ARCHIVIO – 30.7.1992 🟧 ANTONIO INGROIA «Con Borsellino i pentiti spuntavano come funghi. Quando siamo andati via da Marsala ne gestivamo una dozzina.

 

ANTONIO INGROIA «Borsellino ucciso perché indagava su Giovanni»

 L’INTERVISTA L’ALLIEVO «Ucciso perché indagava su Giovanni» Ingroia: dopo la morte dell’amico andò allo sbaraglio

TUTTO cominciò con una telefonata, nel settembre dell’89: «Pronto? Ciao collega, sono Paolo Borsellino. So che devi prendere servizio alla fine di  ottobre, perché non vieni prima, così ci conosciamo e cominciamo a lavorare».
Poi tutto finì con un carabiniere che arriva di corsa sulla spiaggia, la faccia scura, il 19 luglio del ’92: «Dottore, a Palermo c’è stato un attentato al giudice Borsellino».
La corsa a casa ad infilarsi un paio di pantaloni, la notizia della morte, le lacrime, l’arrivo sul luogo della strage: Borsellino era ancora lì ma non gliel’hanno fatto vedere.
In mezzo ci sono tre anni di lavoro e di vita vissuta gomito a gomito: processi, interrogatori, riunioni, cene pranzi e colazioni, svaghi, incontri con le famiglie.
«Un’autentica scuola di vita», dice Antonio Ingroia, 33 anni, sostituto procuratore a Palermo e prima a Marsala, giovane magistrato cresciuto all’ombra e alla scuola di Paolo Borsellino.
«Eravamo più che amici, mi aveva adottato», ricorda Ingroia mentre aspetta di essere ascoltato dal comitato antimafia del Csm. Lui è uno degli otto magistrati «ribelli» che hanno dato le dimissioni dalla direzione distrettuale antimafia dopo l’omicidio di Borsellino.
Ingroia ha il tipico aspetto del ragazzo meridionale, capelli ricci neri, occhi marroni, barba non tanto lunga, sguardo penetrante.
Del giudice-padre ha assimilato anche il modo di parlare, sottovoce e lentamente, con l’inflessione di chi riflette sempre su quello che sta per dire. E mentre parla tormenta con le mani le sigarette che accende in continuazione.
Proprio come Paolo Borsellino, che adesso rivive nel suo ricordo. «Mi adottò perché anch’io sono di Palermo, e Paolo era un palermitano campanilista, gli piaceva avere accanto un concittadino a Marsala.
Si diede da fare per trovarmi un appartamento, ne ebbi uno sullo stesso pianerottolo del suo. Andai lì con mia moglie, lui era solo, vivevamo insieme dalla mattina alla sera. Io bussavo alla sua porta alle 8 del mattino per invitarlo a prendere il caffè e spesso lo trovavo già vestito di tutto punto, alla scrivania. “Sai – diceva – mi sono svegliato alle 5, non riuscivo più a dormire e allora mi sono messo a lavorare”.
La sera, dopo l’ufficio, licenziava la scorta dicendo che non sarebbe uscito. Dopo poco bussava da me: “Che facciamo, usciamo?”, e ce ne andavamo fuori con la mia macchina.
«Accanto a Paolo ho imparato nel primo anno quello che altrove si impara in dieci. Esistono due tipi di magistrati: quelli che aspettano che le carte gli arrivino sul tavolo e quelli che invece se le vanno a cercare, stimolando in continuazione la polizia giudiziaria e i sostituti. Paolo Borsellino apparteneva a questa seconda categoria, e trasmetteva l entusiasmo sul lavoro come nessun altro.
Risolveva qualsiasi problema d’ufficio, e in ogni inchiesta arrivava sempre a qualche risultato. Era il primo a preoccuparsi della nostra sicurezza, sapeva distinguere ogni segnale, “questo è una minchiata, questo è una cosa seria”, e a Marsala, su 5 sostituti, 3 avevano la scorta.
A Palermo invece, fino alla morte di Falcone, nessun sostituto della direzione antimafia aveva la scorta.
«Con Borsellino i pentiti spuntavano come funghi. Quando siamo andati via da Marsala ne gestivano una dozzina.
Gli dava fiducia, li metteva a proprio agio, sapeva come trattarli. Rosario
Spatola riuscì a telefonargli sull’apparecchio privato, chiedendo di potergli parlare, e lui non disse: “Appena posso la farò contattare dal maresciallo tal dei tali”, ma diede immediate disposizioni per incontrarlo subito in una caserma.
A Giacoma Filippello faceva i complimenti per come si vestiva, ad altri parlava in dialetto, la loro lingua. E si impegnava per la loro sicurezza.
«Decise di tornare a Palermo dopo l’istituzione dei distretti antimafia, era l’unico modo per continuare ad indagare sulle cosche.
Volle che lo seguissimo io e il maresciallo Canale.
Con l’omicidio di Giovanni Falcone è invecchiato di botto, ha perso dieci anni in due mesi. Lavorava e basta, aveva deciso che quest’anno non sarebbe andato in ferie. Si occupava anche della morte di Falcone, e in questo caso forse è contravvenuto ad una delle regole-base che ci aveva insegnato per sopravvivere nella battaglia contro Cosa Nostra: non accanirsi mai troppo in un’inchiesta per non dare l’impressione di un fatto personale, non occuparsi mai di qualcosa che non ti compete.
Io e altri gliel’avevamo anche detto di stare attento, ma lui rispondeva con frasi agghiaccianti; “Meglio che succeda a me che ai miei familiari o ad altri”. «Paolo Borsellino aveva una fiducia istituzionale quasi esagerata, fino a prova contraria non ammetteva di non potersi fidare di uomini che rivestono cariche istituzionali.
In questo era un idealista. Che cosa resta di lui? Il suo insegnamento di vita, un modo pulito di lavorare e di trattare le persone: colleghi, poliziotti o criminali che fossero.
Ma la bellissima e tristissima ingenuità ideale di Paolo penso che sia irripetibile. Io sinceramente non credo che riuscirò mai ad averla, non solo per proteggere me, ma perché penso che non sia giusto chiedere tanto ad un uomo.
Qualcuno come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone l’ha fatto, è stato un eroe, ma non credo che si possa andare avanti con gli eroi.
Loro non sono morti inutilmente, ma altri lo sarebbero. Fino all’ultimo ho pensato che Paolo non avrebbe condiviso il metodo della nostra protesta, anche se sarebbe stato d’accordo sui contenuti.  Ma poi ho deciso di aderire, perché la differenza è che ora lui non c’è più». Giovanni Bianconi LA STAMPA