19.3.1997 Condannato a 21 anni I giudici: «Brusca non è attendibile». Il pentimento di Giovanni Brusca è un bluff. Ne sono convinti i giudici della sesta sezione del tribunale di Palermo che hanno condannato il boss di San Giuseppe Jato a ventun anni di carcere per traffico di armi e droga. Secondo le motivazioni della sentenza le rivelazioni di Brusca non avrebbero aggiunto nulla di nuovo a quanto già altri collaboratori avevano dichiarato né l’imputato ha mostrato una chiara dissociazione dalla mafia o un vero pentimento. «Giovanni Brusca – scrivono anzi i giudici – denota una particolare mancanza di pietà umana» e nonostante il ruolo coperto all’interno di Cosa nostra non ha aiutato nel ritrovamento di armi né di soldi o nell’arresto di latitanti e il suo contributo è quindi inferiore alla gravità dei fatti che gli vengono contestati. [Agi]
24.10.1996 Patto tra i Brusca contro i pentiti
«L’incontro in aereo con Violante? C’era nostro fratello Emanuele, ma non gli parlò» «Dopo l’arresto mio fratello decise che dovevamo fìngere di collaborare per inquinare le indagini» Patto tra i Brusca contro i pentiti Enzo-, io e Giovanni volevamo salvare Riinajr PALERMO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Enzo e Giovanni Brusca: due fratelli contro. Il primo, che si propone come «vero pentito», accusa il fratello maggiore, subentrato al padre «Binnu» nel comando della storica cosca del loro paese, San Giuseppe Jato, a trenta chilometri da Palermo. Gli rimprovera di aver tentato anche l’impossibile per coprire Giovanni Riina, il primogenito ventenne del padrino di Losa nostra in Sicilia, Tot”) Riina. Un tentativo, insomma, per evitare che il figlio del boss dei boss fosse incriminato per gravi delitti come l’uccisione di Giuseppe Di Caro, detto «il dottoricchio». Di Caro fu assassinato ad Agrigento, trasportato a San Giuseppe Jato proprio da Giovanni Riina e infine sciolto in un bidone colmo di acido, stando almeno a quanto dichiarato mesi fa dal pentito Vincenzo Chiodo. Lo stesso orribile trattamento riservato quest’inverno al tredicenne Giuseppe Di Matteo. Il giovane Riina è in prigione dall’estate scorsa per associazione per delinquere. Che Giovanni Brusca abbia provato a dargli una mano è più che verosimile. Tutti sanno che il trentaseienne capomafia è un «Riinadipendente», ma pochi immaginavano che si sarebbe messo nei guai con gli inquirenti dopo la decisione di pentirsi. Da quel momento, infatti, Giovanni Brusca avrebbe fatto il doppio gioco, seguendo un piano che confondesse le idee agli investigatori. Scoperto, aveva ammesso di «avere sbagliato», promettendo lealtà. Aveva riconosciuto di aver detto qualche imprecisione per alleviare la posizione di «alcuni amici». Un ravvedimento, il suo, che domani sarà verificato in un nuovo interrogatorio, al termine del quale i procuratori di Palermo, Caltanissetta e Firenze, vale a dire Caselli, Tinebra e Vigna, dovrebbero stabilire se inserirlo definitivamente fra i collaboranti, includendolo nel piano protezione insieme alla sua giovane convivente e al loro bambino di 4 anni e mezzo; oppure ritenerlo inaffidabile, e lasciarlo al carcere duro. Ora le rivelazioni di Enzo Brusca («sono stanco di questa situazione») mettono in tutt’altra luce il fratello senior. Enzo ha raccontato che, dopo la loro cattura il 20 maggio in una villa sul mare ad Agrigento, il progetto imbastito da Giovanni prevedeva, oltre al salvataggio di Giovanni Riina, di sconvolgere gli impianti accusatori in vari processi. Avrebbe poi trovato il modo di fare serpeggiare inquietanti dubbi sull’attendibilità di alcuni pentiti, anzitutto Santino Di Matteo e Balduccio Di Maggio. Enzo, a quanto pare, ha ammesso di aver tentato di strappare al fratello il permesso di far uccidere il loro principale accusatore, il pentito Giuseppe Monticciolo, e aveva pensato di simulare il suo pentimento per infiltrarsi fra i collaboranti. Ma Giovanni gli avrebbe imposto di dire un po’ la verità e un po’ cose non vere, suggerendogli di confermare alcune sue dichiarazioni palesemente false. Enzo ha anche detto che il fra- tello gli aveva chiesto di confessare di aver partecipato con lui e con Leoluca Bagarella a Corleone nel gennaio e nel febbraio del 1995 alle uccisioni del negoziante Giuseppe Giammona, della sorella e del cognato di questi, Giovanna Giammona e Francesco Saporito. I mafiosi sospettavano che i tre volessero rapire Giovanni Riina. Il triplice delitto è già stato confessato da Giovanni Brusca. Enzo ora sostiene di essere innocente. Infine, l’incontro in aereo tra Giovanni Brusca (che poi lo smentì, ma prima ne aveva parlato con il suo allora difensore, l’avvocato Vito Ganci) e il presidente della commissione parlamentare Antimafia Luciano Violante, ora presidente della Camera. Enzo ha definitivamente chiarito che su quel volo in realtà c’era il loro fratello Emanuele che non aveva scambiato neanche mezza parola con il parlamentare. Antonio Ravidà «I nostri obiettivi erano anche evitare l’ergastolo e scagionare alcuni capimafìa» «L’incontro in aereo con Violante? C’era nostro fratello Emanuele, ma non gli parlò»
24.10.1996 Un piano studiato in tribunale
Adesso i magistrati vogliono scoprire chi sia stato a suggerire il progetto di depistaggio Un piano studiato in tribunale «Mentiamo entrambi, ci crederanno» LA STRATEGIA DEI CORLEONESI IL piano l’hanno ideato dentro le aule di giustizia, sotto gli occhi di giudici, avvocati e carabinieri. Sono bastate due, forse tre udienze. Non di più. Giovanni Brusca non era ancora un «dichiarante». E, come qualsiasi imputato, poteva chiacchierare liberamente con il fratello Enzo, durante i processi di mafia, all’interno delle gabbie riservate ai detenuti. Non dev’essere stato – dicono gli investigatori – neppure difficile. Totò Riina, dalle gabbie dell’aula bunker, è riuscito persino a commissionare un paio di omicidi. I fratelli Brusca, in fondo, si sono limitati a mettere a punto un’elementare strategia di disinformazione che doveva creare un corto circuito senza precedenti nelle indagini antimafia. Giovanni ce l’aveva a morte con Balduccio Di Maggio, il pentito che con le sue rivelazioni aveva sbaragliato la cosca di San Giuseppe Jato, e l’obiettivo principale del piano di disinformazione era, almeno all’inizio, proprio quello di delegittimare il nemico numero uno. Come? Semplice. Smantellando, sistematicamente, il Di Maggio-pensiero. Scagionando i picciotti accusati da Balduccio. Accusandone altri, magari innocenti, che importa. E siccome a Giovanni Brusca la furbizia non fa certo difetto, ecco che il capo militare dei corleonesi partorisce la sua idea più geniale. In gergo giudiziario si chiama «convergenza del molteplice»: i magistrati del pool di Giancarlo Caselli la tirano in ballo per spiegare il principio secondo cui le dichiarazioni incrociate di due pentiti si riscontrano a vicenda. Il superboss Brusca, ovviamente, non si sente da meno di Caselli. E anche lui, per risultare più credibile, escogita la «convergenza del molteplice». Stavolta, però, rivisitata nell’ottica di Cosa Nostra. «Se io mi pento – spiega Giovanni al fratello Enzo – e anche tu ti penti, basterà che ci riscontriamo a vicenda perché le nostre menzogne assumano il valore di prova». Il piano, almeno inizialmente, sembra funzionare. Giovanni Brusca accusa una serie di persone di omicidi che non hanno commesso. Enzo Brusca, da parte sua, conferma le dichiarazioni del fratello. E’ il capovolgimento quasi totale delle acquisizioni raggiunte con la «cantata» di Di Maggio che – per inciso – è anche uno dei principali accusatori di Giulio Andreotti. Risultato? Il quadro delle conoscenze investigative sulla cosca di San Giuseppe Jato viene completamente stravolto. Numerosi latitanti, considerati pericolosissimi killer al servizio dei corleonesi, vengono scagionati. Personaggi minori, invece, vengono tirati in ballo come autori di faide ed esecuzioni spietate. Pura e semplice strategia di disinformazione. Ma Giovanni Brusca, da sapiente stratega, sa congegnarla con una certa arte: perché tra le tante bugie inserisce alcune «succose» rivelazioni che dovrebbero convincere i procuratori di Palermo, Caltanissetta e Firenze della sua piena attendibilità. Qualcosa, però, non funziona. Fin dall’inizio, i dubbi sulla credibilità di Brusca impongono alle procure antimafia un atteggiamento di estrema prudenza. Le sistematiche discordanze con le dichiarazioni di Di Maggio, il finto piano per delegittimare il presidente della Camera Luciano Vio- lante, svelato dal pentito Giuseppe Monticciolo prima ancora che lo stesso Brusca confessasse di esserselo inventato di sana pianta, l’atteggiamento «minimalista» che fa negare a Giovanni il Verro qualsiasi complicità esterna dietro le stragi di Capaci e via D’Amelio, inchiodano per tre mesi il falso pentito alla categoria di semplice «dichiarante» e il boss, nonostante i continui interrogatori, non ottiene alcun beneficio previsto dalla legge sui pentiti. Anzi, più passa il tempo, più Brusca sembra allontanarsi dal traguardo del piano di protezione. La procura di Palermo lo incrimina per calunnia. La corte d’assise di Caltanissetta non lo cita tra i testi d’accusa nel processo Borsellinobis. A questo punto arriva il crollo di Enzo Brusca. «Sono stanco – si arrende il ragazzo -. Ora vi spiego tutta la verità: mio fratello ha escogitato un piano…». E’ il fratello che si scaglia contro il fratello. E’ la fine del falso pentito Giovanni Brusca. E adesso? Il boss calun¬ niatore resta rinchiuso in un carcere di massima sicurezza mentre le procure decidono quando sarà rispedito a Pianosa. I suoi familiari, la convivente Rosaria e il figlioletto Davide, attualmente protetti dallo Stato, torneranno presto a San Giuseppe Jato. L’incubo, però, non è finito. Restano, inquietanti, alcuni dubbi. Il primo è che Brusca, chiacchierando nelle gabbie, prima di trasformarsi in un «dichiarante», possa aver coinvolto altri imputati nel suo progetto di disinformazione, convincendoli a trasformarsi in falsi pentiti. Se è così, bisognerà valutare le dichiarazioni degli ultimi collaboranti con sofisticatissimi test di attendibilità. L’ultimo, quello più tremendo, è il dubbio che in queste ore assilla magistrati e investigatori: e se il piano di Giovanni Brusca non fosse del tutto farina del suo sacco? «Queste cose non si fanno da soli», è il parere di un inquirente. «Qui c’è un trust di cervelli che lavora…». Sandra Rizza Adesso i magistrati vogliono scoprire chi sia stato a suggerire il progetto di depistaggio. LA STAMPA
24.10.1999 LA MAFIA NON AMA CAINO E ABELE
