“LA BELLEZZA DEL FRESCO PROFUMO DI LIBERTÀ”

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Il discorso di PAOLO BORSELLINO alla Veglia per GIOVANNI FALCONE  – VIDEO INTEGRALE

 

 

GLI APPUNTI INTEGRALI DEL DOTTOR PAOLO BORSELLINO CHE HANNO DATO ORIGINE AL CELEBRE DISCORSO SULLA “BELLEZZA DEL FRESCO PROFUMO DI LIBERTÀ”, PRONUNCIATO NELLA CHIESA DI SAN DOMENICO IL 20 GUUGNO 1992, A PALERMO.

  • «Percorso da dove è nato Falcone (piazza Magione) a dove ha concluso con l’ultimo saluto la sua esistenza terrena (S. Domenico).
  • Percorso che attraversa parte significativa di questa città degradata e disperata che tanto non gli piaceva, che gli cagionava sentimenti di ripulsa e avversione per lo stato in cui era ridotta e si andava riducendo.
  • Città che proprio per questo, perché tanto non gli piaceva, egli amava e amava profondamente, proprio come nel famoso detto di José Antonio Primo de Rivera “nos queremos Espana porque no nos gusta” (amiamo la Spagna perché non ci piace).
  • Sì, egli amava profondamente Palermo proprio perché non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto “dare” per lui e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura amore verso Palermo ha avuto ed ha il significato di dare ad essa qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa appartiene.
  • Lavorare a Palermo, da magistrato, con questo intento, fu sempre, sin dall’inizio, nei propositi di Giovanni Falcone anche durante le sue peregrinazioni professionali nell’est e nell’ovest della Sicilia.
  • Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo, dopo lungo esilio provinciale, proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua più terrificante potenza [morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa].
  • Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo, e non solo nelle tecniche di indagine, ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.
  • La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte, (perché prive o meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col “male”), a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
  • Ricordo la felicità di Falcone e di tutti noi che lo affiancavamo quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice (simile affermazione è anche di Di Pietro).
  • Significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la forza di essa.
  • Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sembrò sopravvenire il fastidio e l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini. Insofferenza legittimante il garantismo di ritorno che ha finito per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia (nuovo codice) o hanno fornito un alibi a chi, dolosamente o colposamente di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsene.
  • In questa situazione Falcone va via da Palermo. Non fugge ma cerca di ricreare altrove le ottimali condizioni del suo lavoro. Viene accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di dieci anni.
  • Lavora incessantemente per rientrare in condizioni ottimali in magistratura per fare il magistrato indipendente come lo è sempre stato. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto a parlare.
  • Nessuno tuttavia ha perso il diritto anzi il dovere sacrosanto di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora.
  • Molti cittadini (ed è la prima volta) collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro.
  • Occorre dare un senso alla morte di Falcone, di sua moglie, degli uomini della sua scorta.
  • Sono morti per noi, abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo – gioiosamente – continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere.
  • Rispettando le leggi anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro).
  • Collaborando con la giustizia.
  • Testimoniando i valori in cui crediamo anche nelle aule di giustizia.
  • Accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità.
  • Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo».

La bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.
 
Palermo 20 Giugno 1992, Paolo Borsellino parla ai ragazzi dell’Agesci.
Sono trascorsi appena 28 giorni dalla morte di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino partecipa alla veglia di preghiera organizzata dall’Agesci in memoria del magistrato antimafia ucciso nella strage di Capaci.

Quello che segue è una parte del discorso di Paolo Borsellino, alla Veglia di preghiera per Giovanni Falcone pubblicato dal Centro Documentazione Agesci:

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali. intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse : “La gente fa il tifo per noi”.
E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice.
Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare solo poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottime condizioni del suo lavoro. Per continuare a “DARE”. Per continuare ad “AMARE”. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. MENZOGNA!
Qualche mese di lavoro in un ministero non può fare dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece!
Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta.
Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Il potere politico trova incredibilmente il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche.
Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagalo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarne dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli, accentando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone È VIVO!

