Una storia da chiudere in fretta. Una storia di cui è bene non parlare. Una storia che in molti vogliono dimenticare. Potrebbe essere anche una delle tante che si verificano nel nostro strambo Paese, ma non è così, perché Rita Atria era una testimone di giustizia minorenne, affidata all’alto Commissario per la lotta alla mafia, che morì in circostanze misteriose durante il programma di protezione. Una storia che crea imbarazzo ad uno Stato che non ha protetto una testimone di giustizia di 17 anni. Suicidio si dirà, e così il caso verrà subito chiuso.
A distanza di trentatré anni dalla morte di Rita Atria, però, i dubbi non solo permangono, ma sono alimentati dallo sviluppo di nuovo conoscenze tecnologiche e scientifiche applicate ai casi di vicende giudiziarie. È altrettanto evidente, che ci siano delle criticità, delle omissioni e delle carenze nelle indagini condotte all’epoca, in modo abbastanza sommario, come dimostra lo striminzito fascicolo che riguarda la vicenda. «Parlare di Rita significa assumersi una responsabilità: non lasciarla morire una seconda volta nel disinteresse generale. Una responsabilità che ci siamo presi ogni giorno» ha dichiarato l’associazione Rita Atria, che insieme alla sorella della ragazza, Anna Maria Atria, ha presentato un’istanza alla procura di Roma per chiedere la riapertura delle indagini, a cui purtroppo ancora non è seguita alcuna risposta.
Il contesto
Rita era nata nel 1974 all’interno di una famiglia appartenente ad una cosca mafiosa del trapanese, infatti il padre, Vito Atria, era considerato all’epoca il boss di Partanna. Quando Rita aveva 11 anni, il padre è stato ucciso in un agguato, probabilmente perché come altri mafiosi, che andarono incontro al suo stesso tragico destino, si sarebbe opposto all’ingresso della droga in Sicilia. Ma il motivo potrebbe anche essere stato un semplice regolamento di conti. Di fatto, a prendere il posto del padre all’interno del clan mafioso è il fratello maggiore di Rita, Nicola che diventa uno spacciatore. In questo periodo, il rapporto tra fratello e sorella diventa ancora più intenso, tanto che Nicola parlava a Rita dei segreti e delle dinamiche di cosa nostra. Nel giugno del 1991, anche il fratello di Rita è stato ucciso in un agguato, a cui ha assistito la moglie Piera Aiello, che ha dunque deciso di denunciare i due assassini e collaborare con la giustizia. Nel novembre dello stesso anno, a soli 17 anni, Rita ha seguito le orme della cognata e ha cominciato a raccontare alla magistratura tutto quello che sapeva. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è stato il giudice Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala), al quale si è legata come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, hanno permesso di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala.
Il trasferimento a Roma
Una volta entrata nel programma di protezione Piera Aiello si trasferì a Roma, invece a picciridda – come la chiamava affettuosamente il giudice Borsellino – restò inizialmente a Partanna, fin quando avvenne un episodio inquietante: «Dei mafiosi si presentarono alla porta di casa loro, ma grazie alla sua freddezza la madre, Giovanna Cannova, riuscì a tenerli fuori e proteggere la figlia. Quando Rita disse alla madre, che l’avrebbero trasferita a Roma, lei si preoccupò e si oppose, perché a Roma sarebbe stata da sola e non avrebbe potuto proteggerla, ed aveva ragione» racconta Goffredo D’Antona, avvocato dell’associazione Rita Atria. La madre allora tentò di evitare il trasferimento di Rita in tutti i modi, tra cui le minacce – per cui fu successivamente condannata – che invece costituirono la giustificazione con cui il Tribunale dei Minori di Palermo accelerò l’allontanamento di Rita dal tetto familiare. «Sua madre a questo punto scrisse un’accorata lettera a Paolo Borsellino per spiegare le ragioni del suo comportamento e le sue preoccupazioni, propose addirittura lo scambio tra lei e la figlia come testimone di giustizia per proteggere la piccola di casa» precisa Nadia Furnari, vice presidente dell’associazione antimafia dedicata a Rita Atria.
