06/06/2025 Fausto Cardella nella sua carriera di magistrato ha incrociato Brusca tre volte: “Normale chiedersi se lo Stato si possa fidare nel scendere a patti con un criminale così, ma senza collaboratori sarebbe stato più difficile prendere gli assassini di Falcone. Ma le parole non bastano. Servono i riscontri”
Fausto Cardella, magistrato in pensione, ha incrociato Giovanni Brusca tre volte nel suo percorso professionale, vedendone per intero lo spessore criminale: la prima indagando sulla strage di Capaci a Caltanissetta, l’indagine servita a provare che Brusca è stato colui che ha premuto il telecomando servito a innescare la bomba di Capaci; la seconda come il Pm del processo Pecorelli a Perugia, in cui Brusca ha reso dichiarazioni; la terza come giudice estensore della sentenza che ha reso definitiva la condanna di Brusca per il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, poi ucciso e sciolto nell’acido da Brusca, delitto per cui è stato condannato in un diverso processo. La vendetta di Brusca per la collaborazione del padre del bambino, Santino Di Matteo, messo alle strette dallo Stato proprio in seguito a un prelievo di Dna disposto proprio da Cardella nel corso dell’indagine su Capaci.
Dottor Cardella da dove cominciamo?
«Dal ricordo del momento in cui Ilda Boccassini e io, titolari dell’indagine, siamo andati a Roma consegnare l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip e a distribuire gli ordini di cattura, tra cui c’era quello per Brusca, poi catturato più avanti, alle forze dell’ordine che dovevano eseguirli: c’erano Squadra mobile, Carabinieri dei Ros, Dia, credo anche carabinieri della territoriale, tutti insieme in una stanza, ognuno ha avuto un compito secondo i segmenti di cui si erano occupati, e zero mugugni, zero gelosie. Ecco quella stanza mi ha restituito in quel momento la sensazione dello Stato unito, coeso».
Come avete capito che era stato Brusca a premere il telecomando?
«Gli elementi di svolta dell’indagine sono stati due, più uno. Il primo è stato il sopralluogo: ce n’era già stato uno subito dopo la strage di Capaci, da parte della Polizia scientifica e dei Carabinieri, in cui erano state raccolte delle cicche di sigaretta da un punto sopra l’autostrada in cui si pensava si fossero appostati per innescare l’esplosione.
A novembre 1992 quando siamo arrivati Ilda Boccassini e io, temporaneamente trasferiti io da Perugia lei da Milano, non erano state fatte particolari indagini su quegli elementi.
Con la Polizia abbiamo rifatto il sopralluogo: Arnaldo La Barbera ci ha portati lassù, ci ha mostrato il punto in cui erano state trovate le cicche di Merit, gli alberi tagliati come se avessero voluto fare delle tacche di mira, per mirare l’autostrada e capire quando innescare la bomba con il telecomando.
Noi abbiamo richiesto le perizie per il Dna sulle cicche, poi dato che elementi di indagine ci portavano a ritenere che Santino Di Matteo, già in carcere per altro, dovesse essere lì, toccò a me scrivere l’ordine di prelievo forzoso del suo Dna, per confrontarlo con quelli trovati sulle cicche.
All’epoca la giurisprudenza oscillava: in certi momenti si poteva imporre il prelievo in altri no, in quel momento si poteva. Quando il RIS di Parma e la Polizia scientifica andarono per prelevare un campione biologico per il Dna, Di Matteo capì che era incastrato, perché il Dna provava la sua presenza sul luogo dell’appostamento, e scelse di collaborare.
Parlò prima con Caselli a Palermo, che indagava per associazione a delinquere di stampo mafioso. Caselli stese un verbale sommario e lo rimandò a noi che avevamo a Caltanissetta la competenza sulle stragi. Dopo di lui sono arrivati altri collaboratori: Zeta, Omega, Cangemi… Ferrante».
Come capire se dicevano la verità?
«Il dato certo, il ritrovamento delle cicche, c’era. Avevamo la traiettoria che aveva dovuto calcolare chi doveva premere il telecomando che poi si scoprì essere Brusca, noi avevamo già riscontri in mano e quindi mentre uno parlava eravamo in grado di contestargli le affermazioni, sapevamo già se ci stava dicendo cose affidabili o meno.
