Le troppe anomalie nelle indagini sulle stragi siciliane del 1992
C’è chi ha piazzato le microspie in via Ughetti 17, a Palermo, nell’unico covo in cui si parla della strage e come d’incanto nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 1993 riesce a capire tutto di quanto è accaduto a Capaci quando sente Nino Gioè e Gioacchino La Barbera parlare dell’«attentatuni».
C’è Gioacchino La Barbera, che ventitré anni dopo le stragi racconta che c’era un uomo misterioso nel commando di Capaci, un estraneo, un altro oltre a quello di cui ha parlato Gaspare Spatuzza a proposito della strage di via D’Amelio.
Ma poi La Barbera ritratta e si prende anche una querela dalla giornalista che lo ha intervistato.
C’è Paolo Bellini, infiltrato nelle cosche per conto dello Stato (ma quale Stato non si sa), che nell’agosto del 1992 aggancia Gioè, gli racconta dei tesori d’arte che stanno a cuore al Paese, gli propone un patto e poi torna nell’ombra.
Riemerge quando Gioè, il 29 luglio 1993, penzola da seduto nella sua cella, morto impiccato. E solo questo è sicuro.
C’è chi il 15 gennaio del 1993 cattura Totò Riina utilizzando le indicazioni di Balduccio Di Maggio, fuggito da Palermo, ricomparso a Borgomanero, finito in mano ai carabinieri del generale Delfino e subito disponibile a consegnare il capo dei capi.
C’è chi non perquisisce la residenza dorata di Totò Riina nella quiete di un residence di via Bernini e lascia che un fascio di appunti sgrammaticati tenga ancora in scacco il Paese. E chi di quella mancata perquisizione si accorge solo diciannove giorni dopo, crede all’equivoco e non apre subito un’indagine.
C’è Mario Mori, già capo del Ros, che è sotto processo a Palermo per la trattativa Stato-mafia [ndr. Assolto a termine del processo], accusato di rapporti con Licio Gelli e la P2 da un suo ex collega del Sid (Servizio informazioni difesa), il maggiore Mauro Venturi, che fu coinvolto nell’indagine sull’organizzazione segreta Rosa dei Venti ed è tra i comprimari della lotta intestina tra l’allora capo del Sid Vito Miceli, alla cui cordata era legato, e il generale Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1979 capo del reparto D del Servizio, il controspionaggio del Sid.
C’è Giancarlo Amici, nome dell’agente segreto Mario Mori che negli anni Settanta aveva tra le fonti “Crocetta”, ovvero Gianfranco Ghiron, fratello di Giorgio poi diventato, guarda che coincidenza, avvocato di Vito Ciancimino.
C’è Gianadelio Maletti, che dalla latitanza in Sudafrica dice e non dice di un patto segreto tra Cosa Nostra e i nostri Servizi già negli anni Settanta, opera di un gruppetto nel quale c’era anche Mori che era in collegamento con l’ex sindaco Ciancimino. E c’è sempre Maletti a dire che il capo del centro Sid di Palermo, Umberto Bonaventura, era affiliato alla mafia.
C’è Gianmario Ferramonti, uomo vicino ai Servizi, militante leghista e componente del cda della finanziaria della Lega, che racconta di un pranzo avvenuto nel 1994 con l’allora capo della polizia Parisi per ottenere il suo assenso alla nomina di Roberto Maroni a ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi. Il tramite era Enzo De Chiara, lobbista italo-americano autoaccreditatosi come uomo Cia, in contatto tanto con i Bush quanto con i Clinton e di certo amico di Parisi.
C’è il maresciallo Antonino Lombardo, che si toglie la vita nel 1995 nell’atrio del Comando regione carabinieri Sicilia e scrive in un messaggio che la chiave della sua delegittimazione sta nei suoi viaggi americani. Lombardo ha tenuto i rapporti con il boss di Cinisi Tano Badalamenti, pronto a parlare pur di tornare in Italia a scontare la condanna per traffico di droga che lo tiene negli Usa.
C’è Giovanni Tinebra, ex procuratore capo di Caltanissetta, procuratore generale a Catania, poi nominato dal governo regionale a forte pretesa antimafia di Rosario Crocetta alla guida dell’Ufficio regionale per l’espletamento di gare per l’appalto di lavori pubblici (Urega) di Catania.
Proprio quel Tinebra che si beve le verità del pentito Scarantino sulla strage di via D’Amelio, che passa al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) portandosi dietro il pm Salvatore Leopardi e nel 2004 instaura il protocollo Farfalla, che consente agli 007 di entrare in carcere a prendere quello che gli serve promettendo anche di pagare i boss per avere informazioni.
Ovvero istituzionalizzare ciò che era sempre stato, dandogli perfino il nome suggestivo di Farfalla, traduzione di Papillon, dal noto romanzo biografico sul carcere dell’Isola del Diavolo di Henri Charrière, detto appunto Papillon per via di una farfalla tatuata sul corpo.
C’è chi giura che il protocollo sia cessato nel 2007. E chi invece sostiene che sia durato più a lungo, diversificando gli scopi fino a costituire la copertura per una attività di spionaggio degli avvocati dei mammasantissima. Ha raccontato il collaboratore Vito Galatolo che durante la sua detenzione a Parma venne a conoscenza che c’erano state continue visite di 007 e militari del Ros per incontrare i boss al 41 bis.
I contatti sarebbero stati instaurati con i boss Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano e il catanese Enzo Aiello, ma anche con Nino Cinà, il medico che avrebbe fatto da tramite tra Ciancimino padre e il vertice corleonese durante la trattativa per far cessare le bombe, recapitando il famigerato papello con le condizioni di Riina per restaurare la pace. Un altro sarebbe Salvatore Rinella, sistemato nella stessa cella di Antonio Iovine, boss dei Casalesi, che dopo avrebbe maturato l’idea di collaborare con la giustizia.
Ha spiegato l’ex pm Alfonso Sabella, che è stato alla guida del servizio ispettivo del Dap: «A me non sconvolge tanto che si paghi un informatore perché dia le informazioni ai servizi segreti o alla polizia giudiziaria. Quello che mi sconvolge è il fatto che si agisca su delle possibili potenziali fonti di prova dell’autorità giudiziaria, inquinandole alla radice, e quando anni dopo o mesi o settimane questi boss hanno deciso di collaborare, probabilmente non erano più le stesse fonti di prova che potevano essere in passato, nel senso che le loro dichiarazioni potevano essere state inquinate, pilotate, indirizzate».
Soffiate e spioni, dall’uccisione di Rocco Chinnici alla bomba dell’Addaura
C’è il boss bagherese Gino Mineo, che è negli Usa il giorno in cui la tecnica libanese dispiega per la prima volta i suoi effetti a Palermo per uccidere il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il 29 luglio dell’83. Dagli Stati Uniti Mineo riceve i dettagli – «Hanno messo Tnt nella macchina, lui è morto, con la scorta e il portiere, e altre quindici persone sono rimaste ferite» – ma non il nome della vittima. Che, evidentemente, deve essergli noto. Una strage annunciata, quella di Chinnici, come poi sarebbe accaduto anche per quelle di Capaci e via D’Amelio. Il libanese Bou Chebel Ghassan, trafficante di droga in contatto con i Servizi e informatore della polizia, dice che a Palermo si prepara un gran botto nell’estate dell’83.
Lo ha appreso agli inizi di luglio in un hotel di Taormina. Il 26 riceve ulteriori dettagli e parla di autobomba. Nomi non ne fa o non è in grado di farne. Informa però i suoi referenti che fanno regolare rapporto, ma non viene creduto. E tre giorni dopo Chinnici muore quando esplode una 126, proprio come in via D’Amelio nove anni dopo, imbottita di esplosivo. Uccide anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui abitava il giudice. Chinnici voleva arrestare i cugini Nino e Ignazio Salvo,
Falcone era di diverso avviso e nei diari di Chinnici diffusi ad arte dopo la sua morte c’era traccia di quel dissenso. Un anno dopo è proprio Falcone ad arrestare i Salvo. A Caltanissetta, durante il processo per la morte di Chinnici, l’allora capitano Angiolo Pellegrini conferma quel che aveva raccontato anche il vicedirigente della squadra mobile, Ninni Cassarà: sì, Chinnici aveva intenzione di arrestare i potenti esattori siciliani trait d’union tra mafia e politica. Dei padreterni dal colletto più che bianco.
Da una intercettazione salta fuori che durante una telefonata il potente avvocato Vito Guarrasi, Pippo Cambria, parente e uomo di fiducia di Nino Salvo, e quest’ultimo così si erano espressi su Chinnici: «Continua a dare tumpulate [schiaffi] e noi altri che gliel’abbiamo date prima di lui».
Furono i Salvo a perorare l’omicidio Chinnici? I collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Franco Di Carlo, a distanza di parecchio tempo, hanno confermato che le loro lamentele presso la commissione mafiosa non rimasero inascoltate. Ma di quella intercettazione non esiste più traccia, sparito il nastro, sopravvive solo in una trascrizione della polizia.
C’è chi avvisa i cecchini di Cosa Nostra che Ninni Cassarà, il 6 agosto dell’85, tornerà a casa dopo tre giorni trascorsi in Questura e quelli che lo aspettano – tra loro, forse, anche uno sbirro amico degli amici – aprono le bocche di fuoco e gli scaricano addosso decine di colpi di kalashnikov. Con lui uccidono Roberto Antiochia, il poliziotto che ha rinunciato a trasferirsi a Roma per stare al fianco del suo funzionario,
Un altro agnello della squadra mobile di Palermo, da dare in pasto ai leoni. Proprio come, prima di lui, Lillo Zucchetto e Beppe Montana. Non sarà l’ultimo.
C’è chi mette in giro la voce che Natale Mondo, l’uomo più fidato, l’autista di Ninni Cassarà, che porta a pesca in segreto il vicequestore e Giovanni Falcone, si è salvato non perché si è gettato sotto la macchina mentre piovono raffiche di AK-47 ma perché è un colluso. Per tirarlo fuori dal carcere è necessario svelare che nella sua borgata, l’Arenella, sotto il controllo del boss Gaetano Fidanzati, il poliziotto ha lavorato da infiltrato. Ha utilizzato una vecchia conoscenza, Tony Duca, per ricostruire la mappa del traffico di droga tra la Sicilia e la Lombardia dove “Tanino” Fidanzati ha piazzato le sue basi al Corvetto: smista eroina e riceve coca dai narcos sudamericani.
Natale Mondo lascia la cella, ma diventa un morto che cammina. Non lo salva la pistola che porta alla cintola. Il 14 gennaio del 1988, quando il primo maxiprocesso è finito da meno di un mese e gli squadroni della morte dei Corleonesi passano a regolare tutti i conti lasciati in sospeso, lo uccidono davanti al negozio della moglie nella borgata dell’Arenella. E solo allora il cadavere dell’agente Natale Mondo avrà i gradi da assistente capo.
C’è il pentito Totuccio Contorno che a ogni raid tra Bagheria, Altavilla e Casteldaccia, tra marzo e maggio dell’89, chiama un telefono di Roma e racconta che i nemici «escono come i crastuna», vengono fuori come le lumache dopo la pioggia.
C’è il “Corvo Uno”, l’anonimo, che poco dopo racconta la sua verità sul ritorno armato del pentito Contorno in Sicilia.
C’è chi il 21 giugno dell’89 piazza l’esplosivo sulla scogliera dell’Addaura e chi distrugge i reperti che avrebbero potuto dire con certezza se poteva uccidere o fosse lì solo per intimidire Giovanni Falcone. Anche qui una “voce di dentro” spifferò ai sicari che il giudice sarebbe andato in spiaggia con i colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, ospiti nella sua villa dell’Addaura.
L’appuntamento per quel diversivo in mezzo a un’agenda fitta di impegni giudiziari sulle tracce del denaro dei mafiosi era stato preso la mattina del 19 giugno nell’ufficio di Falcone, a Palazzo di Giustizia: bagno a mare e pranzo per l’indomani, si era deciso. Ad ascoltare, oltre agli interessati, c’erano anche alcuni ufficiali di polizia giudiziaria. La sera del 19, l’appuntamento per l’indomani fu confermato a conclusione di una cena di rappresentanza.
Altre orecchie avrebbero potuto ascoltare. Il 20, il giorno convenuto per il pranzo, l’esplosivo era sulla scogliera. Un interrogatorio protrattosi oltre il previsto fece saltare l’appuntamento tra il giudice e i suoi ospiti. La bomba rimase sulla scogliera, alla villa non si vide nessuno e il 21 il pacco con l’ordigno fu scoperto.
Tutti i “pezzi mancanti” delle stragi (e del dopo stragi)
Accadde in una prigione inglese: un uomo dei servizi segreti, venuto dal passato, un altro che non avrebbe dovuto essere lì, e un terzo che era il loro lasciapassare, venivano a chiedere al boss in carcere un canale per parlare direttamente con il vertice dei Corleonesi. Chiedevano una tregua e offrivano una via d’uscita. Salvavano il male, per salvare se stessi. Per realizzare il piano bisognava mettere fuori gioco Giovanni Falcone.
Era il 1988.
Otto anni prima, racconta il collaboratore Franco Di Carlo, uno di quegli uomini e il boss, inviato lì a rappresentare il papa della mafia Michele Greco, erano insieme in una villa del litorale laziale. In quella villa si progettava un nuovo colpo di Stato, l’ennesimo, sotto le insegne della loggia massonica P2 e con la benedizione del capo del servizio segreto militare italiano Giuseppe Santovito. La mafia, al più alto livello, era seduta intorno a quel tavolo. E c’era anche Cosa Nostra, convocata per stare ad ascoltare quel che si stava preparando e partecipare. Il piano golpista andò in soffitta perché nel 1981 furono scoperti gli elenchi della P2 e lo scandalo travolse l’intero apparato di sicurezza, rivelando che l’Italia era in mano ad un contropotere fondato sul tradimento sistematico della lealtà repubblicana.
Credete davvero sia finita lì?
Agiscono per lo Stato e contro lo Stato, spiano, camuffano, depistano. Sono gli uomini dal doppio volto che affollano le cronache ma più spesso si rintanano nell’ombra a lavorare in proprio e per chi li paga.
Perché lo fanno? Per ansia di carriera, per fama e gloria, per soldi, per servire il padrone di turno, per un malinteso senso delle regole. Le loro storie sono immagini di specchi da luna park, falsate e ingannevoli, come lo sono i bagliori che confondono. Nei labirinti dei loro anni si sono consumate le storie di questo Paese. Quando si ha la pretesa di rintracciarne il filo, quello ti sfugge di mano e si aggroviglia, e bisogna ricominciare da capo.
Una carrellata di nomi, volti e storie per prendere confidenza con alcuni dei personaggi di queste pagine. C’è il misterioso signor Franco che dal 1971 tiene i contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi, e poi dalla fine del 2008 sorveglia l’ambigua collaborazione del figlio Massimo, rimanendo sempre una traccia evanescente e mutevole nella memoria del rampollo dell’ex sindaco. Massimo Ciancimino nella sua personalissima lista dei cattivi, a un certo punto, mette anche Gianni De Gennaro: carriera fulminante che gli vale l’epiteto di superpoliziotto, anche se adesso ha smesso la divisa e presiede Finmeccanica.
C’è Bruno Contrada, trent’anni in Sicilia in vari ruoli, da capo della squadra mobile a numero tre del Sisde, che rivendica grandi meriti nella lotta alla mafia ma non ha mai arrestato un potente. Condannato a dieci anni per concorso esterno, ha già scontato la pena. Nel novembre 2015 la Corte d’Appello di Caltanissetta ha respinto la richiesta di revisione avanzata dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che non doveva essere condannato per quel reato, non previsto dal codice e all’epoca dei fatti non sufficientemente consolidato nella giurisprudenza.
