Via D’Amelio: la storia sofferta di una mezza verità

 

Raccontare la storia dei 25 anni trascorsi dalla strage di via D’Ameliosignifica fare i conti con indagini e processi, mezze verità e totali bugie, false testimonianze e depistaggi. Le vicende giudiziarie sono riuscite a individuare chi fece esplodere la bomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Purtroppo ancora sfuggono i mandanti occulti di quel tragico delitto: perché se c’è una certezza è che Cosa Nostra non ha fatto tutto da sola.


LE CONDANNE INGIUSTE
Sicuramente con l’attentato del 19 luglio 1992 Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura non c’entrano nulla. Condannati nel gennaio del 1996 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel primo troncone del processo sui fatti di via D’Amelio, i nove componenti del “mandamento” della Guadagna sono stati assolti lo scorso 13 luglio dalla Corte d’Appello di Catania. «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio» hanno dichiarato nelle battute finali del procedimento le due procuratrici generali di Catania.

La sentenza del tribunale etneo mette fine a una vicenda cominciata il 27 settembre 1992, quando il gruppo investigativo speciale “Falcone-Borsellino” guidato dall’ex capo della mobile di Palermo (e agente del Sisde) Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. I due picciotti della Guadagna dichiarano: “abbiamo rubato la Fiat 126 fatta esplodere a via D’Amelio”. Inoltre accusano alcuni compari di mandamento: Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Le dichiarazioni di Scarantino vengono confermate da Francesco Andriotta, suo compagno di cella a Busto Arsizio, a cui il killer avrebbe confidato la storia del furto e dell’esecuzione dell’attentato. Le rivelazioni di Scarantino coinvolgevano anche Salvatore Cancelli e Gioacchino La Barbera, due collaboratori di giustizia, che da subito accusano il pentito di dire falsità nelle sue dichiarazioni. O «fregnacce pericolose» come ha affermato Ilda Bocassini nel 2014, procuratore aggiunto di Milano, tra il ’92 e il ’94 applicata alla Procura di Caltanissetta che si occupava degli attentati a Falcone e Borsellino. «Dissi che andava sospeso tutto, che dovevamo verificare» continua la Boccassini, audita nel corso del processo di revisione «anche gli investigatori nutrivano dubbi su Scarantino, ma i pm hanno deciso di andare avanti per quella strada».


IL DEPISTAGGIO
Tutto l’impianto accusatorio del “Borsellino uno”, iniziato nell’ottobre 1994, veniva retto dalla confessione di Scarantino. Ma i dubbi sulla sua affidabilità si facevano sempre più forti: gli avvocati difensori si chiedevano come fosse possibile che un balordo del genere potesse essere stato utilizzato per un’operazione complessa come l’attentato di via D’Amelio. Non solo, nel corso dei confronti i collaboratori di giustizia facevano a pezzi “Vincenzino”. «Ma a questo come gli date ascolto? State attenti: è falso» dichiara ai giudici Salvatore Cancemi «non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo».

Lezione che presto si stufa di ripetere. Nel luglio del 1995, in un’intervista telefonica a Studio Aperto, Scarantino ritratta: «Ho detto bugie, accusato innocenti». Ma per i pm di Caltanissetta non cambia molto. «È probabile che Scarantino stia vivendo un momento di difficoltà» ribatte il sostituto procuratore Giordano «in ogni caso, il fatto che abbia deciso di fare marcia indietro non risponde a verità». Per il pm Carmelo Petralia invece «un’ eventuale ritrattazione non avrebbe alcun effetto sul processo: le indagini non sono legate solo alle dichiarazioni dei collaboranti».

