Non lasciatevi ingannare, l’esortazione all’italiana per affrontare i problemi non è la stessa attribuita a Frank Leahy, il coach che avrebbe pronunciato questo motto per la prima volta nel 1954, in occasione di una partita difficile.
“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”, è la traduzione in italiano di quel motto usato a sostegno della nomina di Dwight D. Eisenhower a presidente degli Stati Uniti, e spesso ricorrente nei discorsi del capostipite Joseph P. Kennedy, il padre del presidente John F. Kennedy.
Da buoni italiani ci impadronimmo del modo di dire americano quando nel 1978 la frase venne pronunciata nel film Animal House di John Landis, per raggiungere il successo internazionale con la canzone intitolata When The Going Gets Tough, The Tough Get Going, scelta poi come colonna sonora del film The Jewel of the Nile di Lewis Teague.
Saltiamo tutto il resto rimanendo ancorati al film e alla canzone, senza passare attraverso la pubblicità – se non ricordo male – di una nota marca di biscotti che di duro non potevano aver nulla.
Sono state depositate ieri le motivazioni sulla sentenza trattativa Stato-mafia, che escludono qualsivoglia patto con la mafia condotto dai Ros, non rilevando, inoltre, alcun nesso con la strage di Via D’Amelio.
I giudici della Corte d’Appello, pur smontando il teorema trattativa, sono stati critici in merito all’interlocuzione tra i Ros e Ciancimino.
Quello che stupisce – nonostante le sentenze non si discutono, ma si accettano – lo stravolgimento di quella che è opinione diffusa, testimoniata anche da altri magistrati, in merito al clima che si respirava alla Procura di Palermo di Giammanco, quel “nido di vipere” – così lo aveva definito Paolo Borsellino nel manifestare la propria sfiducia in merito all’operato dell’allora procuratore capo.
A ricostruire quanto riportato in sentenza, il giornalista Roberto Greco, in un ottimo articolo pubblicato su “Gli Stati Generali”:
“Dalla sentenza si evince che, nonostante le lettere aperte di questi ultimi giorni, i detrattori e i minimizzatori, l’elemento acceleratore della strage di via d’Amelio possa essere proprio l’interessamento del dottor Borsellino al dossier “mafia-appalti” e a tal proposito scrive «La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto MAFIA e appalti».
Risulta, inoltre, che i carabinieri del Ros sono sempre stati fedeli allo Stato indicando che «Ed invero, scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato: ossia, da ragioni e interessi del tutto convergenti con quelli della vittima del reato di minaccia a Corpo politico dello Stato» si legge nelle motivazioni. E ancora «Esce dunque confermata, ai fini del giudizio di responsabilità degli ufficiali del R.O.S. la distanza incommensurabile che separa la ricostruzione che questa Corte ritiene suffragata dalle prove raccolte – secondo cui la pur improvvida iniziativa intrapresa attraverso i contatti con Vito Ciancimino ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi – da quella che fa dell’obbiettivo di prevenire ulteriori eccidi solo un effetto collaterale di un disegno finalizzato a salvare la vita di un uomo politico con cui, in ipotesi, intercorrevano opache relazioni di reciproco interesse. Un disegno che si sarebbe sostanziato nell’imbastire, a tal fine, una trama occulta per condizionare influenzare le scelte dell’Autorità politica e di Governo, e rispetto al quale la veicolazione della minaccia di ulteriori stragi sarebbe tutto sommato tornata utile allo scopo».
Seppur con aspre critiche all’operato procedurale dei Ros, la sentenza acclara che, di fatto, non c’è mai stata nessuna reale trattativa tra lo Stato e la mafia. Questo, implicitamente, significa che ciò che non c’è stato non ha potuto essere causa dell’accelerazione della strage di via d’Amelio.
