GIUSEPPE COSTANZA «Ma che fa?», urlai, «così ci andiamo ad ammazzare!»

 

 

GIUSEPPE COSTANZA è nato a Villabate, in provincia di Palermo, il 14 marzo 1947. Nel 1958 insieme alla famiglia si trasferisce a Palermo dove frequenta la quinta elementare alla scuola Verdi. Fin da piccolo ha fatto da “aiutante” prima di un barbiere de posto e poi di un parrucchiere di Palermo. Di ritorno dalla leva militare riprese l’attività di parrucchiere e nel 1970 si sposò. Sempre in quell’anno aprì una parruccheria, il lavoro andava bene ma lui tornava a casa distrutto e per di più, con i solventi e le soluzioni che si usavano per fare i capelli, si stava rovinando le mani. Nel 1982 conseguì la licenza media, facendo la scuola serale.
Fece domanda di assunzione presso qualche ente pubblico, fra cui il Ministero di Grazia e Giustizia. Entrò in servizio mediante chiamata diretta nel ministero di Grazia e Giustizia nel novembre del 1984.
La sua qualifica era “conducente di automezzi speciali” e la destinazione era l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Dapprima lo misero all’ingresso del Tribunale. Da lì entrava il pubblico al quale doveva controllare i documenti. Svolse questo lavoro per poche settimane, dopodiché un giorno un collega di nome Purpura gli chiese di accompagnarlo a sbrigare una commissione e, nell’occasione, di mettersi alla guida. Dal giorno dopo cominciò a sostituire I colleghi assenti. In quel periodo ha accompagnato vari giudici, come ricorda lui stesso “una volta Leonardo Guarnotta, un’altra Paolo Borsellino, un’altra ancora Gioacchino Natoli. Come ricorda nel libro “Stato di abbandono” (scritto da Riccardo Tessarini – dove è lo stesso Costanza che parla): “Verso la fine dell’anno, cominciò a spargersi la voce che Falcone non volesse più il suo autista personale, Paolo Sammarco, per cui tra gli autisti giudiziari si diffuse un certo timore. Nessuno, infatti, voleva prendere il suo posto perché significava trovarsi al fianco di un bersaglio della mafia.
Un giorno, un collega venne da me e disse: «Costanza, deve andare dal dottor Falcone». Andai in una stanza del bunker, dove il Giudice mi aspettava. Bussai, mi accolse cortesemente e mi fece accomodare. «Costanza, lei dove abita?», mi chiese. «I suoi familiari cosa fanno? Da dove viene? Suo padre che fa?»… ma Falcone sapeva già tutto! Aveva già fatto una ricerca sul mio conto, e attraverso tutte quelle domande voleva semplicemente capire se gli dicevo la verità e, di conseguenza, se si poteva fidare di me. «Se la sentirebbe di guidare la mia auto?», mi disse. Non potevo rispondere di no… «Va bene», continuò, «allora domani mattina venga a prendermi in via Notarbartolo, 23». L’indomani, quindi, mi presentai puntuale sotto casa sua. Fino a quel momento, tutto tranquillo. A un tratto, sopraggiungono due auto della Polizia di corsa: una si piazza davanti alla mia, l’altra dietro. Scendono sei agenti, armi in pugno. Alcuni entrano nel condominio per andare a prenderlo di sopra, altri aspettano davanti all’ingresso. Intorno a noi, tutto bloccato: traffico, pedoni, ciclisti. Non me l’aspettavo… I primi due mesi furono duri.
Quando mi mettevo alla guida, il sudore mi scendeva dalla fronte per la tensione. Non ero abituato a vedere pistole e mitra spianati, a sentire sirene, a sfrecciare per le strade della città. Tutto senza che il Ministero mi avesse mai fatto fare il corso di formazione che i miei colleghi più anziani avevano fatto. Imparai direttamente sul campo… Realizzai chi fosse Falcone solo dopo essere entrato in servizio, vedendo il sistema di protezione intorno a lui e, nonostante il pericolo, decisi di restare per due ragioni.
La prima, perché mi ritrovai improvvisamente tra l’incudine e il martello e, quando te ne accorgi, sei già dentro. Solo “stando dentro” vieni a conoscenza di certe cose, tant’è che, se molli, per un qualsiasi motivo, e alla personalità succede qualcosa di grave, il primo a passare dei guai sei tu.
La seconda, più umana se vogliamo, perché ti rendi conto della funzione che svolge quella persona nella società e del rischio che corre, non solo lui, ma anche gli altri che lo proteggono o che con lui collaborano.