La settima vittima della strage di via D’Amelio
Trasferita a Roma sotto protezione e falso nome, Rita vive isolata, costretta a frequenti cambi di residenza, tra cui l’ultima – quella in cui è morta – in viale Amelia n.23. La ragazza cerca anche di combattere lo stigma che la perseguita, perché anche se è diventata una testimone di giustizia, per tanta gente rimaneva sempre la figlia del boss di Partanna. Riuscì comunque ad andare avanti con lo stesso spirito combattivo fino a quel tragico 19 luglio del 1992, quando Paolo Borsellino e la sua scorta furono uccisi in via D’Amelio. Rita sprofondò nello sconforto e scrisse: «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto che ha lasciato nella mia vita. […] Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta». Qualche giorno dopo, il 26 luglio 1992, morì anche Rita. Ufficialmente si trattò di un suicidio, e così fu velocemente archiviato il caso. «Nessuno si preoccupò nell’immediato post mortem di precisare che Rita era una testimone di giustizia, sotto protezione dello Stato, e persona di fiducia del dottore Borsellino, il quale era stato trucidato appena una settimana prima. Le due morti sono evidentemente collegate, ma questo legame non è stato evidenziato, come mai?» si chiede ancora l’avvocato D’Antona.
I dubbi sul suicidio di Rita
Oltre quello appena sollevato, tanti altri sono i dubbi che circondano la morte della piccola ribelle, diventata poi un esempio di lotta alla mafia, per la sua generazione e per tutti i giovani italiani. «In primis, nella casa di viale Amelia non è stata trovata alcuna impronta digitale di nessun tipo e nessuna traccia biologica neanche di Rita stessa – sottolinea ancora l’avvocato dell’omonima associazione – È vero che siamo nel 1992, però già i capelli venivano utilizzati per le analisi. Inoltre, la ragazza è precipitata scalza, quindi si presuppone che abbia camminato a piedi nudi sul pavimento, senza però lasciare alcuna impronta digitale». In tutto l’appartamento, che comunque era abbastanza disordinato e, quindi, vissuto, è stata trovata una sola impronta digitale palmare sul davanzale della finestra, ma non risulta essere stata comparata per risalire alla identità di eventuali altri soggetti. Sul frigo, inoltre, è stato fotografato un orologio che non era di Rita, ma lo stesso non è stato mai repertato. La cognata Piera Aiello dirà in seguito di sapere a chi appartenesse quell’orologio, ma non ha voluto mai rendere pubblica l’identità del suo possessore, che avrebbe rivelato soltanto al magistrato incaricato di raccogliere le sue deposizioni.
Il suo tasso alcolemico
«Intanto, secondo la sorella e coloro che la conoscevano pare che Rita non bevesse alcolici, ma il tasso alcolemico nel suo sangue era pari allo 0,38 per cento. Questo dato è rinvenuto in seguito ad accertamento compiuto inspiegabilmente soltanto nel settembre del 1992, per cui a distanza di quasi due mesi dalla morte» chiarisce Goffredo D’Antona. Come tratteggiato nell’istanza di riapertura delle indagini, tale circostanza induce a ritenere che il parametro del tasso alcolemico fosse ben più elevato al momento della morte, sia perché con la caduta Rita ha perso sangue e, dunque, liquidi, sia perché in un corpo privo di vita l’alcol si ossida, diventa zucchero e scompare. «Tutto ciò dando per scontata la perfetta conservazione del corpo e dei reperti per esami tossicologici, prima dell’autopsia. Se così non fosse, il livello alcolemico sarebbe stato ancora maggiore, quindi, elevatissimo in considerazione della giovanissima età e del sesso femminile». Nessuna bottiglia di alcol è stata comunque trovata nella casa di viale Amelia, a parte una bottiglia di Martini, collocata all’interno dello stipetto in alto ed anche su questa non è stata rilevata alcuna impronta digitale.
