Da diversi elementi di prova (alcuni dei quali formano oggetto di specifica trattazione in altre parti della presente pronunzia) emergono condotte idonee a rafforzare l’organizzazione mafiosa, poste in essere dall’on. Lima dopo il suo ingresso nella corrente andreottiana.
Un episodio nel quale l’on. Lima, tra la fine del 1982 e l’inizio del 1983, si attivò per condizionare l’operato della magistratura in senso favorevole ad un potente imprenditore vicino a “Cosa Nostra”, è emerso grazie alle deposizioni rese dal dott. Paolo Borsellino davanti al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta in data 4 agosto 1983 e in data 12 giugno 1991, nell’ambito dei processi relativi all’omicidio del Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo dott. Rocco Chinnici.
Nel verbale del 4 agosto 1983 (acquisito al fascicolo del presente dibattimento come atto irripetibile all’udienza del 15 dicembre 1998), il dott. Borsellino riferì quanto segue: «D.R.: Sostanzialmente nel 1982 non ebbi assegnati altri processi di mafia di grosso rilievo e mi furono assegnati processi di reati contro la pubblica amministrazione tra cui quello del palazzo dei congressi. (…)
Non posso quindi dire con particolari del lavoro svolto dal Chinnici. Mi risulta che egli si interessava del processo cosiddetto dei 162, di quello contro ignoti dell’uccisione di Mattarella e dell’altro contro ignoti di Pio La Torre, mentre il collega Falcone istruisce il processo per l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa per il quale ha emesso dei mandati di cattura nei confronti dei Greco di Ciaculli e di altri, già imputati anche nel processo dei 162 per il quale ultimo processo il Chinnici aveva emesso da recente altri mandati di cattura. Il Chinnici un giorno (uno o due giorni prima che andassi in ferie), mi chiese notizie sul processo del palazzo dei congressi, ove è imputato l’imprenditore catanese Carmelo Costanzo. Mi disse che questo processo gli interessava in relazione a sue indagini. Io mi mostrai perplesso perchè sapevo che del Costanzo si interessava il Falcone nell’ambito del procedimento “Dalla Chiesa”.
Egli mi chiarì che vi erano possibilità che tutti questi processi (quello dei 162, quello per l’omicidio Dalla Chiesa, quello La Torre, e forse qualche altro) venissero riuniti. Faccio presente che questa era una voce, sia pure incontrollata, che da qualche tempo circolava nel palazzo di giustizia (ricordo che anche un giornalista una volta me ne chiese ed io risposi che non sapevo nulla); si diceva anche che questa era una idea del Chinnici che avrebbe accentrato a lui stesso la trattazione dei processi.
Il Chinnici in quel colloquio manifestò il suo convincimento, per altro reiterato, in quanto già lo aveva manifestato prima, che tutti questi fatti e soprattutto l’omicidio La Torre e Dalla Chiesa, avessero unica matrice mafiosa ed anzi rispondessero ad unico disegno.
Mi disse che conferma della connessione tra omicidio La Torre e Omicidio Dalla Chiesa, l’aveva in una relazione (della quale anzi lamentava un grosso ritardo nella trasmissione al suo ufficio) nella quale si affermava che nella zona in cui era stato commesso l’omicidio La Torre era stata vista una persona con dati somatici corrispondenti a persona indiziata per l’omicidio Dalla Chiesa (non posso dire se ciò risultasse dalla relazione oppure, come mi pare che fosse il vero senso delle parole del Chinnici, che l’avesse desunto egli stesso).
D.R.: Per quanto altro devo fare presente che il Chinnici era convinto che ai fatti di mafia, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche gli esattori Salvo. Ciò desumeva da una telefonata fra taluno dei Salvo e il mafioso Buscetta risultante da una intercettazione contenuta nel processo Spatola, se non erro; telefonata che è stata pubblicata integralmente dalla stampa ove interlocutori sono certo “Roberto”, in cui si ritiene di identificare, il Buscetta, e tale Lo Presti parente dei Salvo, un anno fà scomparso senza che se ne abbia notizia. Non so poi da quali altri elementi, che ritengo ci fossero dal modo come il Chinnici parlava, egli desumesse la partecipazione di costoro.
Contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato per questo fatto che finiva con l’intralciare il rapido ed efficace svolgimento di attività, che nei confronti di costoro si agisse con “i guanti gialli” da parte di tutti, ed anzi aggiunse, nei loro confronti una volta, che se gli stessi elementi li avessero avuti nei confronti di altri certamente si sarebbe proceduto.
