In Commissione Antimafia, Mario Mori e Giuseppe De Donno – ex ufficiali del Ros, convocati per proseguire l’audizione sul controverso procedimento nato dal dossier “Mafia Appalti” – hanno subito un nuovo atteggiamento ostile da parte del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico. All’avvio delle domande, il pentastellato Luigi Nave ha sollevato un singolare rilievo, prontamente respinto dalla presidente Chiara Colosimo, mentre il deputato Verini evidentemente era “distratto”. Il clima, in pratica, resta ancorato alle vecchie accuse mosse dagli ex procuratori di Palermo, tra cui il senatore Roberto Scarpinato, oggi componente della Commissione.
Facciamo chiarezza. Dopo l’intervento conclusivo di Mario Mori, che ha spiegato come – secondo la sua testimonianza – il dossier “Mafia Appalti” abbia subito ostacoli dall’allora procuratore Pietro Giammanco, è intervenuto il senatore Nave del M5S. Questi ha accusato Giuseppe De Donno di aver presentato, durante la scorsa audizione, una memoria piena di inesattezze e mistificazioni, chiedendo il rinvio per consentire ai commissari di studiare un documento di 86 pagine depositato mezz’ora prima della convocazione. La presidente Chiara Colosimo ha respinto l’istanza: non c’erano i tempi tecnici per esaminare un testo arrivato all’ultimo momento. Eppure, dalla prima audizione erano passate settimane: avrebbero potuto consegnarlo prima. Un fatto senza precedenti, poiché mai prima d’ora un gruppo di minoranza aveva chiesto lo slittamento di un’audizione basandosi su una ricostruzione “avversa” depositata all’ultimo minuto.
È prassi, in Commissione Antimafia, ascoltare tutte le versioni ritenute utili: prima degli appartenenti ai Ros, magistrati come Gioacchino Natoli e Luigi Patronaggio avevano già esposto le loro ricostruzioni, con criticità segnalate da Il Dubbio in articoli precedenti, senza che alcuno – né Fratelli d’Italia né Partito Democratico – invocasse rinvii o memorie contrapposte. Di norma, al termine dei lavori si redigono una relazione di maggioranza e una di minoranza. Perché allora il M5S ha voluto fare un’eccezione proprio per gli ex Ros? Questo episodio dimostra che contro di loro non è bastato l’accanimento giudiziario (e mediatico) – puntualmente naufragato – ma si è arrivati a strumentalizzazioni in ambito politico.
Ma la politica è cosa seria, fatta però da persone che possono “sbagliare”. Basterebbe l’esempio del senatore Verini per capire quanto alcuni commissari rimangano ostinatamente ciechi di fronte alla versione degli ex Ros. Nonostante la memoria depositata e l’intervento conclusivo di Mario Mori, che aveva già chiarito quel punto, Verini ha chiesto perché l’incontro riservato su “Mafia Appalti” traBorsellino e gli ex Ros sia emerso solo anni dopo. Una domanda che getta ombre su Mori e De Donno, alimentando le stesse illazioni ospitate da Il Fatto Quotidiano che, evidentemente, ha voce sulla linea anche del Partito Democratico.
In realtà, come ricordato nella memoria e sottolineato da Mori in Commissione, De Donno riferì dell’episodio già nel 1992 davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta, allora incaricati dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Quei magistrati già disponevano dunque di elementi solidi sull’interesse di Borsellino al dossier e sul suo scetticismo verso alcuni colleghi. È invece legittimo chiedersi come mai quel versante di indagine sia stato approfondito solo nei processi successivi, e perfino in modo parziale: grazie all’azione di desecretazione di Chiara Colosimo e soprattutto delle indagini attuali dei pm nisseni guidati da Salvatore De Luca, oggi emergono manoscritti e documenti che Borsellino custodiva nel suo ufficio. Non si tratta certo di un’invenzione degli ex Ros, né – come ha sostenuto il pentastellato Nave – di fumo per nascondere cose “indicibili”.