LA MAFIA NON AMA CAINO E ABELE LA MAFIA NON AMA CAINO E ABELE EROMA così, alla vigilia dell’interrogatorio risolutore quello che avrebbe dovuto negare o dare a Giovanni Brusca la «patente» di pentito sincero e affidabile – è arrivata la prova che le diffidenze suscitate, sin dal suo esordio, dall’ex boss di San Giuseppe Jato erano più che giustificate. Giovanni Brusca «u verni» non ha mai avuto intenzioni di consegnarsi allo Stato. Anzi, al contrario, anche da detenuto ha cercato il modo di nuocere, di provocare danni irreparabili all’interno del sistema giudiziario che conduce la lotta alla mafia. Così dice il fratello, Enzo, proponendosi a sua volta come «pentito sincero», tanto «sincero» da offrire su un piatto d’argento la prova delle menzogne architettate da Giovanni per «salvare» da una lunga carcerazione Giovanni Riina, il figlio prirnogentito del «Padrino» e alcuni uomini d’onore che non si sa in base a quale criterio – «dovevano» rimanere estranei alle indagini degli investigatori. In sostanza, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Chi conosce la storia di Cosa nostra, sa benissimo che di fronte all’offensiva dello Stato l’organizzazione ha sempre trovato il modo di «salvare il salvabile», difendendo a denti stretti uomini e cose ritenuti «irrinunciabili» (anche a costo di spendere soldi, prestigio e potere in direzione dell’aggiustamento processuale), e «mollando» il resto. Il tutto col chiaro intento di gettare fumo negli occhi e far credere in una «fine» di Cosa nostra. Anche nella vicenda dei fratelli Brusca è facile scorgere un qualche progetto destabilizzante della mafia, e non perché adesso è venuto Enzo Brusca ad accusare il fratello. Che chcolasse una sorta di parola d’ordine tra gli uomini d’onore s’era capito anche prima, quando la mafia abbandonò la linea delle vendette trasversali per intraprendere quella più soft della delegittùnazione dei pentiti e della «lotta politica» per la neutralizzazione dell’art. 41 bis. Se non ci fosse stato l’accordo tra i boss sulla «sospensiva» delle vendette trasversali, non sarebbe stato possibile attuare la strategia dei finti pentimenti, ora rivelati da Enzo Brusca. Solo falsi collaboratori, infatti, avrebbero avuto la possibilità di infrangere la regola dell’omertà senza incappare nelle dure sanzioni previste dalle regole non scritte. Ma oggi – come si dice – è arrivata la prova dell’esistenza di una strategia raffinata. Tanto sottile da far pensare che non possa essere tutta farina dello stesso sacco. Ci sono considerazioni processuali e giudiziarie – alla base del disegno – che non sono certamente patrimonio di qualche «detenuto quinta elementare», per usare una immagine tanto cara a don Totò Riina. Chi può conoscere le posizioni processuali dei singoli uomini d’onore nel marasma dei processi in corso? Certo, il gruppo dirigente può segnalare i nomi delle persone da salvare, ma lo svolgimento del progetto non è cosa da mafia militare. Brusca ha mentito scientificamente, per mandare all’aria i processi e inquinare quanto gli investigatori hanno fino a questo momento acquisito e in particolare le testimonianze di pentiti – come Di Matteo e Di Maggio – impegnati in processi hnportanti che vedono imputati noti esponenti della politica. Così fa intendere il fratello, accreditandosi come «buono». Siamo certi che sia così? La storia di Caino e Abele non è la regola dentro Cosa nostra. E’ bene quindi nutrire qualche perplessità. Le stesse che agitano i pensieri dei magistrati che si occupano di Enzo Brusca, tanto che ancora non lo hanno «accettato», preferendo «parcheggiarlo» (come Giovanni) nel limbo dei «dichiaranti». Identiche precauzioni, da questo momento, si renderanno necessarie per i prossimi «dichiaranti» e forse per qualcuno degli ultimi collaboratori. Francesco La Licata LA STAMPA