C’è il generale Antonio Subranni, futuro comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che da maggiore, per la morte di Peppino Impastato, avvenuta il 9 maggio del 1978, avalla la falsa pista di un attentato finito male allontanando così la verità su quell’omicidio e sulla responsabilità del boss Tano Badalamenti.
C’è chi arriva alla cassaforte della Prefettura di Palermo quando il corpo di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre dell’82, è ancora caldo, prende un pacco di carte, le fa sparire e rimette la chiave del forziere lì dove era stata inutilmente cercata. Quelle carte mai trovate spiegano perché i killer, insieme con il generale, hanno dovuto uccidere l’autista e la moglie dell’ufficiale, Emanuela Setti Carraro. Non potevano risparmiarla. Dovevano assicurarsi che l’operazione di sparizione dei documenti procedesse senza intoppi. Qualche giorno prima dell’agguato, il generale aveva detto alla moglie: «Se mi accade qualcosa prendi quel che sai, ho messo tutto nero su bianco».
I collaboratori di giustizia e le accuse a Bruno Contrada
Bruno Contrada, il superpoliziotto, per Franco Di Carlo non è che l’ingranaggio di un sistema nel quale mafia e antimafia hanno convissuto.
Contrada è rimasto per una vita intera a Palermo. Era arrivato quando regnava la tregua e a quel modello si è rifatto.
Il boss Saro Riccobono da latitante viveva nella sua casa, non lo cercava nessuno. Il maresciallo che avrebbe dovuto segnalarne la presenza aveva fatto interessare Nino Salvo per evitare di essere trasferito. Non deve fare impressione, le cose a quel tempo funzionavano così.
Dopo la guerra, il 50 per cento dei sindaci erano Cosa Nostra e la Sicilia per lungo tempo ha funzionato così. Cosa Nostra non era quella che sparava e ammazzava, era un sistema di potere nel quale chiunque avesse ambizione e nessuno scrupolo voleva entrare, in pochi non volevano averci veramente a che fare.
Niente di strano allora che Contrada potesse andare a trovare Riccobono a casa mentre questi era latitante. Io l’ho visto con i miei occhi, e del resto anch’io ero latitante. A Palermo si dice che se vuoi campare molti amici ti devi fare e a quelli di Cosa Nostra non devi toccare. E Contrada si è fatto molti amici e per Cosa Nostra aveva un occhio di riguardo.
Lui, campano, si era perfettamente inserito nell’ambiente palermitano e aveva avuto un buon maestro nel vicequestore Purpi, originario delle Madonie, che da sottufficiale era diventato commissario e poi vicequestore. Purpi aveva il terrore di essere ucciso e per questo si era messo a disposizione di Stefano Bontate e di Mimmo Teresi. Teresi gli aveva dato un appartamento vicino via Lazio ed erano diventati vicini di casa.
Per lungo tempo, Purpi diresse il commissariato di via Libertà. Amava giocare a carte e spesso faceva una capatina da un suo amico, un certo Iuculano, che gestiva una pompa di benzina vicino al motel Agip e lì, tra una partita e l’altra, trascorreva i pomeriggi. Un giorno dovevano notificarmi il ritiro della patente ma io facevo di tutto per non farmi trovare, finché andai da Mimmo Teresi a dirgli che Purpi mi aveva fatto cercare. Mimmo mi disse che se ne sarebbe occupato e io non fui più disturbato.
Purpi era considerato ciò nonostante un duro. Negli anni Sessanta era il terrore di ladri e rapinatori, ma quando si trattava di persone che potevano essere di Cosa Nostra diventava un agnellino. Contrada aveva seguito le sue orme, facendo amicizia sia con Bontate che con i Buffa di Resuttana. Frequentava il centro estetica che Pino Buffa, sottocapo di Resuttana, aveva con suo cognato Matteo Tusa in una traversa di via Ausonia. E proprio tramite Buffa aveva poi conosciuto Saro Riccobono che era il capo di quel mandamento.
Negli anni Settanta, Contrada aveva visto cadere tanti suoi amici e colleghi e capiva che solo legandosi a personaggi di Cosa Nostra poteva sopravvivere a Palermo. Molte di quelle azioni erano opera di Riccobono che anche per questo si era meritato l’epiteto di “terrorista”.
La carriera di Contrada è stata costruita stando ben attento a non correre pericoli seri: qualche rapporto di polizia cui seguiva l’informazione a chi di dovere di tenersi alla macchia per un po’. Fece così anche per il rapporto che porterà al cosiddetto processo Spatola. Tra i destinatari del provvedimento c’era Giovanni Bontate, il fratello di Stefano, ma lui si premurò di far sapere che il rapporto “era vuoto” e non c’era da preoccuparsi.
Contrada andò da Saro Riccobono anche dopo la morte del generale Dalla Chiesa, chiedendo rassicurazioni sull’incolumità di chi era chiamato a sostituirlo, il prefetto Emanuele De Francesco, nominato alto commissario antimafia. La sua nomina non ha impensierito per nulla Cosa Nostra, perché De Francesco era già stato in Sicilia e si sapeva che, ove fosse necessario, utilizzando il canale dei Salvo, si sarebbe potuto trovare qualcuno in grado di avvicinarlo.
Riccobono, però, non poteva sapere che era pronta una trappola anche per lui e mi aveva raccontato dell’incontro con Contrada con l’aria di chi era sicuro del fatto suo. Ma nonostante le rassicurazioni, De Francesco – che non è mai stato sfiorato da sospetti – si trovò non poche difficoltà entrando presto in rotta di collisione con il giudice Chinnici nel cui ufficio era da poco arrivato anche Giovanni Falcone.
Durante la sua gestione fu De Francesco a chiamare al proprio fianco all’Alto commissariato Contrada, che aveva già conosciuto e con il quale aveva lavorato in precedenza. Ma Palermo in quegli anni era un inferno, la commissione presieduta da Riina sembrava il direttorio di una dittatura, con sentenze di morte a raffica. E De Francesco fece di tutto per tornarsene rapidamente a Roma dove tornò a dirigere esclusivamente il Sisde, portandosi dietro Contrada che del suo direttore sapeva parecchio.
Tuttavia Contrada, pur diventando il numero tre del Sisde, scelse sempre di occuparsi di Palermo perché qui aveva il suo passato e la sua carriera sarebbe finita se fossero venuti fuori i suoi ambigui comportamenti.
Prima di Mutolo a parlare di Contrada sono sia Buscetta che Marino Mannoia, e per il poliziotto diventa essenziale presidiare la città e tenere d’occhio quel gruppo investigativo, guidato da Falcone, che lo lasciava a debita distanza.
Ma il suo potere era comunque forte e all’interno della polizia molti funzionari erano del tutto assoggettati a lui e si uniformavano all’imperativo del quieto vivere. Ma quando è ormai chiaro che dentro Cosa Nostra comandano i Corleonesi sa anche che con loro deve fare i conti. Nulla avrebbe potuto essere realizzato anche dai Servizi a Palermo se Cosa Nostra non vi avesse partecipato.
Era impossibile piazzare una bomba nell’ambito di una loro strategia e non cercare un rapporto con l’organizzazione. Altrimenti il rischio sarebbe stato quello di scatenare una guerra. Questo spiega la ricerca spasmodica di contatti anche quando c’è da mettere fuori gioco Falcone e del resto nulla, né tanto meno, come dimostra ormai la storia, un colpo di Stato può essere immaginato senza l’assenso e la partecipazione degli uomini d’onore.
La caduta dei cugini Salvo, il loro arresto nel 1984, l’imputazione che costò a Ignazio la condanna che sarebbe arrivata anche per Nino, se non fosse morto prima, erano il segno che molte teste sarebbero rotolate: dopo aver bloccato Chinnici, in un agguato che sembra prefigurare quelli del 1992, i Salvo condividono con il maxiprocesso il destino di tanti uomini d’onore che facevano riferimento a loro per la soluzione dei propri problemi giudiziari. Insomma, come dicevano in Cosa Nostra, anche loro erano sotto scopa. Il loro avversario più irriducibile era Giovanni Falcone che sulle indagini di Chinnici aveva innestato i contributi dei collaboratori di giustizia.
L’omicidio Chinnici aveva rallentato di alcuni anni il declino dei Salvo, ma la manovra a tenaglia messa in atto da Falcone non gli avrebbe lasciato scampo. Era il segno che ormai la diga era crollata: non sarebbero stati travolti dalla piena giudiziaria solo picciotti e capimafia, ma la furia delle inchieste avrebbe spazzato via l’intera classe dirigente che quell’esercito aveva nutrito e foraggiato, alternativamente servendosene e facendosi usare in una normale dialettica di condivisione del medesimo spazio di potere.
Nello Stato, credetemi, c’era molta gente che aveva ancora più paura di quanta non ne avessero gli uomini d’onore. Falcone indagava per conto proprio, con un nucleo ristretto di fedelissimi, aveva estromesso tutti gli altri, non concedeva spazi, si fidava, e giustamente, pochissimo. C’erano uomini, come il generale Antonio Subranni, che avevano costruito la loro carriera all’ombra dei due poteri, quello di Cosa Nostra e quello della politica. Anche per uomini così sarebbe arrivato il tempo delle indagini e della scoperta di altre trattative, di altri accordi.
“Faccia da Mostro”, un uomo con licenza di uccidere?
E che è un habitué di vicolo Pipitone, il quartier generale del clan Galatolo, nella borgata marinara dell’Acquasanta. Una sorta di sala riunioni in cui si incontrano mafiosi che vanno lì a spartirsi soldi, ma anche “sbirri” che vanno a riferire e a prendere ordini.
Luigi Ilardo, il boss catanese che diventò confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, diceva di lui: «Stava in posti strani e faceva cose strane». Raccontò di voci che lo davano presente quando in pieno maxiprocesso, rompendo una tregua, la mafia uccise un bambino di undici anni, Claudio Domino. Dicevano che il “Mostro” fosse anche all’Addaura.
Ma intorno a lui c’è un altro poliziotto che fa cose strane.
Si chiama Guido Paolilli: è lui che si prende la libertà di far sparire i documenti che l’agente di polizia Nino Agostino teneva nell’armadio della camera da letto quando, il 5 agosto dell’89, venne ucciso insieme con la moglie incinta, mentre “Faccia da Mostro” – dicono in tanti – si aggirava sul luogo dell’agguato. E c’è il padre di Nino Agostino, Vincenzo, che riconosce in aula, al bunker di Palermo, “Faccia da Mostro” nell’ex poliziotto Giovanni Aiello. Lo indica fra tre persone, in un confronto all’americana. «Venne a cercare mio figlio un mese prima che morisse, disse di essere un collega».
C’è Emanuele Piazza, agente del Sisde, reclutato da poliziotti palermitani e lasciato in pasto, il 16 marzo del 1990, alle cosche quando il gioco si fa duro. C’è quello strano posto che è il commissariato Mondello, bazzicato da Agostino e da Piazza: vigila sulla spiaggia dei palermitani e solleva quintali di sabbia negli occhi di chi indaga per davvero.
C’è chi ha deciso di ristrutturare nel 1991 proprio quel cunicolo dell’autostrada di Capaci che salta in aria a maggio dell’anno successivo, affidando i lavori a una ditta di Altofonte.
C’è quell’imprenditore che ha eseguito i lavori, Andrea Di Matteo, che prima del botto chiama più volte l’America e a strage imminente telefona ancora a utenze che la Sip dichiarerà «inesistenti».
C’è chi ha dato nuova vita a quel telefono formalmente smarrito ad aprile del 1992 e quindi disattivato, ma che ad ottobre funziona ancora. E c’è chi ha indicato proprio in quel cunicolo dell’autostrada il punto migliore per imbottire di esplosivo il tragitto obbligato di Falcone e della scorta al rientro da Roma su un volo dei Servizi. E chi se ne è infischiato. C’è chi ha omesso di valutare una relazione di servizio della scorta di Falcone che indicava proprio in quel punto esatto il luogo a maggior rischio per il passaggio del corteo. E chi ha ignorato anche questo.
Ci sono emissari dell’agente siriano Nizar Hindawi con i quali Nino Gioè, boss stragista di Altofonte, è entrato in contatto nella primavera del 1992 grazie a Franco Di Carlo, il suo capofamiglia detenuto in Inghilterra, che dal reparto speciale del carcere di Brixton già dalla fine dell’87 viene trasferito in un penitenziario del Nord dell’Inghilterra da dove può tenere comodamente rapporti con mafiosi e spioni.
C’è il “Corvo Donna”, che tira in ballo un mobilificio come base del commando stragista. La rintraccia Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile diventato il dominus delle indagini sugli eccidi, e conclude che non è una buona pista. Liquida quella possibilità subito dopo aver svolto un sopralluogo insieme con non meglio precisati investigatori americani.
E c’è chi cancella la memoria del databank di Giovanni Falcone.
C’è Calogero Calà, fidato uomo di Bernardo Provenzano, che fa una serie di curiose telefonate a un’utenza del Viminale nel giugno del 1992.
C’è chi riceve altre strane telefonate dal Grand Hotel Villa Igiea, sotto stretto controllo dei Galatolo dell’Acquasanta, mentre lo squadrone della morte sta lavorando al grande botto del 19 luglio del 1992, a una manciata di metri da lì. E chi prende la borsa di Paolo Borsellino quando via D’Amelio sta ancora bruciando e fa sparire l’agenda rossa.
C’è il “Corvo Due”, che nell’estate del 1992 racconta di un incontro tra l’ex ministro Calogero Mannino – indagato e assolto per concorso esterno e la trattativa Stato-mafia per far cessare le stragi del 1992-93, scandagliata dalle inchieste di Firenze, Palermo e Caltanissetta – e Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato dopo l’omicidio di Salvo Lima e prima delle stragi.
L’Alto commissariato per la lotta alla mafia e i servizi segreti
Che cosa è accaduto prima che quello scontro si consumasse? Lo Stato, quello Stato che gli aveva negato i poteri di intervento invano richiesti nei suoi cento giorni da prefetto di Palermo, dopo la morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel settembre del 1982 ha rispolverato l’idea di confinare alle competenze di un Alto commissariato per la lotta alla mafia in Sicilia tutta l’azione investigativa e di intelligence.
In breve, quella struttura, inaugurata dal governo Spadolini, diventa una superprefettura a forte impronta governativa che con centra informazioni ed emana direttive, tiene i contatti con gli apparati dei Servizi, gestisce alcuni collaboratori di giusti zia, interferisce pesantemente con gli organismi investigativi territoriali e ha una interlocuzione diretta con la magistratura inquirente.
Accreditando l’intima convinzione che la mafia sia affare siciliano con nessuna proiezione nazionale: un fatto locale, quasi antropologicamente connaturato all’esistenza stessa del popolo isolano. È l’edificio che sorregge l’idea di allontanare da Roma il sospetto di una mafia annidata nelle pieghe dello Stato.
L’Alto commissariato, nell’immaginario, è il presidio di legalità nella terra degli infedeli, il fortino sicuro che garantisce l’ordine lì dove regna il disordine. Il primo a presiederlo è Emanuele De Francesco, che si tiene vicino Bruno Contrada. Si succederanno poi Riccardo Boccia, Pietro Verga, Domenico Sica che batterà nella corsa alla nomina lo stesso Falcone, e Angelo Finocchiaro. De Francesco e Finocchiaro arrivano a Palermo direttamente dal Sisde.
