Le recenti indiscrezioni de “La Verità” sui colloqui tra il senatore M5S e l’ex magistrato Natoli riaccendono i riflettori sul dossier mafia-Appalti, imbarazzano anche i dem e pesa ancora di più il “conflitto d’interesse”
Se fossero vere le ulteriori indiscrezioni pubblicate da La Verità sulle intercettazioni tra il senatore Roberto Scarpinato e il suo ex collega Gioacchino Natoli, ora indagato per favoreggiamento della mafia, i primi ad essere imbarazzati sarebbero i commissari del Partito democratico. In particolare Walter Verini che in commissione Antimafia ha sostenuto in maniera compulsiva Scarpinato.
In sostanza, quest’ultimo, parlando con Natoli su come riempire di carte Chiara Colosimo con le solite tesi e soprattutto su come far porre le domande giuste durante le audizioni, avrebbe affermato che il suo collega del Pd non ne è capace, vista la scarsissima conoscenza del tema, così come gli altri commissari grillini.
Se avesse affermato ciò, per la prima volta in assoluto non si può non essere d’accordo con l’ex procuratore. Resta il fatto che emergerebbe ancora di più, non solo il già palese “conflitto di interesse”, ma anche la perplessità sulle risposte date durante l’intervista rilasciata in prima serata a Massimo Giletti al programma ‘Lo Stato delle Cose‘ su Raitre.
Ma le intercettazioni, ribadiamolo, non sono pubbliche, sono inutilizzabili e forse la procura di Caltanissetta, per non lasciare questa patata bollente alla presidente Colosimo, dovrebbe mettere a tacere le critiche che indirettamente riceve, chiarendo perché ha delegato alla politica la vicenda Scarpinato.
Sì, è sicuramente un problema politico: ma le intercettazioni si possono utilizzare per sollevare il caso? E se sì, in che modo, visto che anche i commissari hanno l’ordine di mantenere il segreto sul contenuto? Una vicenda ingarbugliata che deve dipanarsi, onde evitare delegittimazioni visti i fili ad alta tensione che la procura guidata da Salvatore De Luca ha con coraggio toccato. Ma una cosa va ribadita: fin dalla nascita all’inizio degli anni 60, l’Antimafia collabora con le procure e compie indagini in tal senso.
Entriamo, ora, nel merito dell’intervista a “Lo Stato delle Cose”.
Soprassedendo sulla risposta rabbiosa del senatore, che ha tuonato che mai e poi mai ha archiviato il procedimento mafia- appalti (in questo caso sono le carte a parlare), è interessante sottolineare come si sia scaldato quando Giletti, meritoriamente, gli ha mostrato l’ultimo fascicolo che Borsellino ha preso dall’archivio della Procura il giorno prima di morire.
Non pista nera, non Gladio, non le non meglio definite “entità”, nulla di tutto ciò di cui il senatore grillino avrebbe voluto che la Commissione si occupasse, scambiandola forse per una prolungamento delle sue attività giudiziarie.
Parliamo del fascicolo sull’omicidio di Luigi Ranieri, imprenditore ucciso per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Vicenda anche citata nel dossier mafia- appalti redatto dai Ros.
“Cosa c’entra mafia- appalti, nemmeno risulta tra le carte sequestrate!” ha tuonato Scarpinato. Si è innervosito quando Giletti gli ha fatto notare quali erano le azioni investigative di Borsellino. Eppure parliamo dei fatti, non di teorie astratte e suggestioni, seppur intriganti per il pubblico fin troppo ammaestrato.
Come detto, l’omicidio Ranieri rientra anche nel dossier, così come tutte le altre carte sequestrate dall’ufficio di Borsellino, a partire dall’imprenditore Aurelio Pino fino a tutti gli altri fascicoli di indagine (procura di Agrigento che il giudice coordinava) collegati a mafia- appalti.
In quelle indagini ci sono le imprese e taluni personaggi comuni che, molto probabilmente, sarebbero dovuti confluire nel procedimento principale in corso di cui però non era titolare. Borsellino stava facendo un lavoro colossale, e forse è arrivata l’ora di renderlo pubblico, così come i suoi appunti che curiosamente vengono tuttora snobbati. Perché?
Che non ci fosse il dossier tra le carte sequestrate è una bella domanda. Abbiamo la certezza documentale che Borsellino ne ha ricevuto copia fin da subito, quando era a Marsala, per collegarlo all’indagine che stava svolgendo. Carte marsalesi che poi ha inviato, tramite Antonio Ingroia, alla procura di Palermo. Che cosa ci hanno fatto?