Ancora per quanto attiene il palazzo dei congressi ricordo che una volta il Chinnici dopo che erano stati arrestati il Costanzo e il Di Fresco, su mandato di cattura, quest’ultimo, del collega Barrile, disse di avere avuto un colloquio con l’on. Lima sollecitato dal sen. Coco, in casa di quest’ultimo, nel corso del quale il Lima gli aveva fatto presente che questa iniziativa giudiziaria veniva considerata come una forma di persecuzione per la Democrazia Cristiana al che egli Chinnici, aveva risposto che l’ufficio si interessava dei fatti specifici, contestati a determinate persone senza che potesse avere rilevanza l’appartenenza politica».
Nel verbale di assunzione di informazioni del 12 giugno 1991 (anch’esso acquisito al fascicolo del presente dibattimento all’udienza del 15 dicembre 1998), il dott. Borsellino confermò quanto aveva riferito nella precedente deposizione ed aggiunse: «in effetti in periodo che precisamente non ricordo e comunque compreso tra la fine del 1982 e la prima parte del 1983, il Consigliere Chinnici, con il quale correvano ottimi rapporti personali, mi confidò riservatamente, e nessuno fu presente a tale colloquio, che era stato invitato a casa del Senatore Silvio Coco e lì aveva trovato anche l’On.le Salvo Lima. Non mi disse se c’erano altre persone. Aggiunse che il Lima in quella occasione si era con lui lamentato di recenti iniziative dell’Ufficio Istruzione e precisamente: il mandato di cattura da me emesso contro Carmelo Costanzo e quello emesso dal collega Barrile di Ernesto Di Fresco potevano essere interpretati come una forma di persecuzione nei confronti del partito di Democrazia Cristiana.
Il Chinnici mi disse di essersi limitato a replicare che i Giudici dell’Ufficio Istruzione trattavano i casi dei quali erano investiti da parte della Procura della Repubblica, guidati da considerazioni esclusivamente giuridiche e senza preoccuparsi dei risvolti che ciò potevano avere nel mondo politico».
Per quanto attiene al legame tra Carmelo Costanzo e “Cosa Nostra”, significativi elementi di convincimento si traggono dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone.
Quest’ultimo all’udienza del 17 settembre 1996 ha affermato che l’impresa Costanzo era sottoposta alla protezione di suo fratello Giuseppe Calderone (capo della cosca mafiosa di Catania), il quale veniva interpellato prima dell’assunzione dell’impegno di effettuazione di lavori, conferiva con gli esponenti mafiosi locali, svolgeva una attività di intermediazione rispetto ai fornitori, assicurava che non avvenissero danneggiamenti e riceveva per le sue prestazioni uno stipendio mensile. Sul punto, il collaborante ha precisato quanto segue:
Pm: (…) i rapporti allora quali erano fra suo fratello, lei e il Cavaliere Costanzo o il Pasquale Costanzo?
Calderone A.: Ma mio fratello era l’uomo che proteggeva l’impresa Costanzo. Se l’impresa Costanzo prendeva un lavoro… Anzitutto prima di prendere un lavoro gli facevano vedere a mio fratello una scheda “Dobbiamo prendere lavori in questo paese, in questo paese, in questo paese” mio fratello “In questo paese possiamo prenderlo, in questo possiamo prenderlo, in questo non lo possiamo prendere, in questo possiamo fare così” poi gareggiavano, se vincevano la gara dicevano “Abbiamo preso un lavoro a Caltanissetta in questo paese” e mio fratello dice “Va bene” andava, partiva, parlava col rappresentante del paese, diceva “l’impresa ha preso questo lavoro, che cosa
avete di bisogno voi altri, avete camion, avete cave di pietrisco, cosa potete fornire?” e quelli facevano una lista di quello che potevano fornire. Dopodiché si faceva… allora i Costanzo invitavano i loro fornitori a fare delle sottomissioni, dei prezzi, dopo che erano arrivate tutte queste buste si guardavano i prezzi, arrivava la busta dell’amico nostro, magari che ci leggevamo 50 centesimi in meno vinceva questa gara questo amico nostro, però dopo un mese, due mesi, si faceva la revisione prezzi e l’amico nostro prendeva di più.
Pm: E in cambio di questa attività di protezione come l’ha definita lei, che cosa chiedevate all’impresa Costanzo?