La struttura durerà dieci anni, dal settembre del 1982, dai funerali di Dalla Chiesa, al dicembre del 1992, quando Falcone e Borsellino sono morti da mesi e la Dia diventa realtà. Solo allora l’Alto commissariato sarà smantellato come fosse un carrozzone pubblico, uno dei tanti, che fino ad allora ha resistito provando a ritagliarsi una nicchia di potere che le creature di Falcone promettono di spazzare via. Costellato di misteri, il decennio dell’Alto commissariato, tra una strage e l’altra, si conclude con un fatturato pari a zero.
Anzi, pare abbia remato costantemente contro.
Il pentito Rosario Spatola imputa all’essere stato sotto custodia dell’Alto commissariato una certa ritrosia a fare il nome di Bruno Contrada all’avvio della sua collaborazione. Falcone gli attribuiva il fallimento dell’operazione di collaborazione con la giustizia di Tano Badalamenti.
Dall’Alto commissariato tireranno fuori il nome del giudice Alberto Di Pisa come l’autore di lettere anonime che screditano Falcone. E quando Di Pisa, che non ci sta a passare per il Corvo, si difende sollevando più di un dubbio sui metodi di indagine dell’Alto commissariato, Sica dirà che proprio Falcone gli ha fatto il nome di Di Pisa, inaugurando una delle stagioni dei veleni palermitani.
Quando, tra il 1988 e il 1990, il professor Giuseppe Giaccone, algologo di fama con la passione per la politica che lo porta ad amministrare da socialista dissidente il piccolo comune di Baucina alle porte di Palermo, prova a scatenare con le sue rivelazioni la prima mafiopoli siciliana, appalti per miliardi negoziati direttamente dalle cosche alla Regione siciliana, l’Alto commissariato interviene a proteggerlo.
Allora Giaccone, che fino a quel momento ha parlato con i carabinieri di Mario Mori e dell’allora capitano Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Falcone, cambia idea e anzi lascia intendere che il suo legale, Pietro Milio, De Donno e il solito Falcone gli hanno estorto le sue dichiarazioni. E i veleni tracimano.
Nella sua testimonianza del 1999, Arlacchi colloca Contrada tra i “cattivi” e, sia pure in posizione più sfumata, mette nella stessa casella anche il generale Mori, considerato dalla Procura di Palermo uno degli artefici della trattativa Stato mafia della primavera del 1992. Il generale, portato a processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, è stato assolto.
Così come, […], per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. A processo, come vedremo, per la trattativa. Ma su questo punto l’opinione di Arlacchi diverge da quella dei giudici di Palermo: per lui non si trattò di un accordo che coinvolgeva le istituzioni, ma fu un’iniziativa circoscritta ad alcuni uomini della Dc e ad alcuni carabinieri da un lato e Cosa Nostra dall’altro.
«Dopo le stragi del 1993 – prosegue il sociologo – si consolidò presso i vertici della Dia l’idea che le stragi avessero una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto – e cioè il gruppo Contrada –, fosse uno dei terminali della trattativa.
Quando nell’intervista faccio riferimento, per le trattative allora in corso, “al Ros”, intendo riferirmi al colonnello Mori; sospettavamo, infatti, che vi fosse in atto un’azione di depotenziamento delle indagini della Procura di Palermo, anche tramite contatti con appartenenti a Cosa Nostra che convincevano l’associazione della possibilità di uscire in qualche modo indenne dalla fase delle indagini compiute dal pool di Palermo.
Il prefetto Parisi era certamente a conoscenza di questa situazione, ma il suo atteggiamento è sempre stato quello di cercare una mediazione con questi ambienti – intendo riferirmi al gruppo di Contrada – poiché era a conoscenza di quanto potessero essere pericolosi e cercava, pertanto, di contenerne l’azione».
Nell’intervista oggetto dell’interrogatorio, Arlacchi aggiunge una considerazione molto precisa: «Quegli apparati infedeli tentarono il colpo grosso, nel 1989, con la bomba all’Addaura contro Giovanni Falcone. Gli andò male, ci riprovarono con successo tre anni dopo a Capaci». Decisamente più riduttive le ricostruzioni di De Gennaro, che nella sostanza ha escluso che i sospetti sul conto di Contrada fossero così
Pino Arlacchi e l’analisi sul “contesto” delle stragi del 1992
Cosa Nostra odiava il magistrato, ma in tanti avrebbero voluto vederlo morto e gli stessi suoi colleghi non mancavano occasione per denigrarlo o per delegittimarlo impedendogli di portare avanti il suo progetto. Quando si trattò di concorrere per il posto di capo dell’Ufficio istruzione gli fu risposto che bisognava privilegiare il criterio dell’anzianità anziché quello del merito.
Era inviso ai magistrati preoccupati che il suo modo di procedere decretasse la fine della pacifica coesistenza tra Stato e mafia che nelle aule di giustizia aveva avuto modo di concretizzarsi con assoluzioni in massa e interpretazioni del diritto, corrette sul piano formale e decisamente ingiuste sul piano sostanziale. Una giurisprudenza di favore che aveva consolidato il mito dell’impunità di Cosa Nostra.
La sentenza ha dimostrato che il presidente della prima sezione della Cassazione, Corrado Carnevale, non è stato corrotto dai boss per arrivare ai verdetti di assoluzione. Gli uomini d’onore però facevano comunque grande affidamento sul suo approccio ai giudizi di mafia che gli aveva procurato l’appellativo di “ammazzasentenze”.
E lo stesso Carnevale non nascondeva, pubblicamente e in privato, il proprio disprezzo per il pool antimafia di Palermo tanto da abbandonarsi a giudizi pesantissimi in una conversazione intercettata finita agli atti del suo processo nella quale definisce Falcone e Borsellino, già morti, i Dioscuri. Prima di coltivare un piano di morte nei confronti di Falcone, chi progettava il suo assassinio era intenzionato a ridimensionarlo, a fare in modo che si ritirasse dalla scena.
L’omicidio era solo la soluzione finale e nel tempo, come avremo modo di vedere, furono sperimentate varie strategie, rivelatesi infruttuose. Uno degli amici di Falcone, il pm del maxiprocesso Giuseppe Ayala, oggi in pensione dopo un periodo da parlamentare e da giudice civile a L’Aquila, ritiene che una delle maggiori concause della fine di Falcone fu la sua ostinata determinazione nell’instaurare il principio della rotazione nell’attribuzione dei processi di mafia in Cassazione.
Fino a quando Falcone non intervenne direttamente presso il primo presidente della Suprema Corte, Antonio Brancaccio, l’attribuzione dei processi era automatica: finivano sempre alla sezione di Carnevale. Facendo leva sul proprio ruolo al ministero dove era giunto nel 1991, al fianco del guardasigilli Claudio Martelli, in vista dell’arrivo in Cassazione del primo maxiprocesso, Falcone ottenne che Brancaccio stabilisse un’assegnazione casuale, a rotazione tra le varie sezioni.
L’intervento fu percepito da Cosa Nostra come l’ennesima dimostrazione che anche da Roma Falcone fosse perfettamente in grado di intervenire sui processi di mafia e sul corso della giustizia. Per i suoi stessi colleghi ai piani alti della giurisdizione quel colpo di mano corrispondeva a un terremoto che sottraeva definitivamente ogni spazio di discrezionalità e di potere. Il Palazzaccio finiva sotto osservazione e ciò che aveva re so possibile il perpetuarsi dell’impunità di Cosa Nostra, con le sottili interpretazioni in punto di diritto per giustificare l’inattesa apertura di gabbie che avrebbero dovuto rimanere chiuse, tramontava definitivamente.
Sono sicuro che se Falcone si fosse ritirato al ministero, ritagliandosi un ruolo comodo, e avesse abbandonato la prima linea, non avrebbero avuto alcun interesse a colpirlo e certamente non in quel modo e in quel preciso momento. Invece il suo ruolo era visto come una minaccia non soltanto per gli affari presenti ma anche per quelli futuri dell’organizzazione.
Falcone dava l’idea di volere cambiare tutto, di volere intervenire sul sistema giudiziario, di distruggere alle fondamenta Cosa Nostra e la struttura di potere istituzionale che la sosteneva, di non avvalersi più degli investigatori e degli uomini dei Servizi che avevano garantito una convivenza tra noi e loro, e questo era inaccettabile.
Cosa Nostra sa aspettare e non agisce mai d’impulso. Lo ha fatto sobbarcandosi il peso delle indagini per il primo maxi processo e poi, quando arrivò la sentenza di primo grado, puntando tutto sull’appello. Già in secondo grado alcune condanne furono cancellate e dalla Cassazione ci si aspettava molto. Ma quando anche in Cassazione le cose andarono male la situazione precipitò.
Gli amici di Cosa Nostra allargavano le braccia, dimostravano di non potere fare più molto, dicevano di avere le mani legate e questo innescò in Riina la volontà di dimostrare che l’organizzazione fosse forte e viva e che non avrebbe permesso a nessuno di distruggerla. In questo, i suoi interessi convergevano perfettamente con chi, dentro le istituzioni, coltivava la preoccupazione di essere spazzato via dalla ventata di novità rappresentata dal nuovo corso. Per la mafia e per chi la appoggiò fu una scelta folle e suicida.
Il maxiprocesso aveva stabilito che il teorema Buscetta – nessun delitto eccellente, nessuna eliminazione di uomo d’onore può avvenire senza il consenso della commissione mafiosa – era diventato un paradigma giudiziario.
La collaborazione con la giustizia di Francesco Marino Mannoia «aveva aggiornato l’organigramma della commissione»: di fatto, decidendo di eliminare Falcone in Sicilia e con una strage, era come mettere il bollo sull’eccidio, sacrificando i capicommissione detenuti. Indubbiamente un’opportunità per i latitanti che avrebbero potuto godere del vantaggio di aver messo fuori gioco i loro pari grado in cella. Per questo, sebbene deliberata fin dal 1983, l’eliminazione di Falcone fu decisa da un direttorio ristretto dei capi di Cosa Nostra. Quelli liberi, non tutti peraltro, e con i reclusi che quella decisione subirono. È quella che Rosalba Di Gregorio, avvocato del boss Pietro Aglieri, ha definito «la complicazione del progetto».
Difficilmente lo Stato avrebbe potuto tacere di fronte a un’aggressione frontale, e anche i più morbidi dovettero fare la faccia da duri. In tanti capirono che non era più il tempo delle prese in giro, dei vedremo e faremo, non c’era più nulla da promettere. Ma le scelte del 1992 non furono che l’atto finale di una strategia iniziata almeno quattro anni prima, segnando un punto di contatto, l’ennesimo, tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, accomunati da un’identica preoccupazione: Falcone sarebbe arrivato a colpire più in alto.
Liquidata l’ala militare, aveva infatti già messo sotto osservazione i livelli superiori dell’organizzazione e aveva ben chiaro il quadro, avendo individuato chi, nello Stato, rappresentava il più formidabile alleato dei boss. I padrini temeva no, ma più di loro ad aver paura erano i colletti bianchi.
Cosa credete? Tutti quelli che per anni erano andati a braccetto con Cosa Nostra, dai politici agli investigatori, passando per i magi strati, potevano davvero starsene con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero? Dopo la morte di Falcone, nel dicembre del 1992, toccò fare quella fine a Bruno Contrada. Ma immaginate davvero che Contrada fosse il solo? Era il numero tre dei servizi segreti italiani, aveva condotto tutta la sua carriera in Sicilia, era il punto di riferimento dell’Alto commissariato alla mafia, era l’uomo del capo della polizia in Sicilia. Solo lui era il traditore? Solo lui aveva fatto il doppio gioco? Troppo facile e troppo comodo.
Di Contrada io sapevo che era amico di Riccobono e Bontate. Ma non agiva da solo, era coperto dai suoi superiori, a cominciare dall’alto commissario Emanuele De Francesco, che non potevano non sapere. E così per molti altri la cui carriera era stata decisa a tavolino grazie ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, gli uomini che facevano da cerniera tra Cosa Nostra e la politica.
L’11 settembre del 1999, sentito dai magistrati, il sociologo Pino Arlacchi, anche lui amico di Giovanni Falcone, risponde va così alle domande dei pm di Caltanissetta sul contenuto di un’intervista rilasciata poco tempo prima a Francesco La Licata della «Stampa»: «Era mia convinzione che effettivamente Cosa Nostra nell’eseguire le stragi di Capaci e via D’Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle istituzioni, soprattutto del Sisde, che si trovavano in quel momento in difficoltà, poiché stavano per venir meno gli storici referenti di carattere politico ed avevano, pertanto, per così dire, “cavalcato” la reazione comunque autonoma di Cosa Nostra, pilotandola per asservire allo scopo di riacquisire quella centralità che avevano avuto nel passato.
Si trattava di un’analisi – quella delle difficoltà in cui si trovavano questi ambienti istituzionali in quel periodo – che era condivisa anche dal dottor Falcone e dal dottor Borsellino. Difficoltà che nascevano dall’abolizione dell’Alto commissariato, che aveva sempre costituito il terreno fertile di questi soggetti, e dalla perdita di potere della parte politica che li aveva sempre garantiti. Faccio riferimento, in particolar modo, allorquando parlo di ambienti istituzionali, al gruppo del Sisde che aveva come punto di riferimento il dottor Contrada, ed anche qualche gruppo appartenente all’Arma dei carabinieri che aveva nell’allora colonnello Mori il punto di riferimento.
Il colonnello Mori e il dottor Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione col dottor De Gennaro. Lo stesso non condivideva il metodo con il quale il colonnello Mori agiva in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un’azione che definirei poco trasparente. Preciso, tuttavia, che il giudizio su Mori e sui soggetti allo stesso vicini non era così negativo come quello che si aveva su Contrada, che ritenevamo davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi».
Per i magistrati nisseni, che riportano integralmente l’audizione di Arlacchi nella richiesta di misura cautelare per le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio, si tratta di «mere deduzioni di uno studioso», ma l’interesse per il quadro delineato rimane intatto.
Dunque, da due diverse prospettive, tra la fine degli anni Ottanta e il 1992, il punto convergente sembra essere quello di uno scontro tra apparati: il morente Alto commissariato per la Sicilia, che al crepuscolo di una stagione politica sta per cessare, la nascente Direzione nazionale antimafia (Dna) – vale a dire il coordinamento unico delle indagini – e la Dia che è la sua articolazione investigativa, che vedranno la luce subito dopo le stragi del 1992. Dna e Dia sono creature di Falcone, immaginate nei suoi anni palermitani, edificate nella sua stagione interrotta al ministero con Claudio Martelli.
“The mafia in London”, l’incontro tra il boss e il giudice Falcone
Nel 1985, per il padrino di Altofonte si chiude comunque un’epoca. Ma gli amici non lo abbandonano neppure tra le sbarre, e anche nella sua cella inglese la sua è una detenzione molto particolare. Nell’ottobre del 1987, a tre mesi dalla condanna, gli dedicano un servizio sul glorioso «The Illustrated London News» che esce a cadenza mensile.
Il titolo è How crime is organized in London. In copertina i redattori del giornale sono più perentori: The mafia in London. Nel servizio ci sono le foto di Alfonso e Pasquale Caruana, i rampolli della genia di mafio-imprenditori siciliani che ha fatto fortuna tra il Regno Unito, il Venezuela e il Canada. Ma anche quella che ritrae la regina Elisabetta in visita a Palermo nel 1980, all’uscita del Palazzo Gangi-Valguarnera di proprietà della famiglia di Alessandro Vanni Calvello, il socio di Franco Di Carlo.
