MARIO MORI: «Ricostruire ulteriori segmenti di verità sugli intrecci malati tra politica, imprenditoria e criminalità, appare ormai impresa difficile


Il generale Mario Mori: “L’operazione Messina Denaro fallì per incomprensioni tra pm e 007.Falcone e Borsellino tirati per la giacchetta da destra e sinistra”

 

“Le più recenti cronache che riguardano la corruzione in campo economico sembrano dare ragione alla tesi di Ciancimino” spiega.

“Gli interessi di parte oggi eccedono l’unità d’intenti”

In base alla sua esperienza ritiene ancora possibile ricostruire qualche pezzo di verità storica sull’intreccio tra appalti, mafia, amministrazioni pubbliche e partiti che ha caratterizzato la Sicilia degli anni ottanta?
«Ricostruire ulteriori segmenti di verità sugli intrecci malati tra politica, imprenditoria e criminalità, appare ormai impresa difficile, stante il tempo trascorso, ma soprattutto per le nette frammentazioni ideologiche che negli anni si sono venute formando rispetto a questa problematica, così da renderne complicato un riesame sereno e distaccato. Solo quando saranno scomparsi tutti i protagonisti diretti ed indiretti di queste vicende, ritengo sarà possibile tentare di giungere ad una verità storica accettabile».

«Penso che una stima sui significativi danni economici provocati ai bilanci statali dall’illecito condizionamento degli appalti pubblici, non sia mai stata fatta specificatamente, peraltro la ritengo difficile, per i troppi parametri da considerare e non tutti facilmente quantificabili. Certo è che “Cosa nostra”, passando dal “pizzo” al contesto imprenditoriale, con i proventi che gli sono derivati dagli anni ottanta del secolo scorso in poi, ha potuto sostenere adeguatamente la sua azione criminale, infliggendo contestualmente danni rilevanti all’economia sana della nazione».

«Il problema della criminalità mafiosa è stato gestito sin qui da politici, magistrati e investigatori con ottiche professionali specialistiche, che per lo più escludevano ogni aspetto non direttamente mirato al settoriale contrasto del fenomeno criminale. Direi che sarebbe estremamente opportuno sviluppare uno studio complessivo e scientificamente serio a riguardo. Anche perché in questo ambito permangono consistenti attività criminali che provocano tuttora consistenti danni alla nostra economia, così che nuove idee potrebbero individuare più moderne metodologie di contrasto da cui trarre indirizzi legislativi e operativi più aderenti ed efficaci».

Quali sono le sue impressioni sull’omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa con cui lei ha collaborato in più occasioni? Si può affermare che la sua uccisione costituisca l’inizio di una nuova fase nell’azione di Cosa Nostra contro lo Stato? Cosa ha imparato dal Generale dalla Chiesa e vorrebbe trasmettere alle nuove generazioni?
«L’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa nel settembre 1982 segna anche emblematicamente la conquista del potere mafioso da parte dei “viddani” corleonesi rispetto alle “famiglie” cittadine di Palermo. Esito raggiunto nella primavera del precedente 1981, in particolare con l’eliminazione di Stefano Bontate e Vincenzo Inzerillo. Si passò così da una mafia rispettosa di certe “regole” consolidate nei rapporti con le istituzioni, all’attacco diretto ai simboli dello Stato. Fatto, questo, che nel successivo medio periodo segnò la fine di “Cosa nostra” cosiddetta “operativa”, spazzata via nel corso dei successivi anni novanta dalla reazione degli organismi di sicurezza. Il rapporto professionale con il generale dalla Chiesa mi ha consentito, una volta assegnato a Palermo, di potere applicare quel “metodo” che già proficuamente era stato adottato per combattere le organizzazioni terroristiche. Sistema questo, consistente essenzialmente nel contrastare il fenomeno con personale esclusivamente dedicato che il generale, tornato in Sicilia come prefetto, non ebbe né il tempo né la possibilità di mettere in atto nel nuovo incarico. Metodo che per la sua onerosità, sottraendo unità organiche qualificate e mezzi ingenti all’azione di contrasto ordinaria, può essere usato solo per fatti e circostanze particolari, quali il contrasto ai grandi fenomeni di criminalità organizzata. Nel contesto generale, il compito per l’organizzazione di sicurezza consiste anche nel mantenere, nei momenti di riflusso dei fenomeni, un’attenzione costante all’evolversi delle grandi espressioni criminali. Per non farsi trovare impreparati, come è avvenuto in altri periodi storici, necessita in particolare che un’adeguata aliquota delle Forze di Polizia sia specificatamente destinata al monitoraggio dei potenziali grandi pericoli emergenti così che, all’evenienza, possano essere immediatamente contrastati».