Umanamente, quindi, non me la sono sentita di mollarlo, perché vedevo che aveva bisogno di essere affiancato da persone di fiducia.” Giuseppe Costanza dal 1984 al 1992 fu l’unico conducente personale del Dott. Falcone, era sempre presente, tranne rare volte. Il 21 giugno del 1989, quando ci fu l’attentato, fortunatamente fallito, all’Addaura, Giuseppe Costanza era lì.
Alla luce di quanto successo i suoi familiari volevano che lasciasse il posto, poiché era troppo pericoloso, ma lui non se la sentì di abbandonare il Dott. Falcone; e lo seguì anche quando, una settimana dopo, venne nominato Procuratore aggiunto.
Giuseppe Costanza, in seguito al fallito attentato, decise di tenere un diario. C’è un parte del diario, che è contenuta nel libro di cui prima, che mi ha colpito maggiormente: l’8 novembre 1989 scrisse “[…] così, dopo cinque anni, mi ritrovo ancora con lui. Ogni uscita potrebbe essere l’ultima, senza che mi sia riconosciuto niente. Se succederà qualcosa, non voglio tutte quelle messinscene che si ripetono per ogni omicidio di Stato. Da morto, non mi servono. Da vivo, non mi riconoscete. Questa è ipocrisia!”
Il 22 maggio 1992 il Dott. Falcone lo chiamò (quella fu l’ultima chiamata) a casa, di mattina presto, e gli disse che sarebbe arrivato l’indomani, ma riservandosi di comunicargli l’orario di arrivo in un secondo momento. Lui allertò nel frattempo il servizio scorta. Il giorno della strage, il 23 maggio, alle sette, Giuseppe Costanza va a prendere l’auto di servizio in via Lo Jacono e si reca in tribunale. Chiama il Dott. Falcone e lui gli comunica che sarebbero arrivati alle 17.45, così lui richiama l’Ufficio scorte, comunicando al responsabile di turno l’orario.
Di seguito vi riporto direttamente il ricordo dello stesso Costanza, riportato nel libro, di quel maledetto 23 maggio 1992:  “Quel 23 maggio, era un sabato, andai a prendere la Croma bianca in via Lo Jacono, posteggiata come al solito dietro casa del Giudice e sorvegliata da agenti della Polizia.
L’appuntamento con la scorta era alle 17.45 nell’aeroporto di Punta Raisi. Lungo la strada non notai nulla di sospetto, o quasi: una Fiat 131 blu posteggiata fuori della galleria di Isola delle Femmine, sull’altro lato dell’autostrada. Dentro non c’era nessuno. Arrivai alle 17.30 ed entrai con l’auto nella pista di atterraggio, dove erano appena arrivati anche gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello, Angelo Corbo e Paolo Capuzza, con altre due Croma (una marrone e l’altra azzurra). Falcone e sua moglie atterrarono puntuali con un piccolo aereo, un Falcon 10 del Sisde, al che ci avvicinammo con le auto all’aereo. Non avevano valigie, perché dovevano restare solo un giorno. Lui teneva due borse, che ripose nel bagagliaio, ma notai che non aveva con sé il suo inseparabile computer. Ci salutammo con un cenno, dato che non amava i convenevoli.
La moglie mi sorrise. Dato che lei soffriva di mal d’auto, salì davanti, al posto del passeggero. Falcone comunicò la direzione a Montinaro e si mise alla guida, com’era già accaduto altre volte. Quindi io mi sedetti dietro, al centro. Loro non allacciarono le cinture di sicurezza. Non lo facevano mai, anche per evitare ritardi in caso di fuga dall’abitacolo. Erano di buon umore. Per strada si parlava del più e del meno e del fatto che non c’erano stati segnali d’allarme in città.
Lei guardava fuori, in silenzio. «Dottore, le ho comprato quella cosa», esclamai. «Eccole il resto». E presi dalla tasca 60.000 lire. La settimana prima, a Palermo, mi aveva chiesto di comprargli un cric per l’auto della moglie e mi aveva dato addirittura 90.000 lire. Prese i soldi, li infilò nella tasca della giacca e disse sorridendo: «Aveva un pensiero? Non poteva aspettare più?», come per voler dire che glieli avrei potuti restituire tempo dopo. Poi mi spiegò che la gita che avevamo in programma di fare insieme a Favignana, in occasione della mattanza dei tonni, era stata rinviata.