All’inizio Cangemi menava il can per l’aia, ma quando ha cominciato a dire la verità abbiamo capito subito perché il casolare coincideva, il luogo in cui erano stati stipati i bidoni di esplosivo pure. Non siamo partiti dalle dichiarazioni dei collaboratori per poi riscontrare, avevamo già gli elementi in mano per capire se uno mentiva. Il ruolo di Brusca venne fuori con le dichiarazioni riscontrate dei collaboratori».
Parlava di un terzo elemento?
«Sì, anche se lo conosco in modo indiretto perché era un’indagine fatta dalla Dia a Palermo per associazione mafiosa nel 1993. Avevano piazzato una microspia sotto un letto in un appartamento di via Ughetti a Palermo in uso a Nino Gioè e captarono una conversazione in cui si fece un riferimento inequivocabile a Capaci e all’attentatuni».
Da persone comuni capita di domandarsi come ci si fidi di uno che ha ammesso centinaia di omicidi, come non temere che sia ancora un pericolo dopo un simile curriculum.
«La società ha ragione, nel senso che certezza assoluta che garantisca che un criminale vada sulla retta via, se così può dire, non c’è. Ma noi dobbiamo ragionare in modo diverso: la collaborazione è stata utile, necessaria? Questa collaborazione ha un prezzo che è stato pattuito dallo Stato in un contratto secondo legge. Lo Stato deve essere serio, la parola va mantenuta anche nei confronti dei mafiosi.
Se non piace il discorso della serietà possiamo parlare di utilità.
Non adempiere al patto significa pregiudicare la possibilità che altri collaborino: vuol dire che sulla base di una paura incerta (il patto con la mafia per il Brusca di turno ormai è rotto) rischiamo di lasciare in giro persone che hanno commesso delitti e possono continuare a commetterne, persone certamente pericolose. Se la mafia dei Corleonesi è finita tutta in carcere è anche perché questo patto è stato utile».
Spesso quando si parla di “pentiti” si evoca il caso Tortora, che cosa è cambiato?
«All’epoca di Tortora c’era il vecchio Codice di procedura penale e per la giurisprudenza della Cassazione bastava che le dichiarazioni di due collaboratori si incrociassero per avere un indizio probante. Poi abbiamo scoperto la circolarità delle informazioni, oggi occorre dimostrare che i due non abbiano la stessa fonte, che non abbiano potuto concordare e servono ulteriori riscontri. La legislazione e le regole si affinano nel tempo, imparare dagli errori è il progresso dell’umanità.
Non ha senso giudicare il presente con gli errori di un passato non più attuale. Non voglio dire che siamo arrivati alla meta, possiamo migliorare, ed è auspicabile che gli intenti siano comuni, faccio appello alla politica: lasci fuori da questi temi controversie che non c’entrano».
Lei ha anche scritto, più avanti da giudice di Cassazione, la sentenza che condannava in via definitiva Brusca per il sequestro del piccolo Di Matteo e lo ha incontrato come testimone. Che idea si è fatto di questa figura così sinistra?
«Ho ben presente il momento della sua testimonianza: era di una famiglia mafiosa, si capiva che era figlio di quel mondo. Ci ho ripensato quando ho letto stamattina che in un’occasione aveva detto: «Se a dieci anni mio padre non mi avesse tolto da scuola per badare alle pecore, se qualcuno dal Comune mi avesse riportato a scuola io forse oggi non sarei Brusca». Io non so se questo sia vero, ma una riflessione vogliamo farla?».
Tornando a noi, come ci si fida?
«Molti avvocati difensori te lo ripetono: è un delinquente come ti fidi? Da magistrato dico: se un collaboratore è davvero pentito non è qualcosa che potrò mai accertare, se la vedrà col Padreterno se crede, con la coscienza se ne ha una. A me interessa che quello che dice sia vero e utile, in questo senso per me è utilizzabile solo quello che è riscontrato. Diversamente non è detto che sia falso, ma processualmente non vale niente». Elisa Chiari FAMIGLIA CRISTIANA 6.6.2025