Strage di via d’Amelio: Borsellino, prima il depistaggio e poi il buio

 

di Giovanni Bianconi Corriere della Sera 30.8.2024

Le rivelazioni di Spatuzza hanno svelato l’inganno ma aggiunto nuovi misteri su strage e complicità

Sedici lunghi e tranquilli anni erano trascorsi dall’attentato di via D’Amelio, quando Gaspare Spatuzza svelò la grande bugia sulla quale s’erano basate indagini, processi e condanne per la morte di Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Altri sedici ne sono passati da allora, ugualmente lunghi ma molto agitati, nel corso dei quali nuove indagini e processi hanno cercato di rimettere a posto qualcosa: gli ergastoli sbagliati cancellati, alcuni inflitti agli ultimi colpevoli accertati. Ma i tentativi di risalire ad autori e responsabili del «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» sono in buona parte falliti, e comunque non hanno dato risposte adeguate; il tempo ha fatto anche stavolta il suo lavoro, portando via persone e prove, e per i protagonisti rimasti è sempre più agevole rifugiarsi dietro gli ordini ricevuti da superiori scomparsi e gli abituali «non ricordo».

La verità, insomma, ancora non c’è. E per molti versi siamo fermi a sedici anni fa: cioè alle rivelazioni del mafioso del quartiere palermitano di Brancaccio che il 26 giugno 2008 confessò di essere il vero autore del furto della Fiat 126 imbottita di tritolo esplosa davanti alla casa della madre del procuratore aggiunto Borsellino.

Il pentito inatteso

Quel giorno Spatuzza ruppe il silenzio e la costruzione che aveva retto fin lì di una strage analoga a quella di Capaci che uccise Giovanni Falcone: la vendetta di Cosa nostra contro i suoi due principali nemici, alla quale lo Stato aveva risposto catturando e facendo condannare tutti (o quasi) i boss e gregari che avevano organizzato i due attentati. Fine della storia. Finché un inatteso pentito — già fedelissimo dei fratelli Graviano, tra i principali responsabili di quegli eccidi — provocò un terremoto che fece crollare ogni certezza, segnando uno spartiacque nella ricerca del movente della morte di Paolo Borsellino. Che a differenza di quella di Falcone, è difficile spiegare con la sola logica mafiosa. Perché fu un attentato che provocò più danni che vantaggi a Cosa nostra, costringendo il Parlamento ad approvare, a tamburo battente, misure eccezionali come il «carcere duro» e la pressoché totale impunità per i collaboratori di giustizia (un po’ come accadde dopo il delitto dalla Chiesa nel 1982).

Su via D’Amelio c’è un prima e dopo Spatuzza, ma nonostante le sue dichiarazioni le ombre non si sono diradate; anzi, se ne sono aggiunte di nuove, contribuendo a far calare una sorta di buio. E la voragine spalancata dalle ammissioni di un colpevole fin lì nemmeno sfiorato dalle inchieste, resta piena di misteri.

L’uomo senza nome

Il primo è quello del pentimento del killer al servizio dei Graviano, che dopo undici anni di «carcere duro», nel 2008, spiegò che a seguito di una conversione religiosa e dell’incontro in prigione con uno dei condannati innocenti per la strage, s’era deciso a vuotare il sacco. Ci aveva già provato nel ‘98, ad appena un anno dalla cattura, quando in un colloquio investigativo avvertì che per la morte di Borsellino c’erano degli innocenti in galera. I magistrati non gli credettero, e lui non fece nulla per essere creduto. Solo dopo altri dieci anni fece il salto definitivo. Perché? Davvero bastarono un corso di teologia e qualche colloquio con un cappellano?

Il contenuto di quelle rivelazioni apre poi ulteriori interrogativi. Chi era l’uomo presente quando la 126 rubata da Spatuzza fu caricata di esplosivo, mai visto prima né dopo? «È una figura che rimane in sospeso», affermò il neo-pentito, inquietante anche per lui; fosse stato un mafioso glielo avrebbero presentato come tale, e siccome nessuno disse niente lui capì che non lo era, né chiese nulla. «A questo punto io avrei più interesse a vedere questa persona in carcere che trovarmelo fuori», ha confidato ai giudici; ma dopo altri sedici anni nomi non ne sono usciti.

Tuttavia il vero nodo della testimonianza di Spatuzza sono le bugie di chi l’ha preceduto, e le inchieste e i processi che le hanno sostenute e consolidate fino alle sentenze definitive. Quando il pentito autentico gli raccontò di aver rubato la macchina trasformata in autobomba, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari scoprì che nel ‘92 il falso pentitoSalvatore Candura si accusò del furto senza che nessuno si prendesse la briga di verificare luoghi e circostanze, né di sentire la proprietaria della 126 per capire dove fosse parcheggiata. Accertamenti fatti con Spatuzza, riscontrando la perfetta coincidenza.