Tutte le sentenze, del resto, riconoscono nel dossier un fattore decisivo nella scelta dei corleonesi di eliminare Borsellino e, in precedenza, Falcone stesso. Su questo tema abbiamo già scritto ampiamente: ora ci si augura che l’inchiesta della procura di Caltanissetta faccia finalmente luce su quel patrimonio documentale occultato da trentennali teorie giudiziarie (quelle sì, fumose) – dalla trattativa alla pista nera, fino a Gladio.
La memoria depositata dagli ex Ros presenta sicuramente diverse imprecisioni, ma parliamo di dettagli trascurabili. Sono passati oltre 30 anni ed è comprensibile commettere errori. Quello che conta non dovrebbe essere la memoria in sé, ma le carte. Almeno dal comunicato del M5S, si stigmatizza Mori per aver detto, falsamente, che Falcone accusò la procura di Palermo di aver insabbiato alcune indagini relative al dossier “Mafia Appalti”. Ma non è un’invenzione di Mori. Tocca ripeterlo.
Due verbali di assunzione di informazioni sono significativi. Uno, il numero 271/97: la giornalista Liana Milella riferisce di un colloquio avvenuto con Falcone nell’estate del ’91, quando ci furono solo le cinque richieste di arresto scaturite dal dossier: «Falcone, in più occasioni, e in particolare dopo gli arresti, aveva commentato con grande delusione gli sviluppi di quell’inchiesta, dicendomi che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone». C’è anche il verbale numero 490/94, dove l’ex ministro Claudio Martelli riferisce del singolare episodio in cui, nell’estate del 1991, la procura di Palermo inviò il dossier “Mafia Appalti” al ministero, trasgredendo il segreto istruttorio: «Quel che ricordo è che Falcone osservò che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine». Quindi, forse, ci vorrebbe maggior rispetto per la memoria di Giovanni Falcone.
Non si comprende perché il M5S citi anche Mutolo. In realtà, sul versante appalti, fondamentale per Borsellino era il pentito Leonardo Messina, colui che – tra le altre cose – corroborò il fatto che la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini fosse in mano a Totò Riina. Lo stesso suo interrogatorio verrà utilizzato nelle indagini successive all’archiviazione. Peccato non prima.
Singolare anche la domanda posta dal deputato dem Giuseppe Provenzano, il quale, riallacciandosi alla questione sollevata dal collega Verini, ha chiesto a Mori una sua valutazione su esponenti politici come Dell’Utri o D’Alì. Magari non era il suo intento, ma sembra quasi che fossero in qualche modo collegati alle stragi. Il che è chiaramente un falso. Mori ha risposto di voler parlare solo di ciò di cui si è occupato direttamente, di ciò che ha “toccato con mano”, non di questioni che conosce tramite i giornali. In realtà, è un comportamento che dovrebbero avere tutti: da investigatori, magistrati e politici ci si aspetta questo, ossia riferire ciò che si conosce personalmente attraverso studi e approfondimenti. Altrimenti si rischiano “incidenti”, come accaduto allo stesso Provenzano, quando pose la domanda all’avvocato Fabio Trizzino, genero di Borsellino, sulla pista nera, citando un documento sponsorizzato da giornali come Il Fatto ma che nella realtà è “carta straccia”.
Detto questo, anche De Donno e Mori un errore lo hanno commesso: dare importanza alle parole di Vito Ciancimino, il quale in realtà aveva tutto l’interesse di allontanare la mafia dalle responsabilità e accusare altri soggetti esterni. Di tutto si può accusare l’allora procura di Palermo, ma non di non aver indagato sui “terzi livelli”. Ed è proprio quello il punto: è l’opposto della visione di Falcone e Borsellino. Loro hanno pagato con la vita il fatto di aver indagato nella profondità della mafia e toccare quegli interessi convergenti con il mondo imprenditoriale che conta, e di riflesso la politica. Borsellino, in una intervista reperibile su raiplay, quando era procuratore a Marsala e indagava sugli appalti locali affermò: «Da tempo è chiaro che è la mafia a servirsi dei politici, non viceversa». E ciò fa il paio con la visione di Falcone cristallizzata nei suoi libri e ordinanze. Ma a chi interessa? IL DUBBIO Damiano Aliprandi