Un Paese dimentico della “stagione dei veleni” oggi compie l’agiografia di un uomo tenuto e lasciato solo. Chi ha ucciso davvero Giovanni Falcone? Il sospetto. E noi.
Palermo-Roma, 26 settembre 1991. A un mese esatto (29 agosto 1991) dall’assassinio di Libero Grassi, imprenditore oppostosi al pagamento del pizzo («Io non sono pazzo: non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità di imprenditore» aveva detto proprio in una intervista tv a Michele Santoro l’11 aprile 1991), Maurizio Costanzo e Michele Santoro realizzano – imponendola alle proprie reti – la prima maratona a reti unificate tra Fininvest e RAI.
Per cinque ore filate quella sera le due trasmissioni Costanzo Show, in onda su Canale 5 dal Teatro Parioli di Roma, e Samarcanda, in onda su RaiTre dal Teatro Biondo di Palermo, sono in connessione costante e si scambiano la linea per un’edizione speciale, con in sala rispettivamente il Ministro della Giustizia Claudio Martelli a Palermo (sulla cui presenza-non presenza Maurizio Costanzo riesce a fare simpatica ironia) e l’allora Direttore – dal febbraio 1991 – della Sezione Affari Penali del Ministero della Giustizia Giovanni Falcone a Roma.
Va innanzitutto ricordato che Falcone aveva accettato l’incarico al Ministero con questo spirito in corpo: «Mi sento come uno che si sta tuffando in un mare in tempesta.»
Maratona epocale
La maratona a reti unite è un evento mediatico storico e di portata epocale, con undici milioni di telespettatori, facendo registrare il picco massimo di pubblico per entrambe le reti fino ad allora. Le due grandi aziende televisive, RAI e Mediaset (allora Fininvest), sono unite insieme, costrette dai due giornalisti di punta nonché dalla tragicità dei fatti di attualità – non solo l’omicidio di Libero Grassi, ma da tutto ciò che stava accadendo almeno da 10 anni in Italia – per una trasmissione contro la mafia con ospiti di altissimo livello, il più alto a disposizione della Repubblica.
Storici non possono che essere quindi alcuni passaggi di quella trasmissione: quattro in particolare, che scorrono uno di seguito all’altro nel video collage sopra presentato.
Primo passaggio.
Il primo passaggio è la simbolica e potentissima messa a fuoco da parte di Costanzo di una t-shirt bianca con la scritta “Mafia Made in Italy“, con piena approvazione del pubblico. Pochi secondi, un gesto semplice. È storia. È un appello alla ribellione civile: “la bruciamo?!“, chiede Costanzo, e accende una miccia ben più grande del piccolo lembo della maglietta.
Il secondo passaggio è il non ben chiaro e allusivo intervento di Leoluca Orlando.
Sindaco di Palermo già allora (1985-1990) e poi anche dopo (1993-2000 e 2012-2022), avverso a Giovanni Falcone. Dal mero passaggio non si riesce a intendere la vera finalità di Orlando, eppure emerge un tono tutt’altro che amichevole nei confronti di Falcone.
Il terzo passaggio è il battibecco con Falcone innescato da Alfredo Galasso.
Al di là del merito, solo Alfredo Galasso, avvocato e professore universitario autorevole e rispettato, è applaudito nelle proprie affermazioni, Falcone no. E Galasso è applaudito per ben tre volte, l’ultima, di sfogo e conclusione, sulla frase emotiva – eppure così sbagliata – iconica “e poi Giovanni non mi piace che stai dentro il palazzo del Governo, non mi piace!”.
Chissà quanti di quelli che applaudirono sapevano o ricordavano che Galasso dal 1981 al 1986 era già stato membro del CSM, che ha ben sede a Roma e ha ben a che fare con le Istituzioni della Repubblica.
“La Rete”
I due veementi attacchi frontali avverso Giovanni Falcone di Leoluca Orlando e Alfredo Galasso sono allora solo le ultime di una lunga e dura serie di dichiarazioni pubbliche dei tre fondatori (Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e Carmine Mancuso) del movimento politico “La Rete” contro Giovanni Falcone a partire da metà 1989.
Falcone era reo, a detta dei fondatori de La Rete, di star provando da anni a insabbiare le posizioni del politico democristiano, corrente andreottiana, Salvo Lima.
Orlando a maggio 1990 accusò Falcone di aver “tenuto chiusi nei cassetti” della Procura di Palermo, dove allora ancora lavorava, una serie di documenti relativi agli omidici politici di Michele Reina, di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo, omicidi su cui Falcone continuava a indagare da anni.