La guida del Giudice era quella di un comune automobilista, andava ai 120/130 chilometri orari e non “copriva” la carreggiata, nel senso che non adottava la tecnica abituale di noi conducenti, quella cioè di tallonarsi lateralmente. La tecnica di occupare tutte le corsie dell’autostrada, compresa quella di emergenza, impedisce ad altri di intromettersi tra un’auto e l’altra; per cui, se quel giorno avessimo proceduto come di consueto, chi azionò la bomba avrebbe visto tre auto avanzare l’una accanto all’altra, e di certo saremmo stati tutti investiti in pieno dall’esplosione. Falcone, invece, guidava normalmente e si teneva a distanza di sicurezza dalla prima Croma, quella marrone, mentre quella azzurra, a sua volta, stava più lontana perché la sua guida, fondamentalmente, era imprevedibile. Poi ci fu il “fatto” delle chiavi. Mi disse che, appena arrivato a casa, aveva un incontro con dei colleghi riguardante la Direzione nazionale, per cui mi chiese di accompagnare la moglie su a casa e che lui avrebbe continuato da solo, con la scorta. «Mi venga a prendere lunedì mattina a casa alle sette», concluse. Non che ci fossero motivi particolari, semplicemente ebbe la cortesia di lasciarmi il tempo per organizzare il ricevimento per la comunione di mio figlio Alessandro, che si sarebbe tenuto il giorno dopo.
Dato che i mazzi di chiavi erano due (una copia la teneva lui e l’altra io) e che le mie in quel momento erano attaccate al cruscotto, dissi: «Allora, quando arriviamo a casa, mi dia il mio mazzo di chiavi, così lunedì posso riprendermi la macchina».
Non so perché, forse era soprappensiero, fatto sta che, in un attimo, sfilo il mazzo di chiavi dal cruscotto, mise la mano nell’altra tasca della giacca, prese il suo mazzo, lo infilò nel cruscotto e riaccese l’auto, ancora in trazione.
In quell’istante, l’auto si spense e rallentò perché la marcia inserita era la quarta. «Ma che fa?», urlai, «così ci andiamo ad ammazzare!». Lui, girando il capo verso la moglie, che annuiva stupita, disse: «Scusi, scusi!». Vedo il cartello autostradale dello svincolo di Capaci e poi un lampo. Dopodiché, il nulla. Escludo categoricamente che volesse farci uno scherzo, anzi sono certo che in quel momento non fosse lì con la testa, forse perché stava pensando alla riunione. Il fatto di aver sfilato le chiavi provocò lo spegnimento immediato del motore, facendo rallentare l’auto quel poco sufficiente per salvarmi la vita, perché, se non l’avesse fatto, la bomba sarebbe detonata proprio sotto di noi. Esplose, invece, sotto la prima Croma, quella che trasportava Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, scaraventandola a sessantadue metri di distanza e riducendola, sebbene fosse un mezzo blindato, in mille pezzi.
Noi ci schiantammo contro un muro di terra, asfalto e cemento, e un’onda d’urto provocata da oltre cinquecento chili di tritolo. Gli agenti Cervello, Corbo e Capuzza, invece, che ci seguivano dentro la Croma azzurra, subirono un duro colpo, ma si salvarono, tant’è che accorsero subito in nostro aiuto.” Dopo qualche ora, quando arrivarono i soccorsi e lo presero, Giuseppe Costanza era svenuto e disteso tra i sedili anteriori e posteriori, nel centro della canaletta. Furono trasportati in elicottero al Pronto soccorso dell’ospedale Cervello. Falcone e la moglie erano ancora vivi. Dopodiché li trasferirono nel reparto di Neurochirurgia del Civico. Il Dott. Falcone e la Dott.ssa Morvillo morirono poche ore dopo in ospedale, i ragazzi della prima Croma, gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani morirono sul colpo, mentre si salvarono, pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali, lo stesso Giuseppe Costanza e gli agenti della terza Croma, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. A metà giugno Giuseppe Costanza viene dimesso dall’ospedale e il 26 novembre dello stesso anno venne insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:  “Fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone, dal quale non aveva voluto mai separarsi, pur consapevole del gravissimo rischio cui si esponeva in ragione del suo incarico, continuava a svolgere le mansioni di autista con attaccamento al dovere, altruismo e grande coraggio. Coinvolto, a bordo dell’auto di servizio, nel feroce e proditorio agguato di stampo mafioso nel quale perdevano la vita il magistrato e la consorte, sfuggiva fortunosamente alla morte rimanendo gravemente ferito. Splendido esempio di elette virtù civiche e di nobile spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.”  