Via D’Amelio – Foto di Franco Lannino
In memoria. 19 luglio e vent’anni dopo.
Palermo è possibile considerarla come terreno di coltura della mafia storica e tradizionale, Cosa Nostra clichè per la riproduzione dei modelli delle relazioni tra il crimine organizzato e il potere. Negli anni, la città siciliana è stata anche palcoscenico dell’evoluzione e della trasformazione delle strategie criminali.
Infine Palermo è anche la città della passione civile e della resistenza politica, come dimostrano i fatti, gli uomini dello Stato caduti in questa guerra e le storie a margine troppo spesso dimenticate.
Via D’Amelio – Foto di Franco Lannino
In memoria.
19 luglio e vent’anni dopo.
Palermo è possibile considerarla come terreno di coltura della mafia storica e tradizionale, Cosa Nostra clichè per la riproduzione dei modelli delle relazioni tra il crimine organizzato e il potere. Negli anni, la città siciliana è stata anche palcoscenico dell’evoluzione e della trasformazione delle strategie criminali.
Infine Palermo è anche la città della passione civile e della resistenza politica, come dimostrano i fatti, gli uomini dello Stato caduti in questa guerra e le storie a margine troppo spesso dimenticate. Possiamo dire quindi di Palermo come luogo iniziale. Oggi, con l’alto tasso evocativo delle ricorrenze, la memoria mediatica rischia di trasformarsi in un esotismo inaccettabile e allora, con umiltà, occorre sottolineare il limite umano delle azioni di allora e di oggi. Così, come inizio appunto, serve tornare sulla scena del crimine, in quella strada cieca tra i palazzi.
Via Mariano D’Amelio 19.
Paolo Borsellino con Emanuela Loi, Eddi Walter Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli morirono ammazzati dall’esplosione di un’autobomba. Altre 24 persone restarono ferite, come Antonio Vullo, l’autista di una delle Fiat Croma blindate rimasto vivo poiché all’interno dell’auto.
Le cose, anche banali o quotidiane, vanno guardate spesso da più prospettive.
Se queste cose specifiche appartengono all’ambito della mafia o delle organizzazioni criminali occorre registrare una terza prospettiva. Dall’alto.
In via Mariano D’Amelio, una Fiat 126 rossa, rubata a un’ignara casalinga palermitana, esplose appena il magistrato si avvicinò al citofono della casa materna. Il comando a distanza innescò la reazione dell’esplosivo al plastico di tipo Semtex, che deflagrando dall’interno dell’utilitaria generò una rosa di lamiere bollenti che si trasformarono a loro volta in lame affilate.
La mafia siciliana non ha mai avuto un manuale unico per le auto bomba o altri armi per effettuare gli omicidi, tuttavia l’utilizzo del Semtex apre alcuni scenari apparentemente ignorati dagli inquirenti all’epoca delle stragi. L’edilizia è uno dei regni della prepotenza per gli affari della mafia e nei cantieri e nelle cave l’esplosivo è il TNT, il tritolo derivato dalla nitroglicerina, mentre il Semtex è un plastico molto in uso nei corpi militari speciali. Come risulta dalle varie udienze del “processo Borsellino” i mafiosi coinvolti nella strage sembrano ignorare gli autori materiali che fecero esplodere la Fiat 126 con il telecomando e ignorano anche il luogo dove questi si posizionarono. In fondo a via D’Amelio, se si volge lo sguardo verso l’alto, verso il monte Pellegrino, dove ha sede il santuario della patrona Santa Rosalia, si incontra il panorama massiccio e rosa del Castello Utveggio. Molto probabilmente, dal belvedere voluto dall’eccentrico Cavaliere Utveggio, qualcuno, in quella domenica di luglio, poté godere della vista delle Croma blindate che entrarono nella strada dove abitava la sorella e la madre del magistrato, pochi minuti prima delle cinque della sera.
Le intercettazioni successive rivelano che Gaspare Spatuzza, uno degli esecutori logistici della strage, nei minuti immediatamente precedenti e successivi all’esplosione chiamò al telefono un interno del Castello Utveggio. A quel numero, è stato verificato, corrispondeva un’utenza “sicura” del Sisde, il servizio di sicurezza interno a tutela della democrazia in Italia.