Falcone a sua volta accusò Orlando di “cinismo politico” e su La Repubblica dichiarò: “”Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati“.
Il 15 ottobre 1991 Falcone venne convocato davanti al Consiglio Superiore della Magistratura (una ricostruzione dell’intera vicenda qui) a seguito dell’esposto presentato l’11 settembre precedente (dieci giorni prima della maratona tv) da Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso, esposto preceduto da una intervista-accusa apparsa il 5 settembre a pagina 3 de La Repubblica.
Era il 10 agosto 1991 quando Falcone dichiarò al fratello del magistrato Antonino Scopelliti, al funerale di questi, di sentirsi già condannato (in Aldo Pecora, Primo sangue, Rizzoli, 2010, p. 64). Solo 6 giorni dopo, il 16 agosto, parte dal Quirinale una lettera firmata dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga verso il Ministero della Giustizia, in copia Palazzo Chigi e Viminale, affinché sulla “già nota teoria di Orlando […] venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”.
L’esposto dei leader de La Rete al CSM è il là che si aspettava.
Di fronte al CSM come sempre Falcone si alzò con la schiena dritta: «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo. […] vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo”.
Il 12 gennaio 1992 Falcone dichiarò alla trasmissione tv “Babele” condotta da Corrado Augias su RaiTre due suoi frasi rimaste tragicamente celebri: “Per essere credibili bisogna essere ammazzati?” e «Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l’hai fatta esplodere.».
Leoluca Orlando non smentì e non si pentì mai delle proprie accuse. Parimenti è sempre rimasto fermo sulle proprie posizioni anche Alfredo Galasso.
La stagione dei veleni
Non è certo difficile comprendere perché quel periodo venne definito per Giovanni Falcone “la stagione dei veleni”. Questo era il clima in cui Giovanni Falcone si trovava a vivere. Non appare mai né tranquillo né sereno nelle proprie dichiarazioni, siano esse scritte o a voce o ancora in show televisivi. E come sarebbe potuto essere diversamente? Un uomo fatto sentire solo, reo di aver tentato con tutte le forze di combattere la più grande organizzazione criminale di tutti i tempi.
E nonostante tutto ciò, Giovanni Falcone riuscì ancora in due grandi successi, forse troppo spesso dimenticati.
Il primo è – ancora contro tutto e tutti – l’istituzione della allora detta “Procura Nazionale Antimafia” o “Superprocura”, poi e da allora Direzione Nazionale Antimafia, istituita per decreto-legge, approvato dal Parlamento il 16 novembre 1991. Pare incredibile a leggerlo ma perfino l’Associazione Nazionale Magistrati allora protestò per questa scelta.
Il secondo valse l’arrivo a conclusione del Maxiprocesso con la conferma in Cassazione, il 30 gennaio 1992, delle condanne alla mafia, affermando “finalmente” non solo l’esistenza della mafia ma del suo essere una organizzazione dotata di un centro di comando unitario (c.d. “teorema Buscetta”). Falcone infatti suggerì un – ennesimo – c.d. “monitoraggio” delle sentenze emesse dalla I Sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal 1985 (e, si badi bene, fino al 1993!) dal giudice Corrado Carnevale (giornalisticamente denominato “l’ammazza sentenze”).
Allora bastò il polverone per far desistere Carnevale e fargli cedere il Maxiprocesso in favore di altra Sezione, poi il criterio della rotazione divenne regola.
Carnevale non ebbe mai a nascondere né prima né dopo la sua personale antipatia, anzi diciamo pure il suo personale disprezzo per Giovanni Falcone.
Infine il quarto passaggio, forse il più iconico
Un giovane e allora ancora sconosciuto Salvatore Cuffaro, deputato alla Ars, che si scaglia con inaudita virulenza avverso non ben specificati nemici, accusando l’intera maratona di aver raccontato “buffonate“, di aver messo in scena un “giornalismo mafioso“, e ancora di “aver messo in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore che abbia la democrazia cristiana in Sicilia“.
“Dovrete rispondere del danno che avete fatto alla Sicilia e delle cose infamanti che avete fatto alle persone migliori”, le parole finali di Cuffaro, che allora però non indicò specificamente alcun passaggio della trasmissione né a chi degli intervenuti si riferisse.