L’autore dell’articolo annota con lungimiranza: «He may provide his fellow prisoners with some rather useful contacts in Sicily», egli può fornire ai suoi compagni di prigionia con tatti molto utili in Sicilia, e «It is likely that he will still be able to conduct business from behind bars», è probabile che sarà ancora in grado di condurre gli affari da dietro le sbarre.
Durante il processo è accaduto che un investigatore di Scotland Yard abbia dovuto ammettere candidamente che il fascicolo di Franco Di Carlo è lost, introvabile, mentre i giornali avanzano il sospetto che siano volate mazzette nel tempio dell’investigazione britannica. Una testimone finisce arrotata misteriosamente da un’auto pirata. Un gruppo di altri potenziali testi si mostra assai poco loquace davanti alla Corte.
Lui prende la parola al processo per spiegare che ha fatto fortuna in Inghilterra perché è un imprenditore, che non è partito dalla Sicilia con la valigia di cartone e poi, rivolto alla giuria, prova a chiedere: «Avete ascoltato il titolare della fabbrica di mobili che non mi conosce né ha mai intrattenuto rapporti d’affari con me di qualsiasi genere. È venuto a raccontare delle spedizioni da Bangkok, dentro quei mobili c’era droga, ma chi ce l’ha messa? Lui, la dogana?
Io so solo che in Thailandia non sono mai stato, che il fabbricante dei mobili non aveva spedito a me quella merce e che è libero mentre io sono accusato di avere ricevuto qualcosa che non ho mai ordinato». Non gli credono. Ma la sua appassionata difesa, l’aura sinistra che lo circonda, la scia di misteri che lo accompagna accresce l’interesse nei suoi confronti. Il mito rimbalza dall’Italia all’Inghilterra e nelle Americhe.
Franco Di Carlo si conquista presto la fama di intoccabile, nonostante la severità della condanna e la dura chiosa con la quale il giudice accompagna la sentenza: fosse dipeso da me gli avrei dato l’ergastolo. Dopo un mese morirà anche lui. Ma almeno lui di morte naturale. In Gran Bretagna decretano la custodia nell’alta sicurezza, la stessa riservata ai terroristi dell’Ira, destinazione la prigione di Brixton a Londra, ma già dopo la condanna viene tra sferito in un penitenziario dove i controlli sono più blandi. E le possibilità, per lui, maggiori.
GABBIE APERTE
Dentro il carcere di Leicester Franco Di Carlo, accompagnato dalla reputazione di potente boss in cartello con il clan dei Caruana-Cuntrera, è temuto e rispettato. La quotidianità e il tratto affabile, oltre a un eloquio sciolto anche in inglese, abbattono molte delle resistenze che rendono netta la distanza tra guardie e detenuti.
Per via del lavoro interno al penitenziario, Franco Di Carlo ha così libero accesso agli uffici, si comporta da detenuto-impiegato modello e soprattutto, oltre alla normale possibilità di telefonare a casa, beneficio assicurato con regolarità ai reclusi inglesi, ha la disponibilità praticamente illimitata della linea telefonica del direttore che gli ha concesso la massima fiducia.
Lontano da Altofonte, il suo paese, ma costantemente in contatto con gli uomini che sono rimasti sul territorio, si in forma e si aggiorna su ciò che accade, rassegnato a scontare dietro alle sbarre poco meno di tredici anni. La prigione diventa la meta di molti giudici, Giovanni Falcone per primo, ma anche di molti altri.
I giudici italiani erano interessati alla mia collaborazione con la giustizia, dopo avermi dato la caccia per tanti anni si erano fatti una certa idea di quale contributo avrei potuto dare. In quasi trent’anni dentro Cosa Nostra ho accumulato informazioni e conoscenze che sono state il mio vero capitale. Se ho taciuto su alcune cose, se ci sono cose che dirò adesso e non ho mai raccontato prima è perché ho imparato a proteggermi da solo e perché le persone con le quali sono venuto in contatto avevano un potere enorme, che ho toccato con mano quando ero fuori e che non si fermava davanti al portone di un carcere. Sapevano come arrivare a me in qualsiasi momento, da detenuto e anche quando avevo già deciso di collaborare con la giustizia.
Nel 1988, dopo la condanna inglese, Franco Di Carlo si trova faccia a faccia con Giovanni Falcone. Con lui ci sono il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, costretto a chiedere il trasferimento in Cassazione dopo la morte di Falcone, e il pm Gioacchino Natoli, oggi presidente della Corte d’appello di Palermo.
Falcone conduce un dialogo denso di sottintesi, un confronto tra siciliani durante il quale anche i silenzi sono parte integrante della comunicazione. Franco Di Carlo declina l’invito a collaborare mai propostogli esplicitamente. Gli viene solo offerto di tornare in Italia, ma sa benissimo che per ottenere di scontare la pena nel nostro Paese deve mettersi sotto l’ala delle autorità e non ne ha alcuna intenzione. Non ha mai visto prima di allora Giovanni Falcone, ma di lui sa già tutto. Ha seguito passo passo ogni sua mossa. Ha potuto constatare dall’interno quali effetti abbiano prodotto le sue indagini. Ma sa, sopra ogni cosa, quale terremoto abbia prodotto all’interno dello stesso apparato giudiziario. Tra quegli stessi uomini che fino ad allora avevano garantito l’impunità degli uomini d’onore.
A cominciare dai primissimi anni Ottanta, Falcone porta scompiglio dentro al Palazzo di Giustizia di Palermo. Comincia a lavorare nell’ufficio del consigliere Rocco Chinnici che lo vuole accanto. Nasce una coppia perfetta per portare avanti l’idea di fare pulizia dentro e fuori il Palazzo di Giustizia di Palermo.
Il periodo era molto difficile, una nuova guerra di mafia era alle porte. Era stato ucciso il procuratore Gaetano Costa (6 agosto 1980) e solo perché aveva fatto il proprio dovere. Se ne era occupato Stefano Bontate insieme con Totuccio Inzerillo per dimostrare a Riina che anche loro erano capaci di uccidere un magistrato. Riina, negli anni precedenti, aveva portato in commissione decine di richieste di eliminare questo o quel personaggio: dal colonello Giuseppe Russo (20 agosto 1977) al giornalista Mario Francese (26 gennaio 1979), dal segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina (9 marzo 1979) al giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), dal presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) al capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980), tutti uccisi dai Corleonesi per sgomberare il loro orizzonte d’affari ai politici che li rappresentavano, Vito Ciancimino in primis che era legato a doppio filo con Bernardo Provenzano.
Era quest’ultimo, “Binnu”, a riferire a Riina chi erano gli uomini che intralciavano il cammino di Vito Ciancimino, e Riina traduceva tutto nell’ordine di eliminare il problema con un omicidio. Questo era l’andazzo quando Falcone inizia a lavorare su Cosa Nostra. In quel Palazzo di Giustizia, così come fuori, fino ad allora si era fatto quello che si voleva.
Invece Falcone non si limita a ricostruire la mappa delle famiglie, ma fruga anche nelle banche, scopre decine di funzionari malleabili o corrotti e lavora sempre di più con persone selezionate di cui si fida ciecamente. Tiene lontano dalle sue indagini Bruno Contrada che evidentemente non doveva avergli fatto una buona impressione. Eppure Contrada era considerato un poliziotto molto bravo, un vero mastino, uno sbirro temuto dalla mafia. Ciò che si scoprirà dopo, ossia che era in rapporti con il boss di Partanna Saro Riccobono, ciò che si scoprirà con le dichiarazioni di Gaspare Mutolo che porteranno all’arresto di Contrada sul finire del 1992, dentro Cosa Nostra era già risaputo.
Ed evidentemente anche Falcone doveva aver avuto informazioni precise. Tutta la sua azione investigativa viene condotta tenendo alla larga Contrada dai suoi fascicoli.
Falcone punta in alto, Cosa Nostra non sta a guardare. E non è la sola.
Tutti quelli che in un modo o nell’altro finivano nel mirino delle inchieste di Falcone correvano a lamentarsene con i cugini Salvo, con Ciancimino o con Salvo Lima, considerati i riferimenti politici di Cosa Nostra, i quali ne parlavano con i capi dell’organizzazione.
Falcone viene percepito come una minaccia costante, non solo per la libertà di tanta gente, ma per la cassaforte di Cosa Nostra che si era gonfiata di soldi prima con le sigarette e poi con la droga e gli appalti. Falcone doveva chiudere gli occhi, come avevano fatto per tanto tempo molti suoi colleghi. Quei soldi devono girare tra Palermo e l’America e tutto il suo darsi da fare lo impedisce. E Falcone non si arrende di fronte alle difficoltà, non gli bastava mettere in piedi il maxiprocesso, coltivava invece di cambiare il sistema radicalmente. Riesce a far saltare il segreto bancario che era lo scudo dietro al quale si riparavano le fortune dei capi dell’organizzazione e dei loro complici.
È questo il cuore del problema: Falcone non era soltanto il magistrato che perseguiva i reati e otteneva le condanne e non era solo inavvicinabile – e questo era già di per sé abbastanza strano in una città come Palermo –, aveva il sogno di sconfiggere davvero Cosa Nostra, di tagliarle le gambe, spezzando i legami con la politica e con le forze di polizia e la stessa magistratura.
Dal punto di vista di Cosa Nostra, il giudice si sta pericolosamente avvicinando al cuore del potere mafioso, al rapporto con la politica e alla rete di relazioni che fanno dell’organizzazione un sistema consolidato che ha governato pressoché indisturbato ampie porzioni di territorio. Nel suo modo di procedere c’è l’intima convinzione che senza sciogliere il no do che tiene avviluppata la struttura militare al direttorio in cui gli interessi criminali si fanno governo della cosa pubblica è difficile scardinare le cosche.
Durante il cammino si rende perfettamente conto che le complicità e le connivenze non hanno risparmiato alcun apparato legale. Il suo piano è di rimettere mano intanto alle strutture investigative, compro messe da anni di quieto vivere, paura, convenienze.
Francesco Di Carlo, il “godfather” inglese dalla doppia vita
Torniamo a Di Carlo. La memoria dei ruggenti anni Settanta è ancora viva quando nel 1980 è costretto a darsi alla latitanza. Su di lui ha messo gli occhi proprio Giovanni Falcone, su di lui indagano già da tempo prima i carabinieri e poi la polizia. Lo considerano, e non a torto, un pesce grosso. Sanno dei suoi rapporti altolocati che costeranno anche al principe Vanni Calvello una condanna per mafia. Ma sanno soprattutto che Franco Di Carlo ha una caratura internazionale, per via del legame consolidato con i Caruana-Cuntrera che, partiti da Siculiana, in provincia di Agrigento, hanno costruito un impero tra Italia, Canada, Venezuela e Gran Bretagna grazie al narcotraffico.
Fino al 1985, Franco Di Carlo sfugge alla cattura, incassando, stavolta per interesse personale, molte delle informazioni sulle quali ha costruito il proprio capitale di credibilità di fronte all’organizzazione. Ha spie dappertutto, «amici», li chiama lui, talpe che per calcolo, amicizia, sudditanza, paura gli offrono su un piatto d’argento la dritta giusta per condurre una comoda fuga tra Palermo, Roma e Londra.
Nel 1982, mentre a Palermo impazza la guerra di mafia che porterà i Corleonesi a imporre la propria dittatura su Cosa Nostra, Franco Di Carlo, nel pieno della propria latitanza, finisce anche fuori famiglia.
Prima di darmi alla latitanza avevo predisposto ogni cosa, ave vano già avanzato nei miei confronti la proposta di soggiorno obbligato, sapevo dalle mie fonti che prima o poi avrebbero spiccato un mandato di cattura. Avevo già immaginato di trasferirmi in Inghilterra, cosa che poi ho fatto.
Dentro Cosa Nostra ci si preparava alla guerra e io sapevo che non avrei potuto rimanere ai margini. Avrei dovuto uccidere o peggio ancora tradire amici per mandarli a morire nelle mani dei Corleonesi. Io stesso avrei rischiato la vita.
Un primo campanello di allarme suona quando lo accusa no di avere fatto la cresta su una partita di droga. Un’accusa montata ad arte, spiega, per nascondere la vera ragione – ossia il diniego opposto alla richiesta di consegnare Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana ai carnefici dei Corleonesi – nell’eventualità che si fosse deciso di eliminarlo. Per quell’accusa, viene collocato “in sonno”: non può avere contatti con altri uomini d’onore e meno che mai fare affari, ma se Riina e soci chiamano, deve correre.
Mentre Palermo è un campo di battaglia, Franco Di Carlo si muove grazie al salvacondotto che gli assicurano protezioni ad altissimo livello e fa ormai la spola con il Regno Unito, dove è arrivato la prima volta nel 1976.
Lo arrestano il 21 giugno del 1985. Lo accusano di traffico internazionale di droga per un valore di 150 miliardi di vecchie lire che viaggiava da Bangkok al Canada via Londra, dentro mobili orientali, ma per questo si è sempre protestato innocente. L’11 marzo del 1987, l’Old Bailey, ovvero la Corte centrale criminale, gli infligge un totale di venticinque anni per conspiracy, l’equivalente della nostra associazione per delinquere, e per traffico di droga. Sa che, secondo il diritto inglese, dovrà scontarne due terzi. Alla fine ne farà undici in Inghilterra, uno a Rebibbia e quattro ai domiciliari. I giornali inglesi, con lui, scoprono la mafia.
La sua lussuosa residenza di Horsell Rise, a Woking, nel Surrey, a 50 chilometri da Londra, i locali che ha comprato e gestito, finiscono sulle pagine dei principali quotidiani e settimanali. E così anche per l’elenco delle società che gestisce e i rapporti d’affari o di amicizia intrattenuti.
Compresi quelli con Girolamo Maria Fauci, detto “Jimmy”, un trafficante siciliano che vive a Londra e che per il suo matrimonio, il 19 aprile 1980, avrà al ricevimento anche Marcello Dell’Utri e il meglio della mafia siciliana.
I giornali chiamano Franco Di Carlo “godfather”, il padrino. Pubblicano la sua fotografia, che lo ritrae rilassato con una tazza di caffè nero lungo nella destra e il Rolex in bella evidenza. Un sorriso beffardo e gli occhiali da sole all’ultima moda a coprire gli occhi di ghiaccio. Per gli inglesi è il prototipo del mafioso siciliano che si è inserito bene in Gran Bretagna. Un uomo d’affari, dalla doppia vita, dalla facciata rispettabile, che gestisce pub e agenzie di viaggi, che gira su auto lussuose, abita in una villa sontuosa, e possiede una moltitudine di altri rifugi per incontri d’affari riservati e decine di nascondigli in cui sparire.
Ma niente è stato più lontano dalla sua vita di allora dell’idea del fuggiasco, costretto a rintanarsi in luoghi isolati e inaccessibili. Ha girato in lungo e in largo per l’Europa con un passaporto. Su quel documento c’era scritto il suo nome, ma luogo e data di nascita sono stati corretti ad arte.
Un dettaglio, un piccolo intervento che gli ha assicurato la possibilità di viaggiare indisturbato. A un processo gli chiedono per tre volte: era un documento falso? Lui, dopo aver negato, ribatte serafico: «Perché dalla Questura escono passaporti falsi?».
Una manina compiacente ha ritoccato la sua scheda, corretto luogo e data di nascita, imputando la variazione alla necessità di correggere un errore originario e Franco Di Carlo si è ritrovato tra le mani un salvacondotto senza neppure il fasti dio di doversi ricordare un’identità di comodo.
