseppe Pignatone nominato dal Papa presidente del Tribunale dello Stato Vaticano

 

Papa Francesco ha nominato il nuovo Presidente del Tribunale dello Stato Vaticano, si tratta dell’ex Procuratore della Repubblica di Roma in pensione dallo scorso maggio

 

 

 

Cortese e riservato come è stato fin qui. Rigoroso nel misurare le parole, che sa spendere a braccio con una fluidità non comune, ma senza gli spigoli che a volte si accompagnano a certi ruoli istituzionali. Giuseppe Pignatone conferma l’ufficialità della notizia: il Papa lo ha nominato alla Presidenza del Tribunale dello Stato Vaticano. Ma aggiunge soltanto un laconico: «Troppo presto per parlare». Niente domande, niente risposte. Nel diniego si intuisce il rispetto per la nuova funzione.

La nomina, in un ordinamento diverso, di un altro Stato, segue di poco il collocamento a riposo, al compimento dei 70 anni nel maggio scorso, dopo 45 anni di servizio nella magistratura ordinaria dello Stato italiano. Nisseno d’origine, un accento siciliano mai perduto nelle peregrinazioni della vita, era entrato in magistratura a 25 anni, nel 1974, uditore come si diceva allora, prima che si coniasse l’astrusa sigla Mot (Magistrato ordinario in tirocinio). La prima nomina nella sua città, Pretura di Caltanissetta. L’inizio di un percorso che immaginava da giudice civile e che ha preso, invece, da subito e per sempre la direzione del campo penale e degli uffici requirenti: per vent’anni lavora a Palermo. Da sostituto procuratore si occupa di processi per reati politici, dietro i quali si intuisce il braccio armato di Cosa nostra: l’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, del Segretario Regionale del Pci, Pio La Torre, del Segretario Provinciale della Dc Michele Reina, che si conclude con la condanna all’ergastolo della “commissione” di Cosa nostra.

Dal 1996 al 1999 è procuratore aggiunto alla Procura presso la Pretura di Palermo e nel 2000 torna in procura della Repubblica a coordinare la sezione Misure di prevenzione e poi una sezione della Dda: coordina le indagini che portano alla cattura di capi e gregari di Cosa nostra e, infine, all’arresto di Bernardo Provenzano. Sua, di concerto con l’allora Procuratore Pietro Grasso, è la strategia processuale – a proposito della quale non sono mancati dibattiti interni all’ufficio – che porta alla condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento dell’ex Presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro.

Nel 2008 il Consiglio superiore della magistratura lo nomina alla guida della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Sono quattro anni intensi, di vita blindatissima divisa tra una caserma che lo ospita e l’ufficio di Procura di un distretto difficile in cui la ‘Ndrangheta, in parte approfittando anche del cono d’ombra mentre il riflettore era puntato sullo stragismo dei Corleonesi in Sicilia, ha accresciuto il suo potere ramificandolo. È in quegli anni che si consolida l’asse tra la Procura di Reggio Calabria guidata Pignatone e la Dda di Milano diretta da Ilda Boccassini: insieme i due uffici, condividendo informazioni e un approccio simile alle indagini – parole misurate all’osso e convinzione solida e ribadita che le indagini e lo strumento penale sono funzionali al solo perseguimento del risultato processuale -, imbastiscono le indagini che portano ai due tronconi del maxiprocesso noto come Crimine –Infinito. Gli esponenti della ‘Ndrangheta capiscono presto l’aria che tira e mandano messaggi espliciti non rassicuranti: nella notte tra il 5 e il 6 ottobre 2010 arriva una telefonata anonima al 113: «Andate allo svincolo di San Giorgio extra, sul Calopinace. Troverete una sorpresa per Pignatone». La sorpresa è un bazooka a poche centinaia di metri dal Tribunale di Reggio Calabria. Più esplicita di così la minaccia non potrebbe essere. Sono passati appena pochi mesi dall’ordinanza di custodia cautelare che ha portato a centinaia di arresti tra Lombardia e Calabria. Crimine e Infinito vanno avanti come treni: arrivano velocemente a sentenza definitiva in Cassazione e dimostrano che la ‘Ndrangheta ha una struttura unitaria, anche se diversa da quella della cupola di “Cosa nostra”: una sorta di holding con la casa madre in Calabria e filiali per il mondo. Per la prima volta nel 2015, con il ramo milanese di questa indagine, si scrive la parola ‘Ndrangheta in una sentenza passata in giudicato.