Calderone A.: La tranquillità, non c’erano bombe nei cantieri, non c’era niente, lavoravano tranquilli.
Pm: Questo era il vantaggio dell’impresa Costanzo, dico voi uomini d’onore che cosa chiedevate?
(…)
Calderone A.: Noi, io e mio fratello?
Pm: O la famiglia di Catania.
Calderone A.: La famiglia di Catania? Niente, ci davano come stipendio 1 milione al mese a mio fratello.
Pm: E quando venivano impiantati i cantieri come ha detto lei, che cosa avveniva al di là del lavoro che veniva fornito come subappalti, subforniture? (…) Dico, avveniva qualcos’altro, venivano dati dei soldi ai rappresentanti locali di Cosa Nostra o altri benefici?
Calderone A.: Se ci si metteva un guardiano soldi non se ne davano, se non si metteva un guardiano ci si dava qualche cosa come se poteva essere una guardiania.
Il collaborante ha aggiunto che Benedetto Santapaola, dopo l’omicidio di Giuseppe Calderone, subentrò nel ruolo precedentemente attribuito a quest’ultimo e divenne il “protettore” dei Costanzo; ha esplicitato di essere stato invitato da Carmelo Costanzo a sostenere elettoralmente l’on. Salvatore Urso (deputato nazionale eletto nelle liste della Democrazia Cristiana); ha evidenziato che i Costanzo consentirono che si tenesse in una stanza dei loro uffici una riunione degli esponenti mafiosi Salvatore Greco “cicchiteddo”, Giuseppe Calderone, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina, Salvatore Marchese (“uomo d’onore”, cugino di Antonino Calderone e marito di una nipote di Carmelo Costanzo).
Le affermazioni compiute da Antonino Calderone in ordine al particolare rapporto instauratosi tra i Costanzo ed i soggetti succedutisi al vertice della “famiglia” di Catania trovano riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, […].
Anche il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia ha menzionato lo stretto legame instauratosi tra i fratelli Costanzo ed alcuni esponenti mafiosi come i fratelli Calderone e Stefano Bontate, […].
Ulteriori elementi circa le relazioni dei Costanzo con esponenti di “Cosa Nostra” sono stati forniti dal collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale all’udienza del 17 dicembre 1997 ha dichiarato che “i Costanzo avevano rapporti con il gruppo catanese di Cosa Nostra per quanto riguardava le cose della messa a posto, cioè per i problemi di ordinaria amministrazione.
Per quelli di straordinaria amministrazione e non so perché, i Costanzo facevano capo direttamente a Salvatore Riina tramite Pino Lipari. Il loro interfaccia era Pino Lipari. Arrivavano a Salvatore Riina tramite Pino Lipari. Infatti il RIINA raccomandava sempre i Costanzo per l’aggiudicazione di lavori”.
Assai significative sono, poi, le dichiarazioni rese dal teste Giovanni Gallenti (gestore dal 1975 al 1988 del complesso alberghiero “La Perla Jonica”, di proprietà dei Costanzo), il quale ha riferito:
– che i fratelli Carmelo e Pasquale Costanzo gli presentarono Giuseppe Calderone, e “dissero che si trattava di una persona molto perbene, di una persona di riguardo”;
– che Giuseppe Calderone trascorse una parte del periodo estivo del 1978 in una villetta compresa nel suddetto complesso alberghiero;
– che, dopo l’omicidio di Giuseppe Calderone, Carmelo Costanzo gli disse: “l’hanno ucciso perchè era contro la droga e il sequestro delle persone, (…) ora (…) c’è Nitto (…) che ha preso il suo posto”, facendo riferimento al fatto che Benedetto Santapaola aveva assunto la stessa posizione di vertice prima occupata da Giuseppe Calderone nell’ambito dell’organizzazione mafiosa;
– che anche Benedetto Santapaola iniziò quindi a frequentare il suddetto complesso alberghiero, soggiornandovi per alcuni mesi nel periodo estivo.
Dei legami tra Carmelo Costanzo ed esponenti di “Cosa Nostra” si era interessato anche il Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa; dopo che quest’ultimo fu ucciso, nel suo studio vennero rinvenuti alcuni appunti riguardanti i rapporti del predetto imprenditore con i mafiosi Francesco Madonia e Benedetto Santapaola (sul punto, v. la deposizione testimoniale resa dall’isp. Antonino Leo all’udienza dell’11 febbraio 1997).
Dalla Sentenza di processo primo grado Andreotti Corte d’Assise di Palermo