Ha amici che lo proteggono e considerano i suoi guai con la giustizia poco meno di un inconveniente risolvibile, comunque aggirabile. Da latitante, si ritrova al fianco di prefetti e graduati dell’esercito, entra al Viminale per incontrare amici, va a colloquio con il generale Giuseppe Santovito, il capo piduista del Sismi che nell’elenco dei suoi protettori sta in cima alla lista.
I sospetti su di lui si accumulano, ma non bastano a fermarlo. E tra i suoi uomini, quella sicurezza ostentata accresce il mito. È un potente, uno che può permettersi il lusso di comparire al gate di un aeroporto per prendere il primo volo per la Gran Bretagna sotto lo sguardo attonito di chi lo conosce e sa che è ricercato.
Lo vedono fare il gesto di tirare fuori i documenti con disinvoltura a un controllo di polizia, quando un pezzo grosso garantisce per lui, sollevando l’agente dall’incombenza del controllo. Lo osservano scherzare con un poliziotto che, aperto il passaporto, si interroga se sia lui o un omonimo l’uomo che sta sulla lista dei catturandi. E lui, credibile, a blandirlo con un «so io perché è perplesso, non è la prima volta, sa. Molte volte mi scambiano per quel mio cugino alla lontana che mi ha procurato un sacco di guai, meglio stare alla larga da certa gente».
Partecipe del dramma, il poliziotto lascia correre e Franco Di Carlo può sorridere alla vita anche quella volta.
Ha sorriso meno quando a occuparsi di lui è stato un investigatore di razza come Giorgio Boris Giuliano. È un segugio che coniuga l’abilità di uomo d’azione al ragionamento sottile che lo porta a prevedere le mosse delle sue prede. Sa che quel boss non ancora ufficialmente latitante che viaggia da un Paese all’altro non è affatto un comprimario, scava e cerca tracce dei suoi collegamenti, in breve ricostruisce una buona fetta di suoi interessi equivoci e ne parla con Falcone. Ma Giuliano muore.
La mattina del 21 luglio del 1979 il boss corleonese Leoluca Bagarella deve sparargli alle spalle mentre sta pagando un caffè al bar sotto casa, per essere sicuro di farlo fuori senza rischi. Giuliano è un poliziotto vero, un incorruttibile. Ha una lucida intelligenza e un fiuto ineguagliabile. Per questo si è guadagnato il rispetto e la stima dell’Fbi. Sa che, se vuole capire come si sta evolvendo Cosa Nostra, è fuori dai confini della Sicilia che deve gettare il proprio sguardo. Lo fa indagando sulla morte del giornalista Mauro De Mauro e lo fa quando viene ucciso il boss di Riesi Peppe Di Cristina, il 30 maggio del 1978.
Esaminando alcuni assegni trovati in tasca alla vittima si imbatte in Domenico Balducci, “Memmo”, il cravattaro, l’usuraio romano di Campo de’ Fiori, nei fatti un manager del denaro sporco, amico del boss di Porta Nuova Pippo Calò e di Franco Di Carlo. Balducci è lo snodo attraverso il quale, con quarant’anni di anticipo su Mafia Capitale, si intuisce cosa è stata capace di fare la colonna romana della cupola siciliana: ha stretto accordi stabili con la Banda del la Magliana.
Ha a disposizione una batteria di sicari pronti all’uso e una rete di relazioni oliata con i soldi del narcotraffico, delle speculazioni edilizie e degli appalti. Detta legge e insegna un metodo ai Testaccini al vertice della mala della capitale. Trasforma una federazione criminale che ha assoldato borgatari e neri in una holding che sta dentro ai gangli economici del Paese: dalle imprese al Vaticano. Che ricicla miliardi di lire, in rete con l’internazionale del malaffare.
Giuliano arriva fino a una banca svizzera controllata da Michele Sindona, il banchiere della mafia che proprio nell’estate del 1979 inscena il suo finto rapimento. E che l’11 luglio, dieci giorni prima del delitto Giuliano, commissiona l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banco Ambrosiano, trasformato nella cassaforte delle cosche. L’8 luglio, Giuliano scopre un covo caldo di Leoluca Bagarella, rintraccia lì la prova che i Corleonesi sono in affari con la droga.
Loro, i viddani, i campagnoli, hanno usato la droga come arma di discredito nei confronti dei nemici, giurano di non averla mai toccata quella porcheria, imputano ai palermitani di essersi fatti accecare dal mito della ricchezza facile, di essere dei rammolliti per troppi soldi.
E mentre tra uomini d’onore declinano il peana per la vecchia mafia, tutta ordine e rigore, tutta benemerenze e pace perpetua, si ingrassano con l’eroina e seminano morte e zizzania. La “tragedia”, il ricorso sistematico alla mistificazione, all’inganno, alla calunnia, è la loro arma segreta. Dopo Giuliano, in una Questura che non brilla per inventiva, a riprendere quelle indagini è il vicedirigente della squadra mobile Ninni Cassarà.
Nel 1985 vola fino in Inghilterra, d’intesa con Giovanni Falcone, quando Franco Di Carlo finisce in manette e le autorità potrebbero rimetterlo in libertà su cauzione. Si precipita a Scotland Yard a irrobustire il già ponderoso fascicolo sul conto del boss siciliano. Pochi mesi dopo, il 6 agosto del 1985, anche Ninni Cassarà finirà ucciso.
E Franco Di Carlo è sospettato, senza che mai tuttavia il dubbio si traducesse in un atto giudiziario, di avere avuto un ruolo da mandante anche per quel delitto. Raccontano che incrociando Cassarà negli uffici di polizia di Londra lo abbia accolto con un sorriso e un interrogativo sinistro: «Dottore, pure qua viene a cercarmi?».
Perfino l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro accrediterà quell’obliqua minaccia. Ma lui nega che il colloquio sia mai avvenuto e si scrolla di dosso ogni responsabilità per l’assassinio di Cassarà.
Il boss e il giornalista, così iniziò la “collaborazione” con Di Carlo
C’è un uomo che di queste cose conosce molto. Quell’uomo è Francesco, Franco, Di Carlo, colonnello dell’esercito corleonese, specialista in quell’arte sopraffina nella quale l’uomo d’onore riesce meglio di tutti gli altri: la dissimulazione. Affiliato a vent’anni, capo non ancora trentenne, in auge dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, finito in carcere in Inghilterra nel 1985 e rimasto in cella fino al 1996, Franco Di Carlo, divenuto collaboratore di giustizia, è stato il regista dei contatti dell’organizzazione con il mondo delle spie, i fantasmi che si agitano sullo sfondo dei grandi lutti siciliani e non solo.
Franco Di Carlo si è raccontato e molto, ma quello che compie qui è il disvelamento della trama di rapporti che ha intessuto da uomo d’onore e portato in dote, prima ai Corleonesi e poi a uno Stato che non aveva troppa voglia di ascoltarlo per non correre il rischio di guardarsi allo specchio e vedere il proprio volto peggiore e impresentabile, quello del compromesso. Con Di Carlo ho ricostruito la sua storia in un libro del 2010. Ma il rapporto non si è interrotto.
Molte cose non erano state dette e il mistero dichiarato sulle sue omissioni è stato l’argomento dei nostri successivi contatti. I suoi silenzi andavano esplorati, scandagliati e, se possibile, infranti. Chi ha avuto rapporti con i collaboratori di giustizia sa bene che non potranno mai riversare tutto quello che sanno in una sola tornata, fosse pure lunga alcuni mesi.
È la vita intera che gli si chiede di squadernare, perlopiù con riferimenti precisi a circostanze che già quando si verificavano erano per loro nient’affatto nitide. E poi c’è la prudenza, ovvero l’idea che quel tesoro di segreti, di particolari taciuti, di responsabilità omesse costituisca un salvacondotto. «Un sacco vuoto non può stare in piedi», dice spesso Di Carlo. Con ciò intendendo che ha dovuto amministrare la sua verità. Ha taciuto anche lui per convenienza.
Dal suo punto di vista, una misura di cautela che coincide con l’esercizio di autodifesa. Piaccia o no ai garantisti prêt-à-porter, è di questo che si discute quando si accetta – e non si potrebbe fare altrimenti – di addentrarsi nell’universo di una società segreta spesso con l’unico ausilio di chi ha deciso di rompere il patto di omertà che lo teneva legato a quel sodalizio.
Nulla va preso come oro colato, ma chi torna a strepitare a cadenze costanti sui collaboratori di giustizia, sulla loro attendibilità, sulla necessità che la smettano con le dichiarazioni a rate fino alla seduzione dell’argomento principe – può uno Stato affidarsi ai delatori e ai sicofanti? – sa bene che senza di loro il Paese sarebbe ancora quello che consegnò ai boia della mafia le migliori intelligenze del Meridione. E non solo.
I loro racconti presi singolarmente servono a poco: assurgono al rango di prove solo dopo un vaglio scrupoloso, un’attenzione maniacale al dettaglio, un incrocio sistematico dei particolari coincidenti con elementi di fatto. Nel metodo Falcone c’è anche la lezione su come questo lavoro possa essere condotto con successo. Su quelle sue verità nascoste o sepolte da una vita di ricordi che affiorano a fatica con Di Carlo abbiamo continuato a parlare.
Si potrebbero evocare categorie come la fiducia e i rapporti di lealtà che si instaurano tra persone che hanno avuto vite diverse che si sono incrociate. Ma questo forse al lettore, come è giusto che sia, può non interessare e in ogni caso non gli si può chiedere un atto di fede. Fatto sta che alcuni degli elementi che qui vengono disvelati per la prima volta e per intero, sono stati oggetto anche di interrogatori e articoli di giornale.
In due occasioni per «la Repubblica» ho intervistato Franco Di Carlo sui misteri rimasti tali anche dopo la pubblicazione di Un uomo d’onore. La prima nel giugno del 2012. Disse tra l’altro Franco Di Carlo: «Al processo Mori mi ha molto stupito la scelta del generale Subranni che ha preferito tacere. Questo la dice lunga sui personaggi ai quali si sono affidate le istituzioni.
Antonio Subranni è stato al centro delle più importanti inchieste in Sicilia e si comporta come quei soggetti di cui parlavo sopra, i mafiosi non affiliati». Ha scelto di tacere perché è indagato. Cosa c’è di strano? «Forse temeva che gli chiedessero come mai, in dieci anni, è passato da maggiore a generale. Forse temeva che gli chiedessero quali fossero i suoi amici, erano forse Salvo Lima e Nino Salvo. A me risulta di sì, e loro era no canali diretti di Cosa Nostra con il potere».
Sulle stragi del 1992, già allora dava una lettura netta: «So che dentro le istituzioni c’era una guerra aperta: da un lato gli uomini degli apparati, Servizi compresi, dall’altro Falcone e Borsellino e gli investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli, ai quali i due giudici avevano delegato le indagini tagliando fuori tutti gli altri. Voi credete davvero che quegli uomini degli apparati, con tutti i contatti che aveva dentro Cosa Nostra, sia rimasta con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero come accaduto con Contrada?».
Dopo la pubblicazione di quella intervista arrivò a «la Repubblica» una lettera anonima. Scritta in stampatello, con grafia artatamente malferma, conteneva una raccomandazione garbata che si concludeva con una minaccia: «Lasci perdere di scrivere assieme all’amico suo Franco Di Carlo storie passate. Tante volte fanno male!». Avvertii telefonicamente il 113 e dopo un po’ arrivarono due poliziotti a ritirare la lettera e la busta e a redigere un verbale annotando il nome delle persone che dalla portineria alla mia scrivania l’avevano maneggiata.
Poco dopo fui convocato alla squadra mobile di Palermo per formalizzare la denuncia e rispondere ad alcune domande. Mentre ero via dal giornale, i colleghi si interrogarono sull’opportunità di darne notizia. Mi chiamò al telefono il collega Salvo Palazzolo: ovviamente dava per scontato che l’episodio non andasse taciuto.
Gli dissi quel che pensavo e penso tuttora: nella mia attività di cronista ho ricevuto decine di anonimi su questo o quell’episodio, ma mai avvertimenti diretti in quella forma. Ho sempre considerato decisamente più preoccupante la possibilità che a zittirti sia una citazione milionaria in sede civile, che ti espone all’eventualità che l’editore per il quale lavori un bel giorno si renda conto di avere assunto un pianta grane dispendioso.
Raramente dagli anonimi ho tratto notizie utili. In genere per il senso di disgusto che mi provoca l’idea che qualcuno per viltà trami nell’ombra e non abbia il rigore civile di assumersi la responsabilità di quello che dice; e poi, se volete, c’è una questione etica superiore: chi scrive un anonimo è portatore di un interesse. Chi usa quelle informazioni si fa veicolo di un interesse che non conosce e non governa, col quale non può fare i conti e soppesarlo, e dunque una parte di quella funzione di mediazione tra la fonte e il lettore è affidata all’imponderabile.
Dunque, probabilmente, se quella lettera che mi era stata recapitata avesse riguardato soltanto me, l’avrei gettata nel cestino a fine giornata. Ma la lettera chiamava in causa un uomo sottoposto ancora a un regime di protezione personale. Non potevo assumermi una responsabilità per conto terzi. Per qualche ora, per fortuna poche, ho vissuto il clima di solidarietà e di sostegno che circonda chi è “minacciato”. Io stesso mi ero unito al coro, quando altri colleghi, con ben altri mezzi, erano stati intimiditi.
La verità è che mi infastidiva la notorietà che derivava non dall’attività professionale ma dall’essere entrato nella schiera dei “minacciati”, quasi che anni di lavoro non valessero nulla e una lettera anonima di un qualche codardo annidato in chissà quale ufficio potesse consegnarmi fama e gloria senza che nessuno si prendesse la briga di verificare cosa avessi scritto e di che cosa si stesse veramente parlando. L’unica cosa che dissi in quel momento – e che ripeto qui – è che valeva la pena di andare avanti, che se qualcuno preferiva il silenzio allora forse viaggiavamo nella direzione giusta.
Attraverso l’avvocato Ermanno Zancla avvertii Franco Di Carlo, e alla prima occasione di incontro gli dissi che doveva valutare la possibilità di raccontare ancora, di ricordare altri dettagli, di fare altri nomi, anche quelli che per calcolo e paura aveva omesso. Di svuotare, insomma, quel sacco che è la sua memoria, abbandonando per un po’ quella che è una sua massima di vita: «Un saccu vacanti nun sta aggritta», un sacco vuoto non sta in piedi. Non si è tirato indietro.
E, per quel che vale, non credo che glielo imponesse neppure una ragione di calcolo personale: ha scontato la sua condanna, ha chiuso i conti con la giustizia, le testimonianze su quel che ha raccontato via via si diradano con il concludersi dei processi, la sua conoscenza supporta di tanto in tanto ancora le nuove istruttorie che si vanno svolgendo.
È stato considerato credibile e sa bene che queste rivelazioni comporteranno nuovi test sulla sua autenticità. Insomma, potrebbe avviarsi al pensionamento. Ma ho idea che la prospettiva non lo alletti: un po’ perché questa è ormai la sua vita da parecchi anni, e soprattutto perché si rende conto che c’è tanta gente in giro che non ha veramente capito cosa è stata e forse in parte è ancora Cosa Nostra. Della lettera si è occupata la Direzione distrettuale antimafia di Palermo.
L’anonimo aveva ragione su un punto: si tratta di storie passate e dolorose. Capaci di riaprire ferite e di coinvolgere persone che sono rimaste ai margini. O peggio, sono morte, non tutte, e non possono difendersi in prima persona, ma con l’oblio che si deve ai morti non si può rischiare che i vivi la facciano franca. Così è stato inevitabile andare indietro nel tempo, rintracciare nella guerra di nervi e tritolo che si avvia nel 1988 l’inizio della parabola che porterà agli eccidi del 1992 e alla teoria di misteri che si portano ancora dietro.