Purtroppo, come è accaduto per gli altri sopravvissuti, anche Giuseppe Costanza venne abbandonato dalle istituzioni (e non solo), e solo dopo suoi innumerevoli sollecitazioni e dopo lungi mesi, inviando anche una lettera al Presidente della Repubblica, gli vennero riconosciuti, a lui e alla sua famiglia, alcuni diritti che gli spettavano per legge. Dopo un periodo di aspettativa e una lunga riabilitazione rientrò in servizio nell’ottobre del 1993. Ma lo misero a fare fotocopie o a dividere documenti ai vari uffici. La mattina del 23 maggio 1994, amareggiato dalle tante, troppe delusioni che aveva subito in quei due anni successivi alla strage si incatenò alla cancellata del tribunale di Palermo, con un cartello appeso al collo sul quale c’era scritto: «Vittima della mafia e dello Stato». Giuseppe Costanza ricorda che: “Mentre là sotto, nell’aula-bunker, si ricordavano i caduti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, io, sopravvissuto a una di queste, ero fuori a protestare. Arrivò tanta gente: funzionari, colleghi e giornalisti ai quali rilasciai delle dichiarazioni. Mi fece eco Giovanni Paparcuri dicendo: «Ha ragione. Anch’io, da anni, mi occupo del Servizio informatico della Direzione distrettuale antimafia ed ho la semplice qualifica di autista». Dopo un po’, mi raggiunse Maiorca, con un cellulare. Dall’altra parte c’era Caselli, al quale chiesi di essere ricevuto dal ministro della Giustizia Biondi, in visita quel giorno a Palermo. Acconsentì. Mi sciolsi dalle catene e mi recai in Prefettura, dove più tardi parlai con Biondi. Da lui ottenni la promessa che la questione dei sopravvissuti civili sarebbe stata portata in Consiglio dei ministri. Quel gesto fu una vittoria e una mortificazione al tempo stesso. Una vittoria perché, nonostante mi avessero messo i bastoni tra le ruote, riuscii a ottenere l’attenzione che speravo e, anni dopo, ciò che mi spettava; ma fu anche una mortificazione per il modo in cui dovetti agire. Incatenarmi in una pubblica piazza per rivendicare un diritto…” Il 19 febbraio del 1995 Giuseppe Costanza consegue il diploma presso l’istituto tecnico commerciale Jacques Maritain. Il 21 marzo partecipa alla prova di dattilografia e, finalmente, a fine marzo viene trasferito al Cei dove svolge compiti di assistenza informatica. L’11 maggio dello stesso anno viene formalmente retrocesso a commesso e sarà riassegnato al livello precedente e qualificato retroattivamente come dattilografo, sempre dopo le sollecitazioni dello stesso Costanza, soltanto nel 1998, dopo 3 anni! In questi anni Giuseppe Costanza è stato abbandonato da tutti, in primis dalle istituzioni, né ha subite tante, come è accaduto purtroppo a tutti i sopravvissuti. Io in questo post ho scritto solo alcune cose. Post, ci tengo a sottolineare, che non avrei potuto scrivere senza consultare il libro “Stato di abbandono – Il racconto di Giuseppe Costanza: uomo di fiducia di Giovanni Falcone”, che vi consiglio di leggere. Da quel maledetto 23 maggio ha dovuto lottare per vedere affermare dei propri diritti. Come ha detto lui stesso in questi anni, è stato abbandonato dallo stato e non solo. La prima volta in cui è stato invitato a commemorare l’anniversario della strage è stato nel 2014, da parte della Scuola di formazione del Corpo di Polizia penitenziaria di Roma. Soltanto dal 2015 è spesso invitato in qualità di ospite d’onore da funzionari di Stato, docenti, giornalisti, esponenti delle Forze dell’Ordine, delle imprese e dell’associazionismo per raccontare la sua storia in tutta Italia.  Giuseppe Peppino Costanza è un grande uomo, che conscio del grande pericolo non si è mai tirato indietro, ha sempre seguito il Giudice Falcone e non lo ha mai abbandonato. Io ho letto tutto il libro di cui parlavo prima e ci sono stati momenti in cui mi sono emozionato, il racconto di Giuseppe Costanza è qualcosa di indescrivibile. In questi anni è stato abbandonato dallo stato, è diventato quasi un peso…lo so che può essere poca cosa, ma io non lo dimenticherò mai, ricorderò sempre il suo sacrificio giornaliero, il suo essere vittima se pur sopravvissuto, perché lui in quel pezzo di autostrada ha perso parte della vita e ci sono delle ferite che non si rimargineranno mai, quelle dall’anima. GRAZIE GIUSEPPE COSTANZA!!  

 I SOPRAVVISSUTI DI  GIUSEPPE GALEAZZO  – F.B.

 

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