Montante, lo “sbirro” ficcanaso e gli sponsor potenti: le carte dell’Antimafia sul “sistema”

 

Il sistema era una macchina perfetta. Per amici e sodali un generoso dispenser automatico di stimmate di antimafiosità e di “aiutini” per sfolgoranti carriere. Ma chi non si piegava, o più semplicemente chi si faceva troppe domande (e aveva l’ardire di cercare le risposte), subiva la punizione più subdola. E alla fine – dopo essere stato spiato, delegittimato con dossier o magari rimosso con la complicità di sodali altolocati – «è destinato a soccombere», come scrive l’Antimafia nazionale nella relazione (bocciata) su Antonello Montante.

Nel documento, rivelato ieri in esclusiva da La Sicilia, c’è una storia-simbolo. Molto più che fra le righe, visto che quasi una cinquantina delle 202 pagine è dedicata allo strano caso del carabiniere ficcanaso. Al secolo il luogotenente Paolo Conigliaro. Uno sbirro di paese, che a un certo punto – proprio nella Capaci diventata simbolo allo stesso tempo dell’orrore di Cosa nostra e della rivolta della Sicilia pulita – incappa in una vicenda molto più grande di lui. Arrivando a chiedere lo scioglimento del Comune perché «in mano a un sistema affaristico, politico e mafioso».

Ma la lettera del carabiniere non uscì mai dal Comando provinciale di Palermo. Perché su Conigliaro scattò l’alert del sistema Montante. Il comandante della locale stazione è stato demansionato, indagato e archiviato a Palermo per diffamazione col giallo di un cd con le chat con i colleghi, processato (e assolto lo scorso 12 ottobre) dalla Corte militare d’appello di Roma e, come racconta in una drammatica audizione a Palazzo San Macuto, «durante una perquisizione» fu «privato degli slip» da chi addosso gli cercava una «fantomatica scheda di memoria».

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Ma cosa aveva fatto di così “grave” Conigliaro? Molte risposte sono nella relazione di Nicola Morra, ex presidente dell’Antimafia, che ha preso molto a cuore – forse troppo, considerata la veste istituzionale – la vicenda. La maggior parte dei guai del luogotenente sono legati all’indagine sulla costruzione di un centro commerciale a Capaci, nell’area ex Vianini. Una vicenda che per l’Antimafia è «caratterizzata da vistose anomalie e da condotte opache da parte di alcuni amministratori del Comune di Capaci e della Regione».

Il terreno, circa 30mila metri quadri, è di proprietà della Pr Srl, la cui rappresentante legale è Angela Pisciotta. Ma l’azienda ha numerosi link che portano altrove. Il più evidente è che una quota del 30% è di Massimo Romano, il “re dei supermercati”, storico sodale di Montante e coimputato al processo di Caltanissetta. E la stessa Pisciotta, annota la relazione della commissione, «non è lontana dal sistema confindustriale»: fu lo stesso paladino antimafia, da presidente di Unioncamere Sicilia, a nominarla alla CamCom di Palermo-Enna.

Per portare a compimento l’affare del centro commerciale (per il quale c’era già un accordo con Eurospin) occorre però una deroga rispetto allo status di area artigianale. Ed è a questo è punto che, oltre a una serie di pressioni politiche e intrecci consiliari, sul palcoscenico compare un altro personaggio-chiave: Francesco Agnello. Potente avvocato d’affari palermitano, noto in Sicilia per il ruolo di “facilitatore” degli affari del gruppo Falck, fu indagato per concussione (e prescritto) nell’inchiesta di Sesto San Giovanni sulle presunte tangenti al dem Filippo Penati. Agnello è legatissimo al cerchio magico politico-confindustriale degli anni d’oro. Socio di Ivan Lo Bello in “Sviluppo Messina”, una delle tante società gemelle nate per favorire l’insediamento della grande distribuzione (soprattutto coop rosse) in Sicilia, Agnello è in affari con Montante nella Stazione Lolli.

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Dei legami del faccendiere palermitano parla anche Vincenzo Conticello, ex titolare dell’Antica Focacceria San Francesco, poi assunto alla Regione perché testimone di giustizia, in un verbale reso ai pm di Caltanissetta nel marzo del 2018. I magistrati gli chiedono se Agnello abbia uno sponsor politico e lui risponde: «Non ne sono certo, ma ritengo che lo avesse e che si trattasse dell’onorevole Lumia, perché frequentavo il suo studio (…) e in molte occasioni incontrai nel suo studio Agnello». Conticello racconta anche di una cena romana (il giorno in cui il paladino antimafia fu ricevuto dal Papa…) con Montante, Lo Bello e Agnello, presenti Emma Marcegaglia e un altro avvocato palermitano «che se non ricordo male si chiama Piazza». E taglia corto: «Per me Agnello è prestanome di Montante».

Ed è proprio il “Mister Wolf” a trattare l’affare di Capaci in prima persona: incontri al Comune, appuntamenti fissati all’assessorato regionale al Territorio per sbloccare l’iter. Ad alcuni di questi, partecipano gli sherpa del prestigioso studio Pinelli-Schifani, fondato dall’attuale governatore Renato Schifani che poi, annota l’Antimafia, venne «lasciato dall’ex presidente del Senato per farvi operare i suoi congiunti».

La commissione traccia alcune anomalie nella condotta degli avvocati dello studio. La prima è che «nel tutelare gli interessi dell’impresa rappresentata, oltre ad avere usato, in alcuni scritti, “toni alquanto forti” e a sembrare a volte animato da un’attenzione che andava “oltre il legittimo interesse”, era spesso informato, in maniera anomala, anche di dinamiche interne agli uffici dell’amministrazione comunale». La seconda è legata al «comportamento dell’assessorato regionale, molto attento rispetto alle richieste dello studio Pinelli-Schifani, alle cui sollecitazioni sembrava obbligato a rispondere».

Conigliaro annota tutto questo e molto altro ancora. E, quando il 16 maggio 2018 Montante viene arrestato nel blitz “Double Face”, scrive una stringata nota alla Procura di Palermo, per ricordare «il coinvolgimento nell’indagine sia di Michele Massimo Romano che dell’avv. Renato Schifani, vicino allo studio Pinelli-Schifani che assisteva la società P.R. S.r.l., documentando un possibile collegamento tra la vicenda oggetto di quella indagine ed il sistema di potere emerso dall’indagine della procura nissena, all’evidente fine di sollecitare ulteriori approfondimenti».

È l’inizio della fine. A Palermo non ci sarà alcun approfondimento, anzi l’inchiesta sul caso Capaci sarà archiviata in tempi record. E da questo momento, scrive l’Antimafia, l’Arma ritiene «per ragioni tutt’altro che chiare» di non sostenere la rigorosa iniziativa di Conigliaro, che ha dovuto lasciare il comando della stazione di Capaci per un incarico alla Dia di Palermo, dopo l’apertura di un’indagine a suo carico per il reato di diffamazione militare. Dalla quale è uscito fuori pulito. Ma svuotato, delegittimato, isolato. Annientato. Come quasi tutte le vittime del sistema Montante.  

LA SICILIA 4 NOVEMBRE 2022