Un ulteriore avvertimento – dello stesso tenore – è arrivato quando sempre su «la Repubblica» nel 2014 raccontai un’altra delle confidenze fattami da Di Carlo e di cui parleremo più avanti. Anche in questo caso denunciai. Ho scoperto solo di recente che della seconda lettera circolava una copia indirizzata a Di Carlo, recapitata agli uffici di polizia e della quale nulla si sarebbe saputo se, denunciando quella che era arrivata a me, non si fossero avviate delle indagini. È anche per via di questi due episodi se in questo racconto si è cercato di valorizzare il dettaglio, che offre lo spunto per una puntuale verifica di attendibilità su quanto Di Carlo ha ora deciso di raccontare.
Un testimone, una circostanza di fatto, un incrocio di date, permettono a chiunque ne abbia voglia di verificare se ci sono incongruenze, se ci sono menzogne. Perché non solo di morti che non possono replicare si parla. Come sarebbe comodo sostenere per rinunciare a verificare se ci sono sprazzi di verità nelle sue parole. Di Carlo sa bene che gli chiederanno: perché non ha par lato prima? Perché non ha detto queste cose quando è stato interrogato la prima volta?
Sicuri che io non ne abbia mai parlato? Siete certi che io non abbia mostrato più di un’apertura a dialogare su questi temi? Ho temuto molte volte per la mia vita, ma mai quando mi sono reso conto di essere il custode delle identità di chi nello Stato ha mosso la guerra a un’altra parte dello Stato. Ho visto in carcere uomini delle istituzioni che volevano da me la chiave d’accesso al cuore di Cosa Nostra. Li ho accontentati, ma quando mi sono reso conto che quei contatti erano stati utilizzati per altro, ho avuto la prova che il gioco si era fatto più grande di quanto immaginassi.
Ero certo che dopo l’omicidio di Ignazio Salvo e lo strano suicidio di Nino Gioè io sarei stato il prossimo della lista. Ho rischiato in prima persona e quando ho deciso di collaborare sono stato sottoposto a un regi me di sorveglianza massima, con il cibo comprato specificamente per me, controllato da persone di assoluta fiducia del direttore e cucinato da me in totale solitudine. Avevano paura che finissi come Sindona? Già dopo i primi verbali ho avuto la netta sensazione che il Paese non fosse pronto ad affrontare tutta la verità, perché nelle istituzioni lavoravano e lavorano uomini che hanno trattato con noi da sempre.
La mia reticenza è stata una forma di prudenza, quando ho percepito che al di là della volontà dei singoli magistrati che venivano a interrogarmi, lo Stato nelle sue articolazioni aveva paura di ammettere quello che ogni uomo d’onore sa dal primo momento in cui viene punciutu, ovvero affiliato, con il rito tradizionale della puntura sull’indice della mano destra, il dito con cui si preme il grilletto: non c’è differenza tra noi e loro, non ci sono distanze, non ci sono steccati che non si possano superare.
Il mistero dei computer di Giovanni Falcone, manomessi dopo la strage
A questo particolare aspetto delle operazioni di Gladio si interessava Giovanni Falcone prima di lasciare Palermo, sul finire degli anni Ottanta e anche dopo. Alla Procura di Palermo fu il capo, Pietro Giammanco, a bloccarlo, ma per quel che se ne sa Falcone non si era fermato. C’erano tracce dei suoi interessi su questo filone di indagine nel databank manomesso dopo la sua morte e reso leggibile dalle indagini del vicequestore Gioacchino Genchi e dell’ingegnere Luciano Petrini, un tecnico «imposto dal ministero», un esperto «della Computer Micro Image, società che lavorava, tra gli altri, per conto dei servizi segreti». In quella intervista, Fornaro racconta anche che «era estate, lo scandalo [legato alla rivelazione dell’esistenza di Gladio], appena esploso», quando Falcone trascorse una intera giornata nella sede del Sismi a incrociare dati sui nomi dei gladiatori. «Ma niente. Non c’era niente», è sicuro il colonnello. Era l’estate del 1991 e forse l’elenco di cui disponeva Falcone era incompleto. Come lo è la lista dei piduisti, sommaria e monca per ammissione dello stesso Gelli – morto ad Arezzo a novantasei anni, il 15 dicembre 2015 –, priva dei fascicoli che avrebbero documentato le gesta dei singoli “fratelli” al servizio della loggia.
Ma quella dei gladiatori, 622 nomi – «tendenti a 1.000, più altri 1.000 mobilitabili», recitava il protocollo costitutivo che ipotizzava uno sviluppo fino a tremila uomini complessivi –, è ancora più sfuggente. Indignati per la pubblicazione delle liste, alcuni gladiatori uscirono allo scoperto, contestando di aver svolto alcunché di illegale, ma i misteri e le ombre sull’utilizzo di un corpo paramilitare per scopi non proprio convenzionali resta.
E di mistero in mistero resta intatto quello sulle memorie informatiche di Giovanni Falcone. Il giudice utilizzava abitualmente tre computer, un Olivetti da tavolo al ministero e due portatili, un Toshiba e un Compaq, oltre a due agende elettroniche, due databank, uno Sharp e un Casio, protetti dalla password Joe. Di quest’ultimo non è stato trovato né il cavetto di collegamento al computer né l’estensione di memoria. Ma soprattutto la memoria dell’apparecchio era stata totalmente cancellata. Per recuperarne il contenuto è stato necessario chiedere aiuto agli uffici milanesi della Casio. Si è scoperto così che conteneva appuntamenti fissati per date successive al 23 maggio: difficile dunque che a cancellare la memoria dell’agenda potesse essere stato Falcone. Il databank Casio, così come il Toshiba, sono stati ritrovati dai familiari nella casa palermitana di Falcone, in via Notarbartolo, e consegnati qualche giorno dopo la strage.
Nel Toshiba era stato installato – certamente dopo la morte del giudice – un programma per intervenire sui file. L’esame del Compaq rivela che qualcuno ha aperto quel computer dopo la strage di Capaci. Lo dicono le date di salvataggio di alcuni documenti, 9 giugno. Se ci si fosse limitati ad aprire e chiudere i documenti non sarebbe successo nulla, ma chi ha frugato nel computer o è uno sprovveduto o ha voluto intenzionalmente lasciare traccia del proprio passaggio.
Il Compaq si trovava nell’ufficio di Falcone a Roma e della sua presenza c’è traccia nella relazione che accompagna l’ispezione degli uomini del Servizio centrale operativo della polizia (Sco) nella stanza, il 30 maggio 1992. Ma il computer non viene sequestrato. Lo sarà solo quasi un mese dopo, il 23 giugno, ad opera dei carabinieri. Tra i documenti aperti e salvati il 9 giugno, quando Falcone era già morto, ci sono proprio le schede con i nomi dei gladiatori.
E atti sull’omicidio di Emanuele Piazza e sul delitto Mattarella. Ma non è tutto. Dalla memoria cancellata del Casio viene fuori un viaggio americano di Falcone che comincia con un volo Roma-Washington annotato per il 28 aprile 1992, una festa all’ambasciata inglese in Usa per le 19,30 dell’indomani e poi ancora l’indicazione “Usa” per il giorno successivo e per il primo maggio. Come vedremo, questo viaggio americano è avvolto dal mistero. Chi ha frugato tra le carte di Falcone dopo la sua morte lo ha fatto in modo da lasciare traccia. «Ove si suppone un’operazione maldestra bisogna bilanciare la malafede, l’incapacità o la volontà di dissimulare simulando, perché a volte ci si può fingere estremamente imbecilli per far sembrare tutto quello che si fa frutto di un’attività puerile», ha spiegato in proposito Gioacchino Genchi ai giudici del primo processo per la strage di Capaci, durante la deposizione d’aula dell’8 e 9 gennaio 1996. La impellente necessità di frugare nella memoria informatica di Falcone viene avvertita dalla Procura di Caltanissetta a partire dal 24 giugno del 1992, quando «Il Sole 24 Ore» pubblica due pagine di appunti che Falcone ha consegnato, nel luglio 1991, alla giornalista Liana Milella.
In quelle due pagine stampate al computer ci sono riferimenti alle difficoltà frapposte da Pietro Giammanco, il capo della Procura – negli appunti sempre e solo “Il Capo” –, alla prosecuzione dell’indagine Gladio. In realtà dell’esistenza di un diario sugli anni impossibili a Palermo, sotto Giammanco, ha già parlato cinque giorni prima Giuseppe Ayala. Ne ha confermato non solo l’esistenza ma il nocciolo del contenuto, ovvero il motivo per cui Falcone ha deciso di andare via da Palermo. In una parola: l’isolamento. In uno stillicidio di voci una cosa sembra certa: quel diario fa paura, chi lo ha o non vuole divulgarlo per proteggere qualcuno o ha paura a farlo.
L’articolo della Milella svela che quello di cui si discute in quei giorni è drammaticamente reale ed è un lascito morale. Del resto, come scrive Falcone nel diario, la scelta di Roma è tutt’altro che una rinuncia: «Alla mafia, anche da qui [dal ministero, a Roma], si può dare molto fastidio». Proprio quello che pensava Borsellino del suo amico. Nessun ripiegamento su una posizione di comodo, nessuna rinuncia a indagare e a incidere. Genchi e Petrini hanno condotto la perizia a partire dal 14 luglio e già a ottobre del 1992 hanno la chiave di accesso al databank di Falcone, ma a dicembre il superesperto informatico della polizia ha avvertito tutta l’ostilità per quel che è riuscito a scoprire.
Il 7 dicembre scrive così al questore di Palermo una nota riservata: «Ebbene, io da qualche mese mi accorgo proprio di essere, forse inconsciamente, entrato in un gioco troppo grande, di non disporre di alcuna alleanza, di non avere alcun sostegno e di avvertire sempre meno la considerazione della solidarietà dell’Amministrazione dalla quale dipendo».
La Criminalpol dalla quale dipendeva non gli garantisce alcuna assistenza e arriva anche il trasferimento al reparto Celere che coincide proprio con la scoperta del viaggio americano di Falcone. A notificargli il provvedimento è il questore Matteo Cinque, che dice di temere per la sua sicurezza, ma la prima firma è quella del capo della polizia.
Tre mesi dopo la testimonianza in aula, Luciano Petrini, l’ingegnere che con Genchi aveva svelato le manomissioni dei computer di Falcone e che da solo si era occupato del giallo di via Poma a Roma, viene trovato morto nella sua camera da letto, ucciso, probabilmente nel sonno, dai colpi inferti con il portasciugamani del bagno. In casa non manca nulla e tutto, a parte il letto, sembra in ordine. Discreto, riservato, Petrini aveva convissuto fino a qualche tempo prima nella casa al quarto piano di via Pallavicino, zona Portuense, con l’amico che lo troverà cadavere.
Un vicino racconta di averlo visto uscire di casa con un biondino più giovane. E tanto basta per dare la caccia al fantasma e archiviare il caso come un delitto maturato nel mondo gay. Un classico italiano.
Quelle relazioni con i politici, i magistrati e uomini dei servizi segreti
Il talento principale di Franco Di Carlo stava nelle relazioni. La sua attività legale di imprenditore spaziava dal commercio di prodotti caseari ai trasporti. Nata in gioventù, l’amicizia con il principe Alessandro Vanni Calvello di San Vincenzo9, discendente di una blasonata famiglia siciliana che nel 1980 ospitò nel proprio palazzo di Palermo anche la regina Elisabetta, gli ha permesso l’ingresso nel bel mondo.
Il sodalizio con l’aristocratico isolano si è del resto consolidato in un rap porto d’affari che porterà i due alla comune gestione del Ca stello, un locale notturno sulla riviera di San Nicola l’Arena, a Palermo, aperto in una delle proprietà dei Vanni Calvello. Quel night, con ristorante, sala congressi e sala trattenimenti, diventerà il crocevia degli incontri che faranno di Franco Di Carlo l’ambasciatore nel mondo della politica, quanto della magistratura e dei servizi segreti, passando per le professioni.
Sono entrato in Cosa Nostra, giovanissimo, nel 1961, ho vissuto tranquillamente senza noie con la legge per molti anni. Nel 1970 ero già considerato il personaggio di Cosa Nostra più in vista del mio paese. Tanto da guadagnarmi l’appellativo di sindaco.
Dal 1976, Franco Di Carlo è stato formalmente capofamiglia di Altofonte, mandamento di San Giuseppe Jato, ovvero clan dei Brusca, l’ortodossia corleonese di Liggio, prima, e di Riina e Provenzano, poi. Nel 1978 ha approfittato di una congiuntura favorevole, l’omicidio di un suo sottoposto de ciso a un livello più alto, e si è ritagliato un ruolo da soldato semplice alle dirette dipendenze prima del capomandamento di San Giuseppe Jato, Bernardo Brusca, e successivamente di Michele Greco, il papa, senza ulteriori intermediari.
Un’astuzia che gli ha risparmiato nel tempo molte delle contestazioni di responsabilità diretta nelle guerre di mafia combattute sul territorio, schivando anche l’accusa per l’omicidio Calvi. Il sapiente utilizzo delle regole dell’organizzazione, l’uso personalissimo dei precetti, il piegare le norme interne a proprio beneficio, gli ha permesso di restare in ombra pur avendo un ruolo rilevantissimo in quella consorteria criminale che fa dell’inganno un’arte di governo. Ha goduto della fiducia di Riina e Provenzano, ha inventato il controspionaggio interno a Cosa Nostra.
Avevamo almeno un uomo per ogni famiglia che parlava direttamente con me e, rivelandomi in anticipo ogni mossa e ogni dettaglio, ero informato su tutto e tenevo d’occhio ogni mandamento e poi avevo i miei contatti, dei quali non mettevo a parte Riina ma che gli sono tornati utilissimi per amministrare il suo potere.
I contatti di cui parla sono politici, magistrati, cancellieri, professionisti e uomini dei Servizi. È grazie a loro che Franco Di Carlo ha aggiustato processi, strappato visti su decreti di scarcerazioni, corretto perizie e fatto sparire fascicoli. E non solo.
IL PATTO ATLANTICO
Di Carlo, come abbiamo già accennato, racconta di aver portato Cosa Nostra a trattare per un piano golpista sotto l’egida della P2, la loggia massonica guidata da Gelli che annoverava nei propri elenchi i comandanti dei servizi segreti, ufficiali di tutte le armi, politici in ascesa, finanzieri d’assalto e manager di Stato.
La cricca che ha tenuto in scacco il Paese reale per molti anni ancora dopo la scoperta di quegli elenchi, nel 1981 a Castiglion Fibocchi. Un gotha capace di governare l’intelligence e piegarla ai propri scopi, di partecipare alla stagione del terrorismo ideologico, di depistare e inquinare la democrazia, rispondendo solo all’imperativo di scongiurare che il Paese sbandasse a sinistra. Aveva per questo soldi e armi e dialogava da pari con i poteri forti americani, solidamente ancorati alla dottrina Truman: combattere con ogni mezzo il comunismo ovunque si annidasse.
Ovvio che arruolasse fascisti riciclati, avanguardisti nostalgici e giovani abbacinati dal sogno di una restaurazione del regime, assieme a conservatori al servizio dei settori più retrivi della Chiesa e a uomini d’apparato di provata fede atlantica. Ovvio che custodisse gelosamente il segreto sull’esistenza di un’altra organizzazione segreta che entra costantemente in contatto con la P2: Gladio. Era questa l’articolazione italiana di Stay Behind, il programma elaborato dagli Usa per fronteggiare in armi un’eventuale svolta comunista nel nostro Paese, messo in campo fuori da ogni possibile controllo parlamentare. E su Gladio conviene soffermarsi prima di procedere oltre.