In questa storia si nota anche un puntino rosso. L’agenda del giudice Borsellino, in pelle rossa con impressa in copertina la decorazione araldica dell’Arma. Vi si poteva leggere il motto “nei secoli fedele”. Conteneva schemi, parole e collegamenti tra la mafia e il resto. In quel budello arrostito che era Via D’Amelio il 19 luglio del 1992, dalla nebbia istituzionale nella quale è nata la strage, emerse qualcuno sicuro e determinato, che portò via la borsa del Dottore con la sua agenda. L’agenda, ad oggi, non è stata trovata.
Un altro primato, quel maledetto giorno d’estate di vent’anni fa, è l’omicidio della prima donna in servizio di scorta, Emanuela Loi.
Ogni tanto qualcuno racconta, come nelle favole, che una volta, tanto tempo fa, la mafia era un’organizzazione neanche tanto male. Tuttavia chi racconta di un tempo di bontà legato alla mafia è un ignorante. Chi lo racconta non conosce o spera, così dicendo, di non disturbare troppo chi manovra il tram della quotidianità, altrimenti, con dispiacere certo, scoprirebbe che la mafia non è mai stata altro che un’organizzazione di uomini disonorevoli, una gigantesca associazione di assassini, una montagna imbarazzante di deiezioni sociali, culturali ed economiche. La mafia non è mai stata il club dei Robin Hood, contro i Borboni prima e poi contro lo Stato distratto, a favore dei cenciosi contadini poverelli: gli uomini del disonore hanno usato tutti i regimi per arricchirsi grazie alle povertà delle politica, non immaginando mai di essere rivoluzionari, di sostituire il potere ma di usarne tutti i benefici e le scorciatoie.
A contrastare l’espansione del proprio potere, i criminali delle mafie hanno trovato l’opposizione concreta e reale di moltissimi lavoratori della polizia, di magistrati, di sindacalisti, di giornalisti e di cittadini molto attenti: tra questi, quel 19 luglio di vent’anni fa, una ragazza di ventiquattro anni, sarda, di Sestu. Emanuela Loi stava preparando la valigia per le nozze, anzi le valigie. Nella cultura del Mediterraneo, le nozze sono un teatro di partecipazione, così estese ai parenti, agli amici, alle passioni e alle invidie di pochi, dei soliti scontenti. Un gran daffare tra Sestu e Palermo, sede di lavoro di Emanuela Loi. Come per i minatori, anche per Emanuela non contava molto la notte e il giorno, bensì il dentro e il fuori. Chi ha guidato o ha viaggiato in un’auto blindata riconoscerà per sempre la sensazione di attraversare un tunnel: questo clima di ansia è creato dalla velocità e dalla deformazione ottica dei vetri molto spessi. Come una navicella spaziale, la “blindata” traghetta gli occupanti dentro il male, i pericoli e la minaccia costante della specializzazione dei killer. Fuori – e prima dei viaggi a bordo delle Fiat blindate – Emanuela pensava all’amore, alla valigia per le nozze, alla casa, all’ironia obbligata delle bomboniere.
Anche in auto, operativa, Emanuela era uno strumento dello Stato contro il potere delle mafie. In Corso Pietro Pisani, a Palermo, in una zona laterale della caserma Lungaro della Polizia, c’era e ancora oggi resiste, il reparto scorte. Come in una liturgia si controllano le armi, si caricano i giubboni antischegge, si fa il pieno, si incastra la pistola d’ordinanza tra il sedile e il freno a mano perché non si sa mai, e si parte. Un armamentario utile in una guerra dichiarata, ma superfluo contro il terrorismo. Emanuela Loi è stata uccisa alla fine del tunnel, quando la navicella blindata si è fermata a tre quarti come a proteggere il Dottore e le piante dell’ingresso del condomino di via D’Amelio 19. Uccisa il 19 luglio del 1992, spezzata in due come una bambolina dal Semtex, esploso per cancellare Borsellino e chiunque altro nel giro di cento metri. La valigia delle nozze è rimasta a Sestu, aperta. A chiuderla provvederà l’amore e la giustizia, si spera.
Alessandro de Lisi