Il 26 gennaio 1996 il processo arriva a sentenza. Ergastolo per Profeta, 18 anni a Scarantino, 9 anni a Orofino per favoreggiamento, assolto Scotto. Le condanne verranno confermate in Cassazione. Pochi mesi dopo, il 14 maggio, inizia il “Borsellino Bis”. Alla sbarra Totò Riina, il boss della Guadagna Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Antonino Gambino,  Lorenzo Tinnirello, e i latitanti Natale Gambino e Giuseppe La Mattina. Secondo l’accusa Riina e gli altri si sono riuniti agli inizi di luglio a casa di Calascibetta per «delineare le modalità di consumazione della strage».

Anche questa volta l’impianto accusatorio si regge sulle accuse di Scarantino, che viene chiamato a testimoniare il 14 settembre 1998. E per la seconda volta, ritratta: «Io non c’entro nulla con l’omicidio Borsellino». «A Pianosa il carcere era durissimo, cibo scarso e con i vermi. La Barbera mi disse che in cambio delle mie accuse mi sarei fatto solo qualche anno di galera e mi avrebbe dato 200 milioni» dichiara il pentito davanti a giudici e telecamere. Ma ancora una volta la sua ritrattazione non viene creduta.

A febbraio del 1999 arrivano le condanne: ergastolo per Totò Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Gli altri imputati sono  condannati a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage. Le condanne diventano definitive con il passaggio in Cassazione nel 2003. Durante il processo di Appello, un nuovo pentito conferma le accuse ritrattate ma comunque credute di Scarantino: Gaetano Pulci, braccio destro del boss Giuseppe Madonia. «Gaetano Murana mi ha confidato in cella di aver preso parte alla strage di via D’Amelio» le parole di Pulci, che permettono ai giudici di cementare la versione di Scarantino.

I MANDANTI OCCULTI
Pulci, in carcere per scontare una pena di 21 anni per omicidio, aveva numerose conoscenze nel mondo della politica: per questo è una fonte inesauribile di dichiarazioni eclatanti per gli inquirenti siciliani. Non solo per i giudici dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, ma anche per quelli a lavoro sulla trattativa Stato-mafia e sui “mandanti occulti” delle stragi di maggio-luglio 1992.

«C’erano alcuni ministri tra le persone di cui ho sentito parlare che garantivano Cosa nostra della riuscita delle stragi. Con nome e cognome, non che io presumo» afferma Pulci. Le sue dichiarazioni finiscono così nel fascicolo che la Procura di Caltanissetta aveva aperto nel 1993 per fare chiarezza sulle personalità esterne a Cosa Nostra che hanno ordinato e agevolato le stragi. Sotto inchiesta personalità di spicco nell’Italia degli anni ’90: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Il fascicolo viene però archiviato nel 2003: «Gli atti dell’indagine, a prescindere dal loro valore probatorio, non potrebbero sostenere l’ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio», la motivazione del Gip Giovanbattista Tona.

NUOVE CONDANNE
Le indagini non si fermano e nel 1998 ha inizio il terzo processo sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati i boss Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, accusati di aver ordinato l’eliminazione di Borsellino. L’iter processuale, che durerà dieci anni, porterà alle condanne di tutti gli imputati.

Nel 2003 si torna in aula. Questa volta a Catania, dove si celebra un processo unico per le stragi del 23 maggio e del 19 luglio. Nel 2006 vengono condannati all’ergastolo boss Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi ritenuti colpevoli di entrambi gli eccidi. Per la strage di Capaci l’ergastolo è inflitto a Giuseppe Montalto, Francesco e Giuseppe Madonia, mentre per via d’Amelio a Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera. Le pene sono confermate dalla Cassazione nel 2008.

LA SVOLTA
Sempre nel 2008, la svolta. Inizia a collaborare con la giustizia Gaspare Spatuzza, U’ tignusu, killer della cosca di Brancaccio. Le rivelazioni fatte ai giudici sono eclatanti: «Sono stato io a rubare la Fiat 126 esplosa in via D’Amelio, incaricato dai fratelli Graviano». La versione di Spatuzza smentisce la testimonianza di Scarantino e degli altri pentiti su cui i giudici avevano fondato i primi tre processi. La procura di Caltanissetta riapre le indagini sulla strage e nel 2009 Scarantino e Candura dichiarano ai pm di essere stati costretti a dichiarare il falso da Arnaldo La Barbera e il suo gruppo investigativo.