In seguito chiarì di essere intervenuti a difesa di Calogero Mannino, e di aver rivolto le accuse di giudice “corrotto” “volgare” e “manovrato“, ossia al magistrato Francesco Taurisano, e non a Falcone. Salvatore Cuffaro non ha mai smentito ciò che ha detto in quella occasione.
La carrellata di passaggi, oltre a essere documentazione storica, è utile per comprendere il clima in cui era il Paese e il dibattito pubblico in quegli anni.
La Mafia era ormai realtà certa. Eppure…eppure ancora non si riusciva a non (farsi) instillare il dubbio di un secondo fine in chi le si opponeva anche frontalmente.
Eppure ancora si poteva sostenere liberamente che parlare di mafia e mafiosi avrebbe infangato il buon nome di un’intera terra e di un intero popolo.
Eppure ancora non si era arrivati a capire cosa la mafia era capace di ordire. Eppure ancora non si era capito quanto i giudici che combattevano la mafia fossero soli e indifesi, senza che lo Stato e la Società Civile fossero capaci di tutelarli e sostenerli, supportandoli nelle loro azioni.
In un teatro pieno, con milioni di videotelespettatori, non è l’oggi osannato da tutti giudice Giovanni Falcone a ricevere il maggior numero e i più scroscianti applausi.
Giovanni Falcone in quel teatro quella sera era già un uomo solo?
Sì, era già un uomo solo. Lo Stato, noi, non eravamo con lui.
Per provare a riflettere ancora su questo interrogativo – come ad alcuni altri che ci saranno venuti in mente seguendo il mix di passaggi – ci sono queste due video interviste realizzata da Michele Santoro a Giovanni Falcone nel 1990 e nel 1991.
L’intervista del 1990 è quella col celebre passaggio “Io credo che la forza dell’uomo sia nel fatto che è un animale che si abitua a tutto…” come risposta al come si sentisse vista la consapevolezza di essere costantemente un obiettivo della mafia.
E ancora una intervista di Santoro a Falcone del 1991 a Samarcanda.
A chiudere il cerchio per aiutare a comprendere il clima e il contesto di quegli anni, si ricorda che nemmeno un anno dopo nel giro di due mesi vennero barbaramente uccisi i due magistrati di punta del Maxiprocesso: Giovani Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992).
Allora, forse, la società civile cominciò maggiormente a farsi sentire prendere un poco di più sulle proprie spalle, sulle proprie gambe, la lotta alla mafia.
Il 14 maggio 1993 sarebbe potuto e forse dovuto proprio morire Maurizio Costanzo, scampato all’attentato di via Fauro, a Roma, poco distante dal Teatro Parioli, dove aveva appena registrato la puntata di quel giorno del Costanzo Show. Segnale evidente della volontà della mafia di colpire un’altra persona la cui azione pubblica, per quanto singola eppure potentissima, l’aveva scossa profondamente, perché rivelata ancora di più agli occhi del mondo, della società, indicandola, ponendola sotto i riflettori e additandola come il male.
Perché più di tutto è questo che la mafia e la criminalità organizzata non tollerano: lo sdegno pubblico e l’essere posta sotto i riflettori.
Due cose ci restano di quella esperienza
La prima è che Maurizio Costanzo in primis e Michele Santoro che accettò e sostenne la proposta scelsero coraggiosamente di utilizzare il potere di cui disponevano per parlare di lotta alla mafia, di prendere posizione, di interessare il Paese intero su una battaglia civile irrinunciabile. Lo fecero consapevoli che gli sarebbe costato, e gli è costato eccome. Avevano il potere, del potere, una forma di potere, e scelsero volutamente di metterlo al servizio del bene comune.
La seconda è che oggi ancora siamo un Paese dimentico di quella “stagione dei veleni” in cui con la cultura del sospetto immergemmo innanzi tutto Giovanni Falcone. Falcone che solo si levò a indicarci la via della rettitudine tentando di suggerirci e mostrarci punti di debolezza della mafia e strumenti per combatterla efficacemente, e noi allora lo tradimmo, lo lasciammo solo.
Giovanni Falcone è morto anche per colpa dello Stato, e lo Stato siamo noi, che abbiamo lasciato solo Giovanni Falcone.
Questa seconda lezione è quella di cui potremmo e dovremmo fare memoria, ancora oggi, invece di santificare soltanto un uomo che santo non volle mai esser reso, ma, chiedendo ascolto e supporto, incontrò solo sospetti e porte in faccia.
Imparare a discernere: questa resta la sfida vera, per ogni società e per ogni sua fase storica. Su cosa oggi dobbiamo imparare a discernere e discernere meglio?