«Per l’insieme queste ragioni e per tutte le altre considerazioni spese in precedenza sul medesimo tema, non può che ribadirsi la conclusione già rassegnata: l’iniziativa intrapresa MORI e DE DONNO con l’avallo (o su input, poco importa)del loro diretto superiore, Generale SUBRANNI, attraverso i contatti con Vito CIANCIMINO in quell’estate del ’92 non fu una mera operazione di polizia, e tanto meno di polizia giudiziaria. Si potrebbe allora sostenere, per spiegare l’apparente schizofrenia delle messe compiute dai Carabinieri, che, non essendo prevedibili gli sviluppi e l’esito della via intrapresa di una trattativa con i vertici mafiosi, anche per l’assenza di una chiara ed esplicita copertura politica in tal senso, si era deciso di percorrere una via parallela – per l’eventualità che quella negoziale non fosse andata a buon fine – e certamente più consona al dovere di un reparto operativo e di investigazione qual era il R.O.S., di combattere e contrastare senza riserve e sconti l’organizzazione mafiosa di quanto non fosse la ricerca un’intesa. Se non fosse che, proprio nel momento in cui la via di un possibile negoziato si era materializzata sotto i loro occhi con la conferma da parte di Vito CIANCIMINO della disponibilità dei vertici mafiosi a trattare e con il logico invito a dire cosa avessero da offrire (in cambio), ecco che gli stessi Carabinieri mostrano di non essere affatto interessati a quel negoziato, perché la loro offerta è solo quella (in sé di misera portata) di un giusto processo per i boss latitanti che si fossero consegnati (a loro cioè ai carabinieri) e un equo trattamento (qualunque cosa volesse significare tale locuzione) ai loro familiari. L’evidente irricevibilità di una simile offerta costituirebbe la migliore riprova che i Carabinieri non aveva mai avevano avuto la reale intenzione di trattare, che avevano ingannato CIANCIMINO, facendoglielo credere, fino a calare la maschera quando si resero conto che non potevano più reggere il gioco ed era venuto il momento rivelare le loro vere intenzioni».
Dall’interessante “affresco storico” fornito dalla Corte emergono, inoltre, diversi spunti per meglio capire come alcuni temi dibattuti con le solite modalità della chiacchierata al bar tra amici, non siano trascurabili e siano stati, troppo spesso, celati come quello sull’operazione che portò all’arresto di Totò Riina, per il quale viene indicato come fondamentale l’apporto del maresciallo Lombardo e si cita quanto Brusca dichiarò di aver sentito pronunciare da Leoluca Bagarella nei confronti di Lombardo quando disse «se sapevo invece di farti suicidare ti sarei venuto a cercare e ti avrei ammazzato io». Questa dichiarazione potrebbe essere una chiara indicazione sulle modalità della morte del maresciallo Lombardo e del possibile movente, inficiando così la ricostruzione, seppur avvallata da un’archiviazione, che ritiene si sia suicidato”.
Una sentenza che certamente non piace ai “trattativisti”, siano essi magistrati o antimafiosi appartenenti a movimenti, o ancora a quei tanti giornalisti che per anni hanno fatto cassetta vendendo veline di procure e partecipando a show che nulla avevano di giornalistico.
Quello che invece lascia perplessi – e non poco – è quell’antimafia che aveva preso le distanze dagli showman, che oggi sembra non trovino il coraggio di intervenire.
“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!”
Forse alcuni si sono fermati alla pubblicità dei frollini – ottimi, per carità – che una volta inzuppati nel latte tendono a dissolversi.
Ben diverso, per coraggio e nella sostanza, l’Avv. Fabio Trizzino, difensore legale dei figli di Paolo Borsellino, nonché genero del Giudice ucciso in via D’Amelio.
Trizzino, senza se e senza ma, con un post su Facebook, ha commentato a caldo la sentenza:
“A chi mi chiede un commento a caldo sulle motivazioni della sentenza trattativa mi limito a rassegnare le seguenti considerazioni.
La ricerca di una verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest.
Più si va avanti più l’area diventa rarefatta e gli ostacoli più potenti, quasi invincibili.
Eppure oggi siamo a 6mila metri di altezza e, fra mille ostacoli, abbiamo guadagnato il campo base. Bisogna riordinare le idee e riacquistare forza ed energie.
La vetta è lì più vicina. La si può quasi toccare. Ma al tempo stesso lontanissima.
Raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari, intoccabili che’ a solo tentare di guardarci dentro, si corre il rischio di essere trasformato in una statua di sale.
Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo definito un NIDO DI VIPERE.
La memoria di un valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.
E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato”.
Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 6.8.2022