I falsi colpevoli

Più che di un’indagine fatta male, era l’indizio di un’indagine non fatta,all’evidente scopo di tenere in piedi la pista costruita a tavolino: l’auto rubata da un gruppo di malavitosi di quartiere, dal quale risalire a un presunto mafioso di bassa lega ma dalle parentele e conoscenze importanti come Vincenzo Scarantino, arrestato a ottobre ‘92 con l’accusa di strage.Confessata dopo due anni di segregazione, maltrattamenti e soprusi. Sulle base delle dichiarazioni di Candura e Scarantino (più un altro balordo aggregato alla ricostruzione di comodo) la morte di Paolo Borsellino fu relegata a un’ordinaria esecuzione di mafia, nemmeno due mesi dopo quella di Falcone. Con tanto di ergastoli inflitti alla Cupola e un gruppo di esecutori materiali indicati dai (falsi) complici.

Perché? Chi ha ordito o ordinato la macchinazione? C’era soltanto la fretta di chiudere (con dei colpevoli pur che fossero, ma incastrati in maniera apparentemente attendibile) un caso che poteva altrimenti diventare destabilizzante per la tenuta delle istituzioni, oppure si inseguiva qualche altro obiettivo?

Il ruolo dei Servizi

Le indagini e i processi innescati dalle confessioni di Spatuzza hanno indicato gli artefici del depistaggio nei vertici giudiziari e investigativi dell’epoca: da un lato il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, insediatosi quattro giorni prima della bomba di via D’Amelio, e dall’altro il capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Entrambi finiti di fatto sotto accusa dopo essere morti, dunque senza potersi difendere né spiegare le loro mosse. Una, fatta da Tinebra, fu la richiesta d’aiuto al Sisde, il servizio segreto civile, nella persona di Bruno Contrada, l’ex poliziotto poi inquisito e condannato per collusioni mafiose. Non si poteva fare per legge, ma il procuratore gli chiese questo favore, e appena emerse il nome di Scarantino il Sisde sfornò un appunto per avvalorarne la (inesistente) caratura mafiosa.

Sembra di rileggere uno dei copioni andati in scena vent’anni prima, al tempo delle stragi nere e delle collusioni dei servizi segreti dell’epoca. Con i mafiosi nel ruolo dei neofascisti. E se tutto ciò è avvenuto, nel 1992 come nei primi anni Settanta, ci deve essere una ragione che, per quanto riguarda le stragi di mafia, ancora non è venuta a galla.

Gli accertamenti a carico di altri inquirenti dell’epoca sono finiti tutti in archivio, mentre i processi ai poliziotti «gregari» delle indagini pilotate si sono conclusi (per ora) con prescrizioni o assoluzioni; altri sulle false testimonianze sono ancora in corso. Lasciando irrisolto l’enigma sulla genesi e la gestione del depistaggio.

Il «nido di vipere»

Così come è rimasto un enigma il motivo dell’accelerazione di un attentato divenuto così urgente, per Cosa nostra, da sobbarcarsene le prevedibili conseguenze negative. C’è chi continua a leggerlo come conseguenza della trattativa intavolata da altri rappresentanti dello Stato con la mafia, nonostante le contraddittorie sentenze che hanno prima sostenuto e poi escluso questo collegamento; e c’è chi ripropone come movente l’intenzione di Borsellino di riprendere in mano il famoso rapporto dei carabinieri del Ros su «mafia e appalti» che altri magistrati, in quella fase, avevano archiviato in attesa di ulteriori elementi.

Un’ipotesi riemersa con le più recenti indagini della nuova Procura di Caltanissetta, che sembrano puntare al «nido di vipere» nel quale il magistrato si trovò a lavorare negli ultimi mesi, quando il procuratore Pietro Giammanco ne ostacolava intenzioni e aspirazioni. Fino alla mattina del 19 luglio 1992, allorché con un’inspiegabile telefonata domenicale alle 7 del mattino gli comunicò l’assegnazione delle inchieste negategli in precedenza. Giammanco è morto nel 2018, senza che nessuno l’abbia mai chiamato a testimoniare.

Anche la sparizione dell’agenda rossa del magistrato assassinato resta un arcano, come la mancata individuazione del commando che agì in via D’Amelio. Nemmeno Spatuzza ha saputo indicare chi premette il tasto del radiocomando per far scoppiare la 126. Un nome che potrebbe aggiungere poco, ma forse anche molto alla ricostruzione dell’ennesima, misteriosa strage italiana.