Ha così inizio il “Borsellino Quater”, quarto processo sulla strage del 19 luglio. «Mi massacrarono, mi fracassarono. Un poliziotto mi fece sbattere la testa a terra mentre io piangevo» dichiara nell’udienza del 10 ottobre 2013 Salvatore Candura «Io continuavo a proclamarmi innocente, ma La Barbera mi diceva “sarò la tua ossessione, ti farò dare l’ergastolo: io ho le prove”». il 1 aprile 2014 testimonia al processo anche Scarantino: !Mi hanno distrutto la vita, sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie. Ho sempre detto che della strage non so niente e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni».

Nel corso del dibattimento si parla quindi di “depistaggio di Stato”, e si cercano le responsabilità soprattutto nel gruppo investigativo di La Barbera che arrestò e gestì da subito gli interrogatori di Candura e Scarantino. Non solo, nel novembre 2014 le dichiarazioni di un nuovo pentito permettono di fare maggiore chiarezza sulla strage. Fabio Tranchina, autista del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, ha dichiarato ai giudici che «fu Graviano ad azionare il telecomando che fece esplodere la bomba in via D’Amelio». Le dichiarazioni contrastavano con le parole di Totò Riina di pochi mesi prima. Intercettato durante l’ora d’aria trascorsa con il mafioso Alberto Lorusso, il boss parlava «della bomba azionata da un interruttore nel citofono». I giudici del “Borsellino quater” considerano attendibili le deposizioni di Spatuzza e Tranchina, mentre nessun elemento conferma la versione del “citofono” di Riina.

LE DOMANDE SENZA RISPOSTA
Rimangono però ancora degli interrogativi: chi ha avuto interesse a deviare le indagini dai veri sicari di Paolo Borsellino? Chi ha pilotato le dichiarazioni del pentito Scarantino, ostacolando le indagini? La versione di Scarantino indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel mandamento dei Graviano nel quartiere di Brancaccio. E la differenza non è da poco: Guadagna e Brancaccio sono due mondi lontani per le loro “relazioni esterne”, per i rapporti dei rispettivi boss. I fratelli Graviano sono stati a lungo sospettati di avere instaurato un legame con Marcello Dell’Utri, oggi in carcere a Rebibbia per scontare una pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E Gaspare Spatuzza lo dichiara davanti ai giudici: «Giuseppe Graviano mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Il boss aggiunse che ‘grazie alla serietà di queste persone, ci avevano messo il Paese nelle mani».

A 25 anni dal 19 luglio 1992 non sappiamo ancora molto. Chi è stato l’artificiere che ha imbottito di 90 chili di espolosivo la Fiat 126? Chi è la persona esterna a Cosa Nostra che, secondo le dichiarazioni di Spatuzza, era presente quando è arrivato l’esplosivo? Che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, con gli appunti sulle sue ultime indagini? Sono domande a cui nuove inchieste giudiziarie potrebbero dare risposta.

«Dobbiamo pretendere la verità utile a dare un nome e un cognome alle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti». Ha detto Fiammetta Borsellino lo scorso 23 maggio, nel giorno del 25° anniversario della strage di Capaci, nel corso di una trasmissione su Rai1. Le “menti raffinatissime” esterne a Cosa Nostra ma che con lei spartivano affari, interessi, potere.

È giusto ricordare quel che ha dichiarato la signora Agnese Borsellino ai magistrati nel settembre 2009. Il marito Paolo, giudice che nella vita aveva conosciuto mafiosi a migliaia, «ha visto la Mafia in faccia» non dopo un processo, né durante un interrogatorio di un boss. Ma dopo essere stato al Ministero degli Interni il 17 luglio 1992. Due giorni prima di morire. L’ESPRESSO 19.7.2017