L’inefficace programma di protezione
«Secondo il programma di protezione dell’epoca, la persona in questione veniva mandata in una località protetta e lì non c’era bisogno di una scorta, ma di una sorveglianza che avrebbe dovuto gestire l’alto commissariato – riferisce Nadia Furnari – Siamo proprio all’inizio dei programmi di protezione, ancora non c’era neanche la legge sui testimoni di giustizia che arriverà nel 2001. Rita era semplicemente stata affidata all’alto commissario alla lotta alla mafia, Angelo Finocchiaro, con provvedimento del Tribunale dei minori di Palermo». Eppure, non esiste nessun verbale che possa rivelare quando Rita fu controllata l’ultima volta: «In realtà, non risulta proprio nessun verbale che certifichi che la ragazza sia mai stata controllata – fa sapere l’avvocato Goffredo D’Antona – Così come non è normale, che una minorenne sia stata mandata a Roma ad abitare da sola. Non sarebbe fattibile per qualunque minore, a maggior ragione per una testimone di giustizia. Situazione ancor più grave è il mancato accordo tra il tribunale dei minori di Palermo con quello di Roma, che lascia di fatto Rita in balia degli eventi». È bene ricordare, infine, che secondo diverse fonti giornalistiche, gli psicologi e gli assistenti sociali non avrebbero mai incontrato Rita Atria, nonostante fosse previsto.
Errori e difformità tra i diversi verbali stilati
«I primi ad arrivare sul luogo della morte di Rita furono i carabinieri, che riferirono di una finestra alzata a metà da dove presumibile Rita Atria si sarebbe lanciata. Al momento del sopralluogo, però come si evince dalle foto, la finestra era completamente chiusa. È solo nelle successive fotografie, a seguito del trattamento con polvere di graffito, la serranda appare alzata – dichiara l’associazione Rita Atria-. La camera da letto sembra essere descritta nel primo intervento come abbastanza ordinata. Le foto del secondo intervento sembrano compiute invece dopo una grossolana perquisizione. Va escluso assolutamente che il primo carabiniere abbia potuto modificare lo stato dei luoghi. Parimenti è da escludere che i carabinieri del CCIS (oggi RIS n.d.r) abbiano modificato lo stato dei luoghi prima di fare le foto. Il loro lavoro è cristallizzare lo stato dei luoghi. Toccare qualcosa, spostare un oggetto vanifica il loro stesso lavoro. Appare plausibile ritenere che qualcuno sia entrato nell’appartamento dopo il primo intervento e prima dell’intervento del CCIS». Un’altra circostanza poco chiara, a cui si dovrebbe porre rimedio il più presto possibile, riguarda il fatto che nessuno sia stato sentito dalla procura di Roma come testimone: né i vicini di casa, né la cognata Piera Aiello, né Gabriele il fidanzato della giovane testimone di giustizia.
La richiesta di riapertura delle indagini
«Abbiamo presentato l’istanza di riapertura del caso alla procura di Roma che non dato risposta, poi abbiamo chiesto l’intervento della Procura Generale e neanche loro ci hanno dato riscontri. Adesso stiamo completando un lavoro di rielaborazione di tutto quanto e poi vedremo il da farsi, a questo punto proveremo ad andare davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo» annuncia l’associazione Rita Atria. Sulla vicenda è già stato pubblicato in merito un libro dal titolo “Io sono Rita” – a firma di Nadia Furnari, Giovanna Cucè e Graziella Proto – ed è prevista l’uscita di un secondo volume, con un nuovo editore, entro la fine di quest’anno. «In Italia si tende a non voler indagare su quelle che sembrano verità storiche accertate – precisano infine i richiedenti – Conviene a tutti dire che Rita si sia suicidata perché altrimenti la polizia di stato e tanti altri soggetti non ci farebbero una bella figura ad evidenziare che ci sono delle responsabilità da parte loro, anche solo colpose, perché Rita era una bambina che era stata lasciata da sola». Anche quest’anno, l’associazione e i familiari hanno ricordato Rita in viale Amelia a Roma e, come ogni anno, lo hanno fatto in forma privata. «𝗡𝗼𝗻 𝗽𝗲𝗿 𝘀𝗰𝗲𝗹𝘁𝗮, 𝗺𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗱𝗲𝗻𝘂𝗻𝗰𝗶𝗮 – spiega l’associazione in un comunicato stampa -.Perché la 𝗺𝗲𝗺𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗮𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮 è un esercizio scomodo, ostacolato non solo dall’indifferenza, ma da veri e propri 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶 𝗶𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶, 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗶 𝗲 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝗮𝗻𝘁𝗶𝗺𝗮𝗳𝗶𝗼𝘀𝗶».