Scrisse su «la Repubblica» Giuseppe D’Avanzo il 6 novembre del 1990: «Se non fu la Nato, fu sicuramente la Cia a partorire Gladio. E da quando l’operazione partì sono cominciati i misteri d’Italia. Non tutti, com’è ovvio, possono trovare soluzione nell’attività di Gladio. In ogni caso i servizi segreti sono gli ospiti fissi, a volte con il sostegno dell’intelligence Usa, nelle tragedie senza responsabili che hanno scosso la Repubblica».
La data ufficiale di inizio dell’operazione Gladio è il 26 novembre del 1956, quando gli Usa, ossia la Cia, e l’Italia, ovvero il Sifar (Servizio informazioni forze armate) del generale Giovanni De Lorenzo, siglano l’intesa che aggiorna precedenti accordi di cooperazione segreta risalenti all’immediato dopo guerra. Il primo a parlarne fu William Colby, l’ex capo della Cia, che, lasciato il servizio attivo, raccontò in un libro di memorie di quali apparati si fosse servita l’intelligence Usa. Della sua esistenza si accorse per primo il giudice Felice Casson, indagando sui neofascisti di Ordine Nuovo, autori della strage di Peteano.
Pressato dal Parlamento, l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il 24 ottobre 1990, fu costretto ad ammetterne l’esistenza. E a svelare che non si trattava solo di una sonnacchiosa compagnia di arditi pronti a disseppellire le armi, ma di un’organizzazione militare, con arsenali, nascondigli e basi di addestramento, dipendente dai servizi segreti italiani, convertitasi a metà degli anni Ottanta alla ricerca di informazioni su criminalità, droga e terrorismo.
Dunque: Gladio è un’organizzazione militare segreta, retaggio dello sbarco alleato in Italia, pronta a intervenire in caso di pericolose derive comuniste. Cosa abbiano fatto i gladiatori durante la stagione del terrorismo non è noto. Stando ai pochi elementi ufficiali si limitano a tenersi pronti. Uno stato di allerta permanente che perdura quando l’organizzazione a cui appartengono viene riconvertita a scopi di intelligence e polizia.
Di questa attività “interna” anche in funzione antimafia parleranno sia l’ex colonnello del Sismi Paolo Fornaro, a capo della base Gladio di Trapani denominata Centro Scorpione, che Benito Rosa, ex numero due del Sismi. Fornaro guidò il Centro Scorpione nell’87, gli subentrò poi fino al 1990 il maresciallo Vincenzo Li Causi, ucciso nei pressi di Mogadiscio il 12 novembre del 1993.
«Avevamo il dubbio – raccontò Fornaro nel 1993 per spiegare in che modo dei combattenti fossero finiti a occuparsi di mafia – che Cosa Nostra, come già fa in America, si mettesse ad organizzare l’immigrazione clandestina dai Paesi arabi, la quale magari subisce la spinta dell’integralismo islamico». Una preoccupazione che evidentemente ritorna e che a distanza di quasi trent’anni autorizza analisi dello stesso tenore di fronte alla minaccia dell’Is.
Ma qui, con Fornaro, siamo a metà degli anni Ottanta. Allora i gladiatori recuperavano parte dello spirito che era sotteso alla loro istituzione ma, dopo la riconversione, era al mondo arabo e alle dinamiche mafiose che rivolgevano lo sguardo e non più a Mosca. Un’attività, quella dei gladiatori, che rivela preoccupazioni ben più lungimiranti di quelle che allora si percepivano negli apparati ufficiali. In definitiva, per conoscenze o per intuizioni, dalle parole di Fornaro emerge una conoscenza e una percezione del fenomeno mafioso ben più articolata di quanto non fossero disposti ad ammettere gli apparati investigativi tradizionali.
Del resto, comunque la si pensi, da soggetto politico, pur con la rozzezza del ragionamento che è proprio di uomini dal curriculum criminale ben più vasto di quello intellettuale, Cosa Nostra sa muoversi sullo scacchiere planetario con accortezza. Le reti criminali sono realtà consolidate e per fama e prestigio, per la tradizione che ne ha consolidato l’importanza, la mafia siciliana, pur subendo colpi su colpi, era ed è ancora oggi un nodo imprescindibile di quelle reti.
Il padrino di Altofonte, custode di tanti segreti “di quelli di lassù”
Iniziai a capire che c’era chi aveva voglia di fare sul serio quando mi capitò di leggere cosa aveva detto nel luglio del 2012, in occasione del ventennale della strage di via D’Amelio, il procuratore generale Roberto Scarpinato: erano parole forti che andavano al cuore del problema, pensai che non sbagliavo a superare le ultime remore incamminandomi su una strada difficile, irta di ostacoli e anche molto pericolosa.
Sotto forma di lettera ideale a Paolo Borsellino, disse tra l’altro Scarpinato: «Abbiamo portato sul banco degli imputa ti e abbiamo processato gli intoccabili: […] Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi, un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno. […] Hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito. Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvato re Riina.
Hanno preferito che finissero nelle mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura. […] hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità».
Parole che costarono a Scarpinato l’apertura di un fascicolo al Csm chiusosi con l’archiviazione. Il laico del Pdl Nicolò Zanon, promotore dell’apertura di un procedimento disciplinare ma astenutosi alla votazione finale, bollò quella lettera come espressione di quel mondo che «chiede consenso alla piazza», costituito da chi si mette «sulle spalle dei giganti o all’ombra degli eroi morti per poter dire qualunque cosa e godere di una sorta di salvacondotto da nani sulle spalle dei giganti». In quella lettera «di inusitata animosità», disse, echeggiano accenti alla Robespierre, «ma il terrore giacobino per me non è un modello culturale e comunque Robespierre fu ghigliottinato da qualcuno che si sentiva più puro di lui».
Io – dice Di Carlo – non sono un ragazzino sprovveduto che ai primi investigatori o magistrati che si presentavano davanti andavo a raccontare la trama in corso alla fine degli anni Ottanta. Non bi sogna dimenticare qual era il clima all’inizio della mia collaborazione: nella politica e nelle istituzioni c’era chi invece di lottare contro Cosa Nostra continuava a praticare il doppio gioco con mentalità mafiosa, combattevano i collaboratori di giustizia e le leggi che li sostenevano, proprio quando i collaboratori avevano iniziato a par lare degli intoccabili. Quando ho constatato il marcio che ancora c’era dentro le istituzioni, che nulla era cambiato rispetto agli anni in cui ero in Italia, ho fatto una virata a 360 gradi per non fare la fine di un topo dentro una gabbia che io stesso, con le mie dichiarazioni, mi sarei costruito.
Di sicuro le migliaia di pagine che ha riempito tra interrogatori e deposizioni d’aula, ricostruendo il contesto di decine di cosiddetti delitti eccellenti, contengono molti riferimenti che avrebbero consentito di aprire la porta del patto inconfessabile tra Stato e mafia già da qualche anno. E di mettersi alla caccia di chi, coperto politicamente, più che fare la lotta alla mafia ha combattuto l’antimafia.
Franco Di Carlo ha vissuto tra la gente, facendo il proprio mestiere di uomo d’onore, ha incontrato e frequentato la crème della società siciliana e ci è andato a braccetto. Ha conosciuto e frequentato Marcello Dell’Utri, il senatore braccio destro di Silvio Berlusconi condannato per con corso mafioso. Ed è rimasto l’unico a sostenere che Dell’Utri non è solo vicino a Cosa Nostra ma ne fa parte organicamente, che è un uomo d’onore, affiliato secondo tradizione con i capibastone della vecchia mafia, Stefano Bontate e Mimmo Teresi a fargli da padrini. Ha raccontato di una colletta da 20 miliardi di lire organizzata dal capo delle famiglie di Palermo, Stefano Bontate, e dei soldi mandati a Milano per finanziare l’ascesa imprenditoriale di Silvio Berlusconi.
È stato testimone diretto, nel 1974, dell’incontro tra Bontate e Berlusconi, presente Dell’Utri, durante il quale fu presa la decisione di mandare Vittorio Mangano, “lo stalliere”, a vigilare sulla sicurezza del palazzinaro milanese. Ha saputo, dopo la morte di Bontate nel 1981, della ricerca affannosa di quei soldi da parte dei finanziatori di quell’operazione, ha parlato dei fratelli Graviano, interessati a incassare i dividendi di quella colletta alla quale aveva partecipato il padre. Ha parlato delle stragi di Ustica e di Bologna e del caso Calvi, ovvero della fine del presidente del Banco Ambrosiano, trovato morto, maldestramente impiccato, sotto al ponte dei Frati Neri a Londra.
Del delitto Calvi è stato accusato e poi scagionato, indossando i panni del testimone privilegiato. Ha poi riferito degli interessi di uomini dei servizi segreti stranieri all’attività di Giovanni Falcone e della proposta dell’agente siriano Nizar Hindawi di partecipare a un eventuale piano per la morte del giudice. Ha gettato un fascio di luce che non allontana la responsabilità di Cosa Nostra, ma rischiara anche il contesto.
Possibile che in un Paese sotto costante osservazione straniera, dove 007 di bandiere le più disparate si sono mossi indisturbati, possibile che in un Paese così la mafia da sola maneggiasse esplosivo militare e mettesse a ferro e fuoco città su città senza che nessuno abbia visto o sentito nulla? Fiutato il pericolo, avvistato il rischio?
Invece il contesto internazionale rimane sempre costantemente in ombra. È un curioso effetto ottico quello che prende il Paese: se dici terrorismo, gli orizzonti si allargano a dismisura. Ma se dici mafia, allora l’occhio si concentra sull’ombelico italiano. Vedi muovere squadroni della morte in grado di determinare non solo lutti e devastazione ma un clima politico diverso, con conseguenze istituzionali pesantissime, e gli analisti si affannano a chiudere l’orizzonte di osservazione, a ripiegare sul nostro piccolo mondo, come se a duemila o a diecimila chilometri di distanza da Roma quegli effetti non dispiegassero conseguenze, come se il resto del mondo fosse improvvisamente indifferente alla situazione di un Paese che per tutti rimane strategico negli assetti geopolitici dell’intera Europa e del Mediterraneo.
Di Carlo ha sì ricostruito il quadro delle bombe del 1992 e indicato la pista che porta alla sua famiglia mafiosa, quella di Altofonte. Eppure mai, fino ad ora, gli era stato chiesto di spalancare quella porta lasciata socchiusa che permette di gettare lo sguardo più in là. Rimane uno dei pochi, se non l’unico, a evocare uno scenario internazionale intorno ai fatti italiani.
Da uomo d’onore, Franco Di Carlo ha utilizzato ogni conoscenza, ogni dettaglio per raggiungere uno scopo preciso: garantire col dialogo ciò che le armi e la violenza non assicura vano. Ha blandito, corrotto a suo modo, convinto e minacciato. Ha cooptato nella rete dei fiancheggiatori di Cosa Nostra i pezzi pregiati dell’intelligenza siciliana, li ha asserviti alla logica del favore, li ha stretti nella morsa della compiacenza.
Con sistemi come questi, Cosa Nostra ha consolidato quello che è sempre stata, un pezzo rilevante della società, non qualcos’altro, di lontano e diverso, ma una componente, per alcuni anche preziosa, della Sicilia e dell’Italia del potere. Qualcosa di molto simile a una lobby, ma – e il “ma” è importante – con la santabarbara pronta all’uso. Un partner ineludibile e imprescindibile per intere classi dirigenti, un alleato, scomodo a volte, comunque tanto mu nifico quanto pretenzioso.
Mezzi mafiosi e mezzi spioni, quei personaggi vicini ai “corleonesi”
C’è Giovanni, o Enzo, che almeno fino a maggio 2013 incontra il boss di Bagheria Sergio Flamia e gli consegna 150 milioni.
C’è Sergio Flamia, che ora è collaboratore di giustizia e racconta di quando era un uomo di Gino Mineo. E di Leonardo Greco, Nicolò Eucaliptus e Onofrio Morreale. Tutti con un piede nella mafia e l’altro tra le spie.
Grazie ai buoni uffici dei Servizi, nel 2008 Flamia ha schivato l’arresto per mafia: una manina ha ritoccato la sua data di nascita rendendone difficile l’identificazione. Finito poi in carcere, dice di aver ricevuto numerose visite di emissari dei Servizi che si presentavano come avvocati.
C’è la misteriosa struttura di via Notarbartolo a Palermo, sede dei Servizi, a cui fa riferimento il maresciallo della Direzione investigativa antimafia (Dia) Giuseppe Ciuro, arrestato nel novembre del 2003, accusato e condannato per rivelazione di segreto d’ufficio in favore di Michele Aiello, ritenuto uomo di Provenzano.
Ne parla come di una cellula supersegreta, quando non sospetta di essere intercettato. «Il coordinamento», dice lui, sa tutto dell’inchiesta che vede coinvolto lo stesso Ciuro, sa delle sue telefonate e dell’andamento del lavoro dei magistrati.
Quando viene interrogato, alle richieste di ulteriori chiarimenti farfuglia qualcosa di incomprensibile, poi, avendo di fronte pm con i quali è stato gomito a gomito per anni, si limita a dire: «Mi rendo conto che mi sto arrampicando sugli specchi». In via Notarbartolo hanno già capito e si lasciano dietro un ufficio vuoto. Del «coordinamento» non rimane traccia.
C’è il tycoon della sanità siciliana Michele Aiello, che costruisce una rete di spie al suo servizio per ripararsi dalle indagini ma intanto prende informazioni sulle ricerche di Provenzano e le fa avere a chi di dovere. Finisce in carcere, ma gli diagnosticano il favismo e lo tengono fuori finché non scoppia lo scandalo.
C’è chi nell’aprile 2013 manda un certo Alberto Lorusso in carcere a far parlare il capo dei Corleonesi, Totò Riina, libero di dire la sua su tutto. Un provocatore che tira fuori dalla pancia del boss l’inconfessabile con l’effetto di mestare, intimidire, confondere. Loro sono solo alcuni dei guastatori, agenti speciali sotto copertura nell’implacabile scorrere della storia. Sono gli specialissimi infiltrati del bene e del male.
Hanno divise o toghe, tesserini da parlamentare o da giornalista. Brevetti di loggia e curriculum criminali. Hanno una di queste cose o tutte insieme. Hanno il volto pulito di chi serve la causa o quello impresentabile di chi cerca riscatto mondandosi del peccato, salvo ricadere in tentazione. Hanno facce così o per nulla raccomandabili. Sono tra noi quando non tramano alle nostre spalle. Sono ovunque ci sia qualcosa da fare o da non fare.
Specialisti nella manomissione quanto nell’omissione. Possono cambiare la storia mettendoci le mani o lasciando correre senza intervenire. Sono ombre, eppure ci sono. Lasciano tracce, poche, e scie, molte. Perché l’orma latita ma l’odore del loro passaggio, quello puoi ancora sentirlo.
Li incontri nei processi, sul banco degli imputati, tra la pubblica accusa o la difesa, dietro lo scranno dei giudici o sulla sedia dei testimoni, li leggi sui resoconti, puoi perfino ascoltarli blaterare in tv e non ne ricavi molto se non il sospetto della menzogna. Giocano con le parole – e spesso non solo con quelle – per edificare l’inganno, lo demoliscono e ricominciano usando altre parole. Perché il loro libro è bianco, la loro coscienza nera, il gioco sempre doppio e lo specchio trasparente.
“Faccia da Mostro”, un uomo con licenza di uccidere?