La questione la sollevò lo stesso Borsellino nella famosa riunione del 14 luglio 1992. Quella riunione che, secondo l’articolo pubblicato da La Verità, avrebbe proprio a che fare con la chiacchierata intercettata tra Scarpinato e Natoli. Come se non bastasse, fa notare il saggista Vincenzo Ceruso, autore dell’ultimo libro sulla strage (L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio), Borsellino ebbe il dossier anche a Palermo, come emerge dalla testimonianza del collega Vittorio Aliquò. Durante uno degli innumerevoli processi sulla Strage di Via D’Amelio, a precisa domanda risponde: “Certo che lo aveva. Tutti lo avevamo, era stato fotocopiato e distribuito a tutti nella riunione della Dda”.
Che il dossier non ci fosse tra le carte sequestrate è un altro mistero. In questo caso nessuna sparizione, bastava spostarlo altrove visto che era in mano a tutti i titolari.
L’apoteosi dell’intervista con Giletti si è raggiunta quando Scarpinato ha esclamato: “Ogni volta che abbiamo provato a fare quelle indagini siamo entrati nell’occhio del ciclone: alcuni di noi hanno subito procedimenti disciplinari, altri sono stati buttati fuori dall’antimafia, altri ancora non hanno fatto carriera”. Il riferimento sono le indagini sull’eversione nera, Gladio ecc. Ma è vero? Di solito ci pensa Pagella Politica a smentire, visto che è un ottimo sito dedicato al fact- checking delle dichiarazioni dei politici. Ma qualche dato possiamo offrirlo noi.
Partiamo dallo stesso Scarpinato: diventato Procuratore generale, per decenni è stato onnipresente – senza contraddittorio – in tutti i Tg nazionali, convegni e trasmissioni in prima serata come Report o Atlantide.
Ora è anche senatore, grazie alla candidatura blindata offerta da Giuseppe Conte del M5S, ed è membro della commissione Antimafia parlamentare.
C’è poi Nino Di Matteo, sostituto procuratore, il quale è stato nella Dna ed è diventato membro togato del Csm. Anche se, e questo va evidenziato, non si è occupato soltanto delle ‘ entità’. Anzi, quando non lo ha fatto, ha raggiunto ottimi risultati se pensiamo all’omicidio di Rocco Chinnici,facendo finalmente condannare i mafiosi.
Nella lista c’è anche Roberto Tartaglia, all’epoca giovane Pm nel processo sulla trattativa Stato- mafia e, caso unico, promosso a vice capo del Dap, ruolo che solitamente richiede lunga esperienza.
L’unico a non aver fatto carriera è stato Antonio Ingroia, al quale va dato il merito di aver reso giustizia all’omicidio mafioso di Mauro Rostagno. Però ha fatto tutto da solo: si è dimesso per candidarsi in politica, ma non ha avuto fortuna.
Vediamo ora chi invece è stato davvero ostracizzato, emarginato o ucciso. Chiunque abbia toccato il tema mafia- appalti ha avuto ripercussioni. Felice Lima, sanzionato dal Csm per la sua indagine a Catania e la gestione del pentito Li Pera, da Pm antimafia finì a fare il giudice civile per molti anni. Augusto Lama di Massa Carrara, ora a tutti noto per il caso Natoli, indagò insieme al suo braccio destro il maresciallo Franco Angeloni sui legami tra i mafiosi Buscemi e la Ferruzzi Gardini nel settore delle cave, finendo poi a fare il giudice del lavoro. Alberto Di Pisa aveva messo il naso nella gestione degli appalti di Pizzo Sella (dove emersero collegamenti tra Buscemi e la Ferruzzi Gardini) e nelle attività dell’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Fu ingiustamente accusato di essere l’autore della lettera del “Corvo”, sospeso per anni, processato e assolto.
Per Falcone e Borsellino – come recitano tutte le sentenze – ha pesato il loro interessamento per dossier mafia-appalti. Le indagini sui collegamenti tra mafia e grandi imprese, infatti, avevano allertato Cosa Nostra e scatenato una reazione violentissima. E questo è solo l’aspetto che riguarda i magistrati. C’è poi la scia di persecuzioni giudiziarie contro i Carabinieri vicini a Borsellino e le morti di Guazzelli, Russo, Lombardo, Dalla Chiesa – che indagava sugli appalti dei Costanzo – fino al giornalista Mario Francese, il quale anticipò di anni parti del dossier indagando sulle collusioni mafiose negli appalti delle dighe. Senza dimenticare le altre vittime eccellenti. Per ora, può bastare.
DAMIANO ALIPRANDI