«Credo che non possa più essere messo in discussione il tentativo continuo dei capi delle organizzazioni mafiose di strumentalizzare la religione e l’importanza che ha per le popolazioni italiane in genere e ancor più per quelle meridionali. Su questo ci sono tantissime prove accumulate nei processi». È netto il giudizio del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, una lunga esperienza di lotta alla mafia, prima a Palermo e poi alla guida della Procura di Reggio Calabria.
Ci racconti qualche esempio.
«C’è l’intercettazione di un grosso capo mafia di Palermo, di una decina di anni fa, che raccontava l’incontro con un prete che gli aveva parlato del peccato di mafia. E lui si vantava di avergli risposto: “Ma dove è scritto questo peccato?”. C’è anche il commento che due giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II fa un altro importante mafioso siciliano: “Poverino che era. A parte quella che ha fatto quando è venuto qua, un pochettino pesante per i siciliani in generale”. è un termine dialettale siciliano che si potrebbe tradurre come Dunque 12 anni dopo il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento, con la condanna ferma della mafia, ancora ai livelli massimi di cosa nostra se ne dà questo giudizio negativo».
Quindi per le mafie la religione è uno strumento?
«È uno strumento per il dominio che cercano di esercitare. Un esempio sono le feste religiose che, sia in Sicilia che in Calabria, i mafiosi tentano di trasformare in momenti di ossequio per il capo, come riconoscimento del suo potere».
E secondo lei la Chiesa come risponde?
«Le prese di posizione ufficiali ai massimi livelli, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, i documenti dei vescovi, sono di condanna senza appello della mafia, definita come un cancro della società. In mezzo c’è la vita di ogni giorno. Ma soprattutto c’è un atteggiamento diffuso, certamente non trascurabile, anche nella Chiesa così come in tanti settori della società, che dice che tutto sommato la mafia è un problema dello Stato e in particolare del suo apparato repressivo. Ed è molto pericoloso».
C’e una Chiesa troppo silente?
«Dobbiamo prendere atto che ci sono preti come don Puglisi e altri che dicono “non mi riguarda”. Che ci sia una difficoltà anche nella Chiesa in queste nostre società meridionali credo non sia contestabile. Serve una presa di coscienza e che, come diceva don Puglisi, ognuno faccia la sua parte».
Già, se ognuno fa qualcosa…
«… Il mondo cambierebbe. La Chiesa ha un ruolo importantissimo di educazione. La cultura mafiosa si assorbe fin dall’inizio, quando nasci appartieni automaticamente a un clan in lotta con gli altri. In certe realtà si assume col latte materno. E per il suo superamento la Chiesa può avere un ruolo fondamentale».
Servono preti antimafia?
«La Chiesa non deve fare né indagini né processi. Dobbiamo farlo noi, ottenendo condanne e, indirettamente, creando spazi di libertà. Dopo di che ci vuole qualcuno che questi spazi li occupi. E li tenga occupati. In questo sono importanti alcuni esempi di sacerdoti e di associazioni, che sono cresciute negli ultimi anni, gestendo beni confiscati col sostegno del Progetto Policoro della Cei. Combattere la mentalità mafiosa, dare esempi alternativi: tutto questo molti sacerdoti lo fanno e l’augurio è che siano sempre di più».
Alcuni cosiddetti esperti di mafia dicono che il concetto del perdono quasi giustifica i mafiosi…
«È assurdo. Qualche raro caso di mafioso seriamente pentito, non solo ai sensi del Codice, ma pentito nell’anima, c’è stato. Ma i mafiosi in quanto tali non si preoccupano del perdono futuro, ma solo del dominio presente. Nel momento in cui si ordinano reati gravissimi, non credo che i santini o l’appello continuo alla volontà di Dio possa camuffare quella che è la realtà».
Avvenire 19.4.2013