C’è “Faccia da Mostro”, un altro sbirro amico degli amici, o sempre lo stesso, la faccia devastata da una fucilata, che va e viene da Palermo con in tasca, forse, la licenza di uccidere.
E che è un habitué di vicolo Pipitone, il quartier generale del clan Galatolo, nella borgata marinara dell’Acquasanta. Una sorta di sala riunioni in cui si incontrano mafiosi che vanno lì a spartirsi soldi, ma anche “sbirri” che vanno a riferire e a prendere ordini.
Luigi Ilardo, il boss catanese che diventò confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, diceva di lui: «Stava in posti strani e faceva cose strane». Raccontò di voci che lo davano presente quando in pieno maxiprocesso, rompendo una tregua, la mafia uccise un bambino di undici anni, Claudio Domino. Dicevano che il “Mostro” fosse anche all’Addaura.
Ma intorno a lui c’è un altro poliziotto che fa cose strane.
Si chiama Guido Paolilli: è lui che si prende la libertà di far sparire i documenti che l’agente di polizia Nino Agostino teneva nell’armadio della camera da letto quando, il 5 agosto dell’89, venne ucciso insieme con la moglie incinta, mentre “Faccia da Mostro” – dicono in tanti – si aggirava sul luogo dell’agguato. E c’è il padre di Nino Agostino, Vincenzo, che riconosce in aula, al bunker di Palermo, “Faccia da Mostro” nell’ex poliziotto Giovanni Aiello. Lo indica fra tre persone, in un confronto all’americana. «Venne a cercare mio figlio un mese prima che morisse, disse di essere un collega».
C’è Emanuele Piazza, agente del Sisde, reclutato da poliziotti palermitani e lasciato in pasto, il 16 marzo del 1990, alle cosche quando il gioco si fa duro. C’è quello strano posto che è il commissariato Mondello, bazzicato da Agostino e da Piazza: vigila sulla spiaggia dei palermitani e solleva quintali di sabbia negli occhi di chi indaga per davvero.
C’è chi ha deciso di ristrutturare nel 1991 proprio quel cunicolo dell’autostrada di Capaci che salta in aria a maggio dell’anno successivo, affidando i lavori a una ditta di Altofonte.
C’è quell’imprenditore che ha eseguito i lavori, Andrea Di Matteo, che prima del botto chiama più volte l’America e a strage imminente telefona ancora a utenze che la Sip dichiarerà «inesistenti».
C’è chi ha dato nuova vita a quel telefono formalmente smarrito ad aprile del 1992 e quindi disattivato, ma che ad ottobre funziona ancora. E c’è chi ha indicato proprio in quel cunicolo dell’autostrada il punto migliore per imbottire di esplosivo il tragitto obbligato di Falcone e della scorta al rientro da Roma su un volo dei Servizi. E chi se ne è infischiato. C’è chi ha omesso di valutare una relazione di servizio della scorta di Falcone che indicava proprio in quel punto esatto il luogo a maggior rischio per il passaggio del corteo. E chi ha ignorato anche questo.
Ci sono emissari dell’agente siriano Nizar Hindawi con i quali Nino Gioè, boss stragista di Altofonte, è entrato in contatto nella primavera del 1992 grazie a Franco Di Carlo, il suo capofamiglia detenuto in Inghilterra, che dal reparto speciale del carcere di Brixton già dalla fine dell’87 viene trasferito in un penitenziario del Nord dell’Inghilterra da dove può tenere comodamente rapporti con mafiosi e spioni.
C’è il “Corvo Donna”, che tira in ballo un mobilificio come base del commando stragista. La rintraccia Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile diventato il dominus delle indagini sugli eccidi, e conclude che non è una buona pista. Liquida quella possibilità subito dopo aver svolto un sopralluogo insieme con non meglio precisati investigatori americani.
E c’è chi cancella la memoria del databank di Giovanni Falcone.
C’è Calogero Calà, fidato uomo di Bernardo Provenzano, che fa una serie di curiose telefonate a un’utenza del Viminale nel giugno del 1992.
C’è chi riceve altre strane telefonate dal Grand Hotel Villa Igiea, sotto stretto controllo dei Galatolo dell’Acquasanta, mentre lo squadrone della morte sta lavorando al grande botto del 19 luglio del 1992, a una manciata di metri da lì. E chi prende la borsa di Paolo Borsellino quando via D’Amelio sta ancora bruciando e fa sparire l’agenda rossa.
C’è il “Corvo Due”, che nell’estate del 1992 racconta di un incontro tra l’ex ministro Calogero Mannino – indagato e assolto per concorso esterno e la trattativa Stato-mafia per far cessare le stragi del 1992-93, scandagliata dalle inchieste di Firenze, Palermo e Caltanissetta – e Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato dopo l’omicidio di Salvo Lima e prima delle stragi.
Angelo Izzo e Giuseppe Pellegriti, il laboratorio dei falsi pentiti
Non è solo questione di giusto o di sbagliato, di garanzie e diritti umani, trascurati e offesi, se non accantonati quando non sospesi del tutto, in nome di un’emergenza che è il risvolto della perenne inadeguatezza repressiva e preventiva fatta di metodo e continuità. Ma è questione di portata degli effetti.
Un falso pentito, una confessione estorta, una verità spiattellata, e magari concordata, per ingraziarsi chi si ha di fronte è una bomba a orologeria innescata nel processo, pronta a esplodere a distanza di anni, quando la giustizia finirà con l’avere solo una vaga parentela col diritto, lasciando l’acre sapore della sconfitta, la fumosa consapevolezza di essersi avvicinati al vero, sfiorandolo appena.
Anche questo è il contrappasso delle trattative.
In carcere, ad esempio, fu costruito il colossale depistaggio che doveva mandare a monte il pentitismo, quando il giudice Giovanni Falcone, solo contro tutti, nell’autunno dell’89, a pochi mesi dal fallito attentato dell’Addaura del 21 giugno di quell’anno, lasciò a cuocere nel loro mefitico brodo le dichiarazioni del sedicente pentito Giuseppe Pellegriti, sapendo che una sola di quelle parole, messe insieme a tavolino nel carcere di Alessandria con il massacratore del Circeo Angelo Izzo a fare da docente, avrebbe distrutto anni di lavoro sui collaboratori di giustizia, quelli veri. Pellegriti aveva parlato dei grandi delitti di Palermo: quello del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario regionale del Pci Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Aveva addossato al “nero” Giusva Fioravanti l’omicidio Mattarella, fatto i nomi dei presunti killer degli altri e tirato in ballo come mandante per Dalla Chiesa il parlamentare dc Salvo Lima.
Da sole, tutte quelle rivelazioni offrivano su un piatto d’argento una verità che metteva insieme mafia e terroristi neri.
Lasciava in ombra responsabilità ad alto livello e salvava più di un responsabile. Una polpetta avvelenata in piena regola. Quando fu chiaro che si trattava di una colossale menzogna, Pellegriti e Izzo furono incriminati per calunnia. Nel processo che ne scaturì, Izzo, interrogato dal giudice istruttore, rivelò in parte come erano andate le cose. Lui e Pellegriti avevano avuto vita facile per incontrarsi in carcere fuori dalle ore di socialità permesse e per accordare lo strumento della loro pretesa impunità. Gli era bastato sostenere che dovessero scrivere la biografia di Pellegriti. Avevano così beneficiato di due ore di tranquillità, dalle 10 alle 12 di ogni giorno, in quella estate dell’89, per poter costruire il falso in tutta tranquillità.
Dissero che avevano fatto tutto da soli, raccontarono di aver messo insieme suggestioni e ricostruzioni dei giornali, e tanto fu sufficiente per evitare di interrogarsi sull’esistenza di eventuali suggeritori. Sui nomi di chi aveva orchestrato il sabotaggio dall’interno, di quanti avevano avuto libero accesso al carcere, convincendo i due dell’opportunità di confezionare quelle note che sarebbero state musica per le orecchie di qualche giudice frettoloso e dell’opinione pubblica in affannosa attesa della sinfonia perfetta.
Fu quello il primo colossale attacco subdolo allo strumento del pentitismo, nel momento in cui Falcone era contemporaneamente bersaglio di una minaccia al tritolo, di una campagna di delegittimazione per screditare la sua attività e di una manovra per demolire lo strumento di indagine principe che aveva costruito con Buscetta, Contorno e Marino Mannoia.
Un baco, i falsi pentiti, capace di far impazzire il sistema: non possiamo uccidere tutti i collaboratori esistenti, né impedire che ne nascano di nuovi, si saranno dette le “menti raffinatissime” cui il giudice attribuiva la responsabilità dell’attentato dell’Addaura; allora forse possiamo provare a far saltare il banco, infiltriamo falsi collaboratori e mandiamo a monte tutto.
Un piano che in quella occasione fu sventato, ma che le mafie e i loro suggeritori non hanno mai abbandonato, rispolverandolo e aggiornandolo tutte le volte che se ne è presentata l’occasione.
L’irriducibile Totò Riina e il “nuovo corso politico” dell’Italia
Un segreto come quello che custodisce Salvatore Riina, il capo dei Corleonesi, pronto anche lui a trame oscene. Salvatore Enea, punta di diamante di Cosa Nostra a Milano, ignaro di essere intercettato, spiegava in due parole il potere di Riina: «Lui aveva il Sisde, che gli portava tutte le informazioni, gli diceva: quelli si stanno riunendo e lui, woorm! Capito? Come lui capiva che c’era qualcuno, un malcontento, lui lo guardava negli occhi e capiva! Perché era furbo, troppo furbo! Non intelligente, furbo! Tutta la Questura era alle sue dipendenze. Come fai, vai alla Questura te a denunciarlo? La Questura stessa ti ammazza! E se qui c’è qualche microspia queste cose sono registrate e poi, te la prendi nel culo anche tu»
Le informazioni sono il vero capitale. E Riina le aveva di prima mano. Quando, nel 1987, da uomo libero, ebbe pienamente il controllo di Cosa Nostra mentre tre quarti della commissione mafiosa era in galera, consolidò la rete di relazioni che possono fare di un uomo di potere un dittatore assoluto. E in mezzo a omicidi, lupare bianche e progetti di stragi si curò di formalizzare quei rapporti. Di avere un ufficiale di collegamento tra il vertice dei Corleonesi e i servizi segreti, conosciuto alla schiera dei suoi uomini più stretti. Sì, proprio lui, l’irriducibile, pronto a invocare la presunta ortodossia dell’integrità mafiosa, trescava alla maniera dei vecchi padrini con chi ufficialmente doveva dargli la caccia. E non ne faceva mistero.
Accentratore com’era, scelse tra gli uomini del mandamento mafioso che più gli stava nel cuore, la Noce. E tra i figli di Raffaele Ganci, il boss della zona di Palermo che va dal Tribunale alla circonvallazione, volle Domenico, uno dei rampolli del padrino suo fedelissimo. Lo elevò perfino al rango di rappresentante del padre detenuto alle riunioni più delicate della commissione. «Nel 1987 Domenico Ganci era stato incaricato da Salvatore Riina di intrattenere i rapporti con il mondo esterno a “Cosa Nostra”, con l’autorizzazione ad avvicinare, nell’interesse di questa, persone appartenenti alla massoneria e ai servizi segreti; in tale incombenza
Domenico Ganci sostituì Antonino Madonia, che la aveva svolto in precedenza e che però era stato appena arrestato». È questo il racconto che fa l’ex bancario, poi mafioso, quindi pentito, Antonio Galliano, già uomo di fiducia di Domenico Ganci
Ed è forse a questo che allude un altro pentito della Noce, Salvatore Cancemi, quando dice che al momento della strage di Capaci del 1992 Riina «fu preso per la manina».
Fino a «prendere due piccioni con una fava»: ovvero eliminare un magistrato, ormai trasferitosi a Roma, che però, come diceva Paolo Borsellino al fido tenente Carmelo Canale: «Se a Palermo fa le indagini, a Roma ne fa il doppio».
E contribuire a fare «scopa nuova», per dirla con il pentito Angelo Siino: agevolare, cioè, un nuovo corso politico per il Paese. Con l’obiettivo di ricavarne vantaggi per sé e per l’organizzazione. Per chi, come lui, godeva di ampi margini di manovra e per i dannati al 41 bis, i boss decimati dalla prima vera repressione antimafia coincisa con il primo maxiprocesso di Palermo.
Accordi, trame, patti che al carcere riconducono sempre.
Perché le prigioni sono luoghi ideali per intese su merci ignominiose. In carcere le odiate guardie custodiscono e vigilano, talvolta chiudono un occhio, o tutti e due. Ma c’è tra le divise chi ha il compito di carpire informazioni o di farsele semplicemente spifferare.
C’era, e in qualche modo c’è ancora, una struttura di intelligence tra le celle in grado di anticipare le mosse, sventare piani di morte e talvolta subirli. E certo anche di individuare i responsabili, snidare i latitanti, ottenere confessioni decisive.
Questa è la norma ed è perfino legittimo.
Ci sono le spie come ci sono le talpe, ma qui è la stortura che interessa. La deviazione sistematica, le organizzazioni parallele che interferiscono pesantemente con il corso delle cose, lo eterodirigono, lo piegano ai loro fini.
In questo modo un pezzo di quella struttura ha colto i segnali di cedimento o li ha incentivati. Con le buone o con le cattive. Ha utilizzato infiltrati, agenti provocatori, detenuti delatori per avere dritte, e talvolta ha anche messo in campo squadrette di picchiatori che hanno trasformato il 41bis, il carcere duro che doveva impedire ogni contatto tra i detenuti di mafia e l’esterno, in un inferno alla Guantanamo.
Con il provvedimento che inaspriva la detenzione si intendeva blindare Cosa Nostra, rendere impossibile il flusso di informazioni da e per il carcere. Precludere la possibilità che i capi restassero tali anche dietro le sbarre, che i loro ordini arrivassero dritti alle orecchie di chi doveva eseguirli.
A questo dovevano servire la modifica all’ordinamento penitenziario e i bracci speciali del circuito dell’alta sicurezza. E non a trasformare Pianosa e l’Asinara in una sorta di incubatore di nuovi collaboratori di giustizia, spinti dall’afflizione ad assecondare le richieste di investigatori e pubblici ministeri.
I patti indicibili tra sbirri e padreterni
Sono le storie di trattative indicibili. Ci sono le bombe, i tradimenti e le ombre dei servizi segreti. Ci sono le verità insabbiate, le agende scomparse, i boss che parlano e altri che ascoltano troppo o troppo poco.
Da oggi e per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Il libro è un viaggio tra protocolli segreti e strette di mano mai verbalizzate, tra coloro i quali la mafia dovrebbero combatterla e invece poi chiudono un occhio se non anche due. Il carcere come crocevia. Il 41 bis come teatro, come laboratorio, come luogo dove si decide chi può vivere e chi deve tacere. Non ci sono santi e nemmeno mostri, solo uomini, spesso piccoli, che giocano partite grandi.
Uno dei protagonisti è l’ex boss corleonese e testimone di passaggi opachi nella storia d’Italia, Franco Di Carlo. Insieme a lui, il libro attraversa cinquant’anni di patti sporchi e depistaggi, di silenzi e confessioni, di trattative vere e finte. Le bombe del ’92, i misteri intorno a Falcone e Borsellino, il “protocollo Farfalla”, i falsi pentiti, uomini dei servizi che vanno e vengono. La trattativa Stato-mafia, che non è un episodio ma un metodo.
È un libro sempre attuale. Perché il problema non è se lo Stato abbia mai trattato con la mafia, semmai perché l’ha fatto e a quale prezzo.