Dopo Reggio, nel 2014, Giuseppe Pignatone diventa capo della Procura della Repubblica di Roma, una sede che, diceva un vecchio luogo comune, ha il peso di due ministeri. È un ufficio difficile, con un bacino d’utenza molto grande, che alle soglie della pensione Pignatone ha descritto a Fc così: «La cifra di Roma è la complessità. Abbiamo: esponenti della camorra e di gruppi di ’ndrangheta e di mafia siciliana, ma anche quelle che la Cassazione ha chiamato “piccole mafie”, originali e originarie, nel basso Lazio, a Ostia e pure in città. Il fenomeno particolare del “mondo di mezzo”, al momento confermato in appello, e un consumo altissimo di stupefacenti con conseguenze in termini di narcotraffico. Innegabilil problemi di corruzione ed evasione, casi di bancarotta per centinaia di milioni di euro. Il tutto nel centro del potere politico e nel contesto di un’amministrazione di tre milioni di abitanti più i turisti, che proprio perché così grande è luogo straordinario di riciclaggio».

Quando ci arriva Pignatone è un ufficio che, a torto o a ragione, mediaticamente parlando, si è portato dietro per anni la vecchia cattiva nomea di “porto delle nebbie”. Sono gli stessi indagati a mettere nero su bianco che sanno che l’aria è cambiata, accolgono la nomina con parole così: «È uno che non gioca», «butterà all’aria Roma». Il resto è storia nota: le indagini passate alla cronaca come Mafia Capitale, che finora hanno trovato conferme in Appello; quelle sui clan di Ostia, autoctoni «originali e originari», che hanno trovato anche in Cassazione il riconoscimento dell’aggravante mafiosa.

Nel 2015 fa clamore la decisione di Giuseppe Pignatone di chiedere l’archiviazione, accolta dalla Cassazione, per l’indagine in corso sul caso di Emanuela Orlandi. È un atto che fa parte della strategia della concretezza, oltreché del rispetto rigoroso del Codice: se, giunta a scadenza dei termini, un’indagine non ha elementi sufficienti per andare a giudizio con la ragionevole probabilità di ottenere la conferma processuale la si archivia, sapendo che in presenza di nuovi elementi può essere riaperta per decreto del giudice. È la stessa logica che ha spinto Pignatone a non arrendersi ai depistaggi del processo Cucchi, a prendere con la famiglia l’impegno a rileggersi tutte le carte per cercare di far luce sulle opacità di una notte buia per lo Stato, fino a trovare il bandolo del processo che sta giungendo in questi giorni alle battute finali con la richiesta di pesanti condanne per 5 carabinieri «Ma non per l’Arma» come ha tenuto a distinguere il Pm Govanni Musarò nella requisitoria.

Il resto è storia di oggi, 3 ottobre 2019, cinque mesi dopo la chiusura alle spalle della porta della Procura della Repubblica di Roma per limiti di età, se ne apre un’altra. La distanza fisica tra Piazzale Clodio e il Tribunale dello Stato Vaticano è fisicamente poca. Che anche spiritualmente non fosse troppo grande, pur nella riservatezza, s’era intuito, pochi mesi fa, quando a chi gli chiedeva se fosse valsa la pena di vivere così, Pignatone rispose: «Sono grato alla Provvidenza prima allo Stato dopo per la vita che ho vissuto. Ha avuto i suoi costi personali e familiari, ma, sì, ne è valsa la pena».