 

 

 


Il ricordo. La lezione semplice di Paolo Borsellino: fare il proprio dovere

Paolo Borsellino, ucciso a Palermo dalla mafia il 19 luglio 1992

 

«Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo», canta, come una preghiera, Carmen Consoli in un brano dedicato all’Esercito silente di una Palermo «baciata da sole e mare», che fa i conti con «antichi rancori e ferite aperte» e che ogni giorno lotta per il riscatto: rispetto al passato insanguinato e al presente di chi non vuole che la città cambi. Contro chi crede che bastidecapitare una statua di Giovanni Falcone davanti alla scuola a lui intitolata allo Zen o bruciare la foto simbolo in cui Falcone e Borsellino sono insieme sorridenti, per cancellare la sfida nuova di Palermo, quella di «Giovanni e Paolo, ancora vivi» e il loro esempio di «compiere il proprio dovere», fino in fondo.

È il messaggio che emerge con forza, ma con un tono mite, senza sensazionalismi, dal libro di Alessandra Turrisi, Paolo Borsellino, l’uomo giusto (San Paolo, pagine 120, euro 15,00), in cui la giornalista, collaboratrice di Avvenire, ripercorre la figura esemplare del magistrato siciliano ucciso dalla mafia – il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio – attraverso le voci delle sue amicizie più intime, i racconti di chi lo ha conosciuto più da vicino, che in maniera semplice e profonda scavano nella memoria dei giorni trascorsi con Paolo.

C’è il ricordo appassionato di Diego Cavaliero (oggi giudice alla Corte d’Appello di Salerno), uditore giudiziario quando Borsellino era procuratore a Marsala, con cui costruirà una salda amicizia durata tutta la vita: il 12 luglio del 1992 Borsellino era da lui in Campania per fare da padrino di battesimo al figlio Massimo: «Ma non è Paolo quello che ho di fronte, è completamente diverso». C’è il cardiologo Pietro Di Pasquale che ripercorre minuto per minuto quella domenica surreale. C’è il barbiere Paolino Biondo, da cui andava ogni quindici giorni: «Paulì, me li tagli i capelli?». C’è don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, che raccoglie le sue ultime confessioni: «Ora tocca a me». C’è la sua famiglia – la moglie Agnese, i figli Lucia, Fiammetta e Manfredi – ma sempre sullo sfondo. Ci sono i superstiti, i “miracolati” di chi doveva essere lì e per fortuna non c’era.

Quello che ci offre la Turrisi è un affresco inedito ed emozionante non di un eroe, ma di un uomo con un «sorriso di accoglienza» e una «risata contagiosa», severo ma «giusto », di grande fede, che «quando va in Chiesa, entra in ginocchio ed esce in ginocchio», «un padre, con tutte le sue debolezze, un figlio fino alla fine vicino alla madre». Un magistrato che «ha voluto compiere fino in fondo il proprio dovere», senza compromessi, ecco. «Accettando il rischio», qualunque siano – è lui che parla – «le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio. E vorrei dire, anche di come lo faccio». Senza lasciarsi «condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro».

Parole pronunciate venti giorni dopo l’uccisione di Falcone, quando sapeva bene che il prossimo sarebbe stato lui. Il suo testamento morale, divenuto patrimonio di tutti, è in quel discorso al termine della marcia organizzata dall’Agesci in ricordo dell’amico Giovanni, nella chiesa di San Domenico, il 20 giugno 1992: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità». Come? «Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo!».

Il 19 luglio 1992, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di tritolo viene fatta esplodere in via D’Amelio. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per cinque agenti di scorta, i suoi “angeli custodi”. «Quel pomeriggio – scrive Turrisi – un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo». Ma Palermo non sarà più la stessa. Dopo 25 anni «Paolo e Giovanni sono ancora vivi». E chissà se il «buon Dio perdonerà Palermo». AVVENIRE 15.7.2017

https://youtu.be/MRG7KXSMD5A