«Non ritengo che le rotture generazionali nel contesto dell’universo mafioso siano state realmente significative. Nella maggioranza dei casi più che di prese di coscienza e approcci diversi, si è trattato di modalità operative differenziate, necessitate dal doversi adeguare all’evoluzione della società. Questo, in particolare, nelle aree dove era più radicato l’insediamento delle organizzazioni criminali. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati due professionisti che hanno modificato coraggiosamente un modo di sviluppare l’azione inquirente, che ora si pone come una prassi pacificamente acquisita, ma che, all’epoca, provocò, anche nel loro ambiente, forti ostacoli e drammatiche lacerazioni».

«Vito Ciancimino era un criminale intellettualmente evoluto, convinto che la parte attiva della società nazionale, quella cioè espressione di politica ed economia, non potesse sopravvivere se non lucrando sul condizionamento illecito e sistematico dei grandi appalti pubblici. La sua azione e quella dei suoi correi, perché non dimentichiamo mai che l’ex sindaco di Palermo era solo la punta di un iceberg di grandi dimensioni, era costituita da condotte con finalità strategiche definite che si adeguavano tatticamente a esigenze e modalità in sintonia con i tempi, pronte cioè a cambiare e aggiornarsi a fronte di nuove emergenze. Il tutto basato sul principio, sempre rispettato, di un adeguato e proporzionato ritorno economico per tutte le parti coinvolte nell’illecito. Le più recenti cronache che evidenziano come la corruzione in campo economico continui a manifestarsi ampiamente, sembrano dare in qualche modo ragione alla tesi sostenuta da Ciancimino».

«Per le tecniche proprie di un servizio d’intelligence, in cui una parte significativa delle attività è rivolta a conoscere indirizzi e modalità operative degli avversari, da un punto di vista teorico, l’azione di contrasto ai gruppi criminali che operavano nel settore degli appalti, costituiva un campo d’azione tecnicamente non insormontabile. Si tenga conto in particolare che, per operare negli appalti, “Cosa nostra” era costretta a venire meno alla tradizionale riservatezza ed impermeabilità caratteristiche della sua organizzazione, dovendo, per raggiungere i propri scopi, rapportarsi con politici, imprenditori e tecnici; persone queste tutte estranee all’organizzazione, ma indispensabili per realizzare le intese necessarie al condizionamento illecito di incanti e concessioni. Questo rapporto costituiva un elemento di potenziale debolezza pienamente sfruttabile. Nel periodo della mia gestione del Servizio interno nazionale fu tentata un’operazione volta a penetrare nel sistema economico gestito da Matteo Messina Denaro, attuata attraverso l’azione di un elemento indotto a stabilire un contatto epistolare col latitante. L’operazione, che si prospettava molto interessante, fallì per incomprensioni tra magistratura, polizia giudiziaria e intelligence».

«Di fronte a eventi che mettevano in serio pericolo l’esistenza dello Stato democratico, come in certe fasi è avvenuto per le manifestazioni più eclatanti del terrorismo interno prima, e della criminalità organizzata poi, le forze trainanti del paese, facendo riferimento ai principi dell’interesse nazionale, sono riuscite a trovare quell’unità di intenti che ha consentito loro di sconfiggere i due fenomeni. Ho assistito personalmente, e in più circostanze, a queste espressioni di convinta unità d’intenti. A riguardo mi piace ricordare l’episodio in cui, nel giorno del ritrovamento del cadavere dell’on. Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, vidi operare in perfetta intesa il ministro dell’interno in carica, Francesco Cossiga, e quello “ombra” del Partito comunista italiano, Ugo Pecchioli. Tutti noi presenti, nella drammatica circostanza, capimmo che i due uomini politici in quel momento, nel loro agire, non rappresentavano uno schieramento, ma erano lì in quanto espressione materiale della coesione delle Istituzioni nazionali. Come può ritenersi scontato per tutti i periodi di riflusso dei grandi fenomeni, oggigiorno stiamo attraversando quel periodo storico in cui le componenti significative della società hanno ripreso a privilegiare gli interessi di parte. In questo contesto, uno dei terreni di scontro più significativi è rappresentato dall’analisi di cause ed effetti dei delle grandi stragi di mafia dei primi anni novanta del secolo scorso. La diversa valutazione dei fatti, su cui la magistratura non è ancora riuscita a fornire una risposta definitiva, ha dato luogo a contrastanti interpretazioni sostenute dalle diverse parti politiche. Ritengo che solo attraverso un lungo periodo di decantazione queste diverse interpretazioni potranno trovare una sintesi accettabile, sufficientemente vicina al reale svolgimento dei fatti. E questo avverrà a conclusione dell’analisi storica dei fatti, sempre più facilmente raggiungibile di quella giudiziaria». IL RIFORMISTA


MARIO MORI

 

🟥 VIA D’AMELIO – DE DONNO e MORI oggi di nuovo in COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA