E Paolo Borsellino diventa il nemico numero uno per i boss mafiosi

 

Ed è altrettanto evidente che, dopo l’eliminazione del giudice Falcone, il dott. Borsellino era divenuto l’obbiettivo primario, anche, ma non soltanto, per il valore simbolico associato alla sua figura; ed era lui stesso il primo, come s’è visto ad averne consapevolezza.

Sicché l’assunto secondo cui un intervallo di 57 giorni era troppo breve per non tradire qualche evento sopravvenuto medio tempore che imponesse di affrettare i tempi, potrebbe essere rovesciato nel suo esatto contrario: era un intervallo di tempo anche troppo lungo, se è vero, come pure è provato, che Cosa nostra aveva la capacità e i mezzi per sferrare un secondo micidiale colpo contro colui che, nell’immaginario mafioso, ne era divenuto, dopo la morte di Falcone, “il nemico numero uno”.

Le dichiariazioni di Cancemi e la “fretta” di Riina

E allora ciò basterebbe a spiegare la fretta che secondo Cancemi trapelava dai toni perentori con cui Riina, in quella riunione (ristretta) che il dichiarante colloca nell’ultima decade di giugno ‘92, e nel corso della quale si ripeté il nome di Borsellino tra gli obbiettivi da colpire, ebbe a rammentare a Faluzzo (cioè a Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa della Noce, i cui uomini sarebbero stati poi impiegati nelle attività preparatorie e poi nel pattugliamento delle zone di interesse per l’esecuzione del delitto) che “la responsabilità è mia”, alludendo alla necessita di procedere senza indugio all’uccisione di Borsellino «E quindi io mi ricordo in quella riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, quindi la cosa più forte che mi è rimasto è che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là, con Riina e io c’ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: “Questo ci… ci vuole rovinare a tutti”, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino […] Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva.., io avevo intinto questo, che il Rima questa cosa la doveva.., la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno».

Lo stesso Cancemi dà, di quella premura, una lettura diversa e non del tutto, anzi, per nulla convergente con le conoscenze sciorinate da Giovanni Brusca circa ragioni e finalità che accomunavano le due stragi. Ma anche l’espressione testuale profferita da Riina e che tanto aveva impressionato Cancemi (“La responsabilità è mia”) poteva essere, molto più semplicemente, un modo per tagliare corto, rispetto alle perplessità magari anche solo tacitamente manifestate dal Ganci, facendogli presente che era sua la responsabilità di quella scelta (cioè di agire subito) e quindi non c’era da discutere.

Di contro, attendere per un tempo indefinito avrebbe diluito l’effetto di sgomento e smarrimento prodotto dalla strage di Capaci, consentendo sia all’opinione pubblica che allo stato di assorbire il colpo; e dando al Governo e agli apparati di polizia il tempo di serrare le fila e attrezzarsi per una risposta adeguata, con la conseguenza di rendere più difficoltosa l’esecuzione della nuova strage e meno efficace il suo effetto intimidatorio.

È plausibile poi che lo straordinario successo (“successo” ovviamente per i mafiosi) dell’impresa di Capaci, e la debolezza della reazione da parte dello stato che è attestata dalle polemiche esplose fin dalle prime ore successive all’eccidio di via D’Amelio (che porteranno a indignate proteste e denunce di gruppi politici, associazioni della società civile, organizzazioni sindacai, semplici cittadini, oltre a varie iniziative di protesta dei magistrati: v. infra) e che sono documentate dalle cronache del tempo, abbiano concorso, unitamente alla sicurezza che derivava ai corleonesi dall’impunità immancabilmente seguita ai tanti delitti eccellenti, stragi comprese, che avevano commesso in precedenza ed anche in anni non lontani, a rafforzare la convinzione e la previsione di Riina — una previsione che i fatti si sarebbero di lì a poco incaricati di smentire — che un secondo mortale colpo, lungi dal provocare una reazione veemente da palle dello stato, ne avrebbe stroncato ogni velleità di resistenza alla violenza mafiosa e lo avrebbe ridotto in ginocchio, ancora di più di quanto non lo fosse già dopo Capaci.

Insomma, se di una guerra si trattava, bisognava incalzare il nemico fino a quando non avesse ceduto, o almeno non avesse manifestato segni di cedimento mostrandosi disponibile a negoziare la pace. Proprio come recitava il proposito che, parafrasando il noto brocardo latino, Filippo Malvagna attribuisce a Riina e che riassume l’essenza della strategia stragista ordita dai corleonesi: qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace (frase che suona come un’evidente parafrasi del noto brocardo latino, facendo persino pensare a un’intelligenza più raffinata di quella di Riina come fonte d’ispirazione e che lo stesso Riina avrebbe pronunziato, secondo quanto il Malvagna dice di avere appreso dallo zio, Pulvirenti Giuseppe, in occasione della riunione della Commissione regionale di Cosa nostra, tenutasi ad Enna all’inizio del 1992).

“Ci volevano i morti”

E le modalità eclatanti di commissione del delitto in questione, tali da provocare spargimenti di sangue, non importa se anche a danno di vittime innocenti, non erano solo funzionali a massimizzare il terrore della violenza mafiosa e dare prova della terrificante potenza di cui Cosa nostra era capace, perché (al contrario di quanto può ritenersi per le stragi in continente) “ci volevano i morti”, per costringere lo stato a trattare: come abbiamo appreso dalla viva voce di Salvatore Riina, nella conversazioni intercettata il 18 agosto 2013 al carcere di Opera […].

Se poi è vero che le previsioni di Riina furono un calcolo sbagliato sull’intensità della reazione che lo stato, ma anche l’opinione pubblica sarebbero stati in grado di opporre alla violenza mafiosa, è possibile che a questo clamoroso errore di calcolo abbiano concorso altri fattori, oltre a quelli già accennati, come la debolezza congenita del Governo Amato e le impegnative emergenze che si trovava simultaneamente ad a fronteggiare.

E tra questi fattori, anche le rassicurazioni che già prima della strage di Capaci sarebbero state date a Riina dai personaggi influenti con cui egli si era incontrato nel periodo di gestazione di quella strage, secondo il breve cenno che ne fece Cancemi nell’interrogatorio del 15 marzo 1994.

Un racconto succinto che non sembra lasciare spazio alla conoscenza da parte dello stesso Cancemi di chi fossero quegli autorevoli personaggi; e che deve quindi vagliarsi al netto di tutti i dubbi sull’attendibilità delle tardive rivelazioni che avrebbe fatto solo alcuni anni dopo, quando indicò i nomi di Berlusconi e Dell’Utri a proposito dell’identità degli autorevoli personaggi del mondo politico e imprenditoriale da cui Riina avrebbe ricevuto la garanzia che si sarebbero impegnati a portare a buon fine le istanze di Cosa nostra. E tuttavia, residua da quel racconto la certezza, condivisa da Riina con i suoi più fedeli luogotenenti proprio in ragione dei rapporti che lo legavano a non meglio specificati personaggi influenti esterni a Cosa nostra, che lo stato non avrebbe reagito.

Anche se, sempre Cancemi, è stato altrettanto chiaro nel precisare che quella convinzione era circoscritta a Riina e a quello che all’epoca poteva definirsi come il suo cerchio magico di capi mandamento più fedeli e sanguinari, mentre tra le fila del popolo d Cosa nostra serpeggiavano dubbi e preoccupazioni: […]. E che una qualche forma di rassicurazione — o più d’una — fossero state date a Riina, e allo stesso Provenzano prima delle due stragi, lo lascia intendere anche Antonino Giuffré’. Questi, all’udienza del 28.11.2013, alla domanda se gli risultasse che Cosa nostra, prima di accingersi a delitti eccellenti come quelli di Falcone e Borsellino, si preoccupasse di verificare le possibili ripercussioni di delitti del genere in ambienti qualificati ed estranei a Cosa nostra, ha dato una risposta eloquente, sottolineando come la commissione di un delitto eccellente, soprattutto quando siano in gioco rilevanti interessi economici che vanno oltre Cosa nostra per investire importanti ambienti imprenditoriali, richiede una preliminare verifica del grado di isolamento (alludendo all’isolamento all’interno delle istituzioni) del soggetto da colpire: «Quando si parla di isolamento degli individui che poi devono essere colpiti, è sotto inteso che c’è tutto un lavoro antecedentemente prestabilito per quanto riguarda un determinato omicidio eccellente.

Appositamente viene sempre più montata la pericolosità non solo nel contesto mafioso, ma in oggetto a questi discorsi che, in modo particolare stiamo parlando di interessi economici che vanno oltre gli interessi di Cosa nostra, che vanno nel mondo imprenditoriale, diciamo che è un discorso portato avanti di isolamento, di delegittimazione da parte degli interessati, quali il dottore Falcone, il dottore Borsellino o anche altri delitti più o meno eccellenti. C’è un discorso di isolamento e poi vengono… quando si reputa che questo lavoro è stato fatto bene, viene eseguita la sentenza».

“Sondaggi preliminari” con persone importanti

Ma ancora più esplicito era stato al “Borsellino quater”, parlando di sondaggi preliminari, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino, scrivono i giudici del Borsellino quater richiamando le dichiarazioni di Giuffré, erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra, facendo lucRosi affari con i mafiosi. E non era estraneo a questa “contaminazione” il mondo delle professioni, con le più disparate categorie di persone (come commercialisti, medici, professori e, aggiunge Giuffré, servizi più o meno deviati).

Questi “sondaggi” preliminari suscitarono la convinzione che Falcone e Borsellino fossero personaggi scomodi ed invisi anche alloro mondo, e quindi “isolati” […]: ciò che rendeva più facile colpirli, perché si poteva fare affidamento sul fatto che la loro uccisione non avrebbe scatenato una reazione vibrante. E se nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento, scrivono ancora i giudici del Borsellino quater, attingendo ancora alle dichiarazioni del Giuffré, «La stessa strategia terroristica di Salvatore Rima traeva la sua forza dalla previsione (rivelatasi poi infondata anche a causa della paura insorta in buona parte del mondo politico e della conseguente reazione dello stato) che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla normalità. L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento. che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino. e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». D’altra parte, se tra gli obbiettivi perseguiti da Riina, per quanto potesse sembrare irrealistico realizzarlo, v’era anche la revisione delle condanne del maxi processo, e più in generale un ammorbidimento delle misure di contrasto alla mafia, sarebbe stato arduo che il Governo o singoli esponenti politici potessero caldeggiare proposte di modifiche del quadro normativo a favore di Cosa nostra fino a quando fossero rimasti in vita Falcone e Borsellino, con il loro carisma e la loro ferrea volontà di portare avanti senza cedimenti di alcun genere la lotta alla mafia. Motivo di più per legare l’uccisione di Borsellino in rapporto di consecuzione logico-temporale a quella di Falcone, nel senso che il successo della strage di Capaci non sarebbe stato pieno se e fino a quando alla morte di Falcone non avesse fatto seguito quella di Borsellino.

 


Le ultime settimane prima della strage, l’atto di accusa di un giudice solo

Detto questo, deve però concedersi che, nei giorni e nelle settimane successive alla strage di Capaci, e fino a quell’ultima decade di giugno-primi di luglio cui può farsi risalire l’avvio sul piano operativo dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio, sono certamente avvenuti fatti e maturate circostanze che potrebbero avere vieppiù corroborato il convincimento di Riina e dei capi corleonesi a lui più vicini che non vi fossero motivi validi per procrastinare ancora la concreta esecuzione di una deliberazione di morte che era stata da tempo adottata nei riguardi del dott. Borsellino; e che anzi fosse il caso di procedervi senza ulteriore indugio.

S’è detto delle ripetute esternazioni, sia pure in ambienti ristretti e legati al circuito delle sue relazioni professionali, del suo interesse per l’indagine mafia e appalti, culminato con l’incontro del 25 giugno 1992 alla caserma Carini con Mori e De Donno (per organizzare il quale s’era adoperato il suo più stretto collaboratore dell’epoca, l’allora M.llo Canale, che poi sarà processato — e assolto — per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa).

Ma già era stato motivo di allarme per Cosa nostra il trasferimento del dott. Borsellino alla procura di Palermo, a partire da gennaio, con l’incarico di procuratore Aggiunto e l’immediato inserimento — che ne aveva costituito la ragione principale della domanda di trasferimento — nella Dda che era stata istituita con D.L: 20 novembre 1991, n. 367, conv. con modificazioni in L. 20 gennaio 1992, n. 8 (“norme di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”): essendo le Direzioni Distrettuali Antimafia una sorta di pool di magistrati, previsto dalla legge e istituito presso le Procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto cui veniva attribuita in va esclusiva la competenza per i reati di c.o., dei quali quindi il dott. Borsellino non avrebbe più potuto occuparsi restando alla procura di Marsala.

E sebbene dal procuratore Giammanco egli avesse ricevuto la delega ad occuparsi solo dei procedimenti per reati di mafia commessi nei territori di Trapani e Marsala, competenza poi estesa anche al territorio di Agrigento e Sciacca (che meglio conosceva in ragione della sua pregressa attività come procuratore capo a Marsala) egli non aveva tardato ad imporsi come punto di riferimento per le indagini nel settore della criminalità organizzata, in ragione del prestigio e della competenza e delle conoscenze acquisite già come componente del pool che aveva istruito il maxi processo, sia all’interno dell’ufficio – soprattutto per i colleghi più giovani – che all’esterno.

La morte di Falcone, come già accennato, lo aveva automaticamente caricato, anche nell’immaginario collettivo, del ruolo di suo naturale erede nella lotta alla mafia. E lui stesso non aveva fatto mistero della sua determinazione a proseguirne l’opera, e a venire a capo della causale della sua uccisione, partendo proprio dai filoni d’indagine che avevano maggiormente assorbito l’attenzione e l’impegno di Giovanni Falcone negli ultimi periodi di servizio alla procura di Palermo, prima di trasferirsi al ministero di Grazia e Giustizia a Roma per andare a dirigere l’ufficio della direzione generale Affari penali.

L’erede di Giovanni Falcone

A questo fattore di sovraesposizione si aggiunse una sorta di investimento istituzionale sulla sua figura. Il 28 maggio ‘92, in occasione della presentazione dell’ultimo libro del sociologo Pino Arlacchi (La mafia imprenditrice) in una nota libreria di Roma, l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti espresse il convincimento che Paolo Borsellino fosse il candidato più idoneo a ricoprire la carica di procuratore Nazionale Antimafia.

E il ministro della Giustizia Martelli fece anche di più, chiedendo al C.S.M. di riaprire i termini per la presentazione delle candidature a quell’incarico, per consentire la partecipazione al concorso di quei magistrati che, essendo ancora in vita Falcone, avevano ritenuto di non presentare domanda perché convinti che la candidatura di Falcone fosse la migliore.

Borsellino si affrettò a declinare l’incarico, ma lo fece con lettera privata — contro il parere di alcuni colleghi a Lui particolarmente vicino che gli avevano segnalato con viva preoccupazione il surplus di pericolo che poteva provenire da quella pubblica investitura e perciò gli avevano consigliato di rendere pubblico il suo rifiuto – lettera che però venne resa nota dallo stesso Scotti solo dopo la morte del magistrato.

Nel frattempo, in un crescendo che non sfuggì all’attenzione dei colleghi che gli erano più vicini, e compatibilmente con i ritmi frenetici di lavoro che si era imposto, il dott. Borsellino, nelle settimane successive alla barbara uccisione dell’amico e collega Falcone, in deroga al rigoroso riserbo cui si era in precedenza attenuto, non aveva lesinato esternazioni in pubblico sui temi della lotta alla mafia, denunciando, a partire dall’isolamento e dagli ostacoli frapposti anche all’interno dell’ambiente giudiziario che avevano amareggiato l’ultimo periodo di servizio di Falcone quale procuratore Aggiunto, le vischiosità e le connivenze annidate all’interno delle istituzioni.

Ne fanno fede le dichiarazioni rese nel corso dell’audizione dinanzi il Csm e versate in atti dalla dott.ssa Sabbatino, all’epoca magistrato in servizio alla procura di Palermo e legata da personale amicizia a Paolo Borsellino […] La stessa dott.ssa Sabbatino precisava però che Paolo Borsellino aveva cambiato bruscamente atteggiamento dopo che, sul giornale di Sicilia del 30 giugno 1992 erano state estrapolate alcune dichiarazioni che aveva reso nella precedente intervista a proposito dei contrasti insorti tra Falcone e Giammanco: forse proprio perché in quell’articolo, che, a partire dal titolo (“Non fu per i contrasti con Giammanco che Falcone andò via dalla procura”) dava risalto a quelle dichiarazioni, benché avessero impegnato una parte minima dell’intervista, era stato travisato il suo pensiero al riguardo; o forse perché sempre più assorbito dal lavoro e consapevole di avere i giorni contati, o perché timoroso di partecipare a eventi pubblici, per essere lui stesso una fonte di rischio per chi gli stesse vicino: “Fatto sta che da allora, Paolo, e dopo questa pubblicazione anche falsata dell‘intervista che avviene poi il 30 giugno, non interviene più da nessuna parte, nessun incontro, proprio cambia totalmente atteggiamento, a differenza del primo mese successivo alla strage di capaci, in cui era presente ovunque, lui approfittava anche di una commemorazione in una chiesa per parlare… ovunque, lui non parla più, in pubblico non dice più titilla e mi disse che quello era un momento particolare e che aveva in corso indagini delicate, quindi io, mi parlò di alcuni pentiti, siamo nei primi giorni di luglio…”.

Ma quel ritrarsi da esternazioni in pubblico poteva anche spiegarsi con la preoccupazione di non dare la stura a polemiche che avrebbero potuto danneggiare le indagini, che erano la cosa che più gli premeva in quel momento, e che registravano un’eccezionale intensificazione del suo impegno di lavoro: […].

Le ultime interviste di Borsellino

Ma soprattutto, con interviste rilasciate ai giornali, o la partecipazione a eventi pubblici (almeno fino a quando non si inabissò, secondo il ricordo della dott.ssa Sabbatino nel lavoro di indagine), Paolo Borsellino aveva fatto appello alla coscienza dei cittadini, e al comune desiderio di libertà per sensibilizzare le forze sane della società civile a ribellarsi alla prepotenza mafiosa; e questo impegno, intensificatosi proprio nel mese di giugno, di pubblica di sensibilizzazione della collettività siciliana e nazionale sui terni della lotta alla mafia, ne aveva implementato la statura di figura iconica ed erede di Falcone nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.

Al contempo, egli aveva ripetutamente e pubblicamente manifestato il proposito di impegnarsi concretamente a fare luce sulle vere ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare l’attentato di Capaci — come ricorda Giovanni Brusca, non occorrevano talpe o fonti confidenziali per venire a conoscenza di tale proposito, perché il dott. Borsellino lo gridava pubblicamente – dopo che era stato commesso un delitto come l’omicidio Lima, che, in una valutazione condivisa da Borsellino con Giovanni Falcone, aveva segnato la rottura violenta, e quindi carica di valenze strategiche, di un atavico e scellerato connubio tra l’organizzazione mafiosa e uno dei più potenti ed influenti esponenti politici siciliani, ancora accreditato del ruolo di leader della corrente andreottiana in Sicilia.

E se aveva rinunciato a chiedere di essere applicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta per seguire direttamente le indagini sulla strage, già incardinate presso quell’Ufficio giudiziario, tuttavia, come puntualmente evidenziato dai giudice del “Borsellino ter”, «Borsellino aveva manifestato pubblicamente la propria volontà di collaborare a quell’inchiesta. riversando sui magistrati che ne erano titolari il cospicuo patrimonio di conoscenze che gli derivava sia dalla esperienza professionale che dalle confidenze raccolte da Falcone in occasione dei frequenti ed anche recenti incontri con lo stesso. Tale intento Borselino aveva, ad esempio, esternato in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, comunicando il proprio rammarico per non poter seguire direttamente l’indagine perché in ciò avrebbe “trovato un lenimento al mio dolore, così come era successo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile” ed asserendo che sarebbe comunque andato a Caltanissetta “come testimone” per riferire al procuratore “fatti, episodi, circostanze, gli ultimi colloqui avuti con Falcone”».

Il discorso di Casa Professa

In alcune delle sentenze versate in atti sono riportati ampi stralci del toccante discorso pronunciato dal dott. Borsellino la sera del 25 giugno 1992 in occasione della commemorazione della morte di Falcone tenutasi all’atrio della Biblioteca Comunale (Casa Professa) a Palermo.

In tale occasione, egli tra l’altro ribadì la propria convinzione di essere in possesso di concreti elementi probatori che avrebbero potuto contribuire a fare luce sulla strage di Capaci; e di essere pronto a rappresentare, nella veste di testimone, alla competente A.g. non già ciò che pensava, ma ciò che sapeva sui fatti sottesi al tragico evento sfociato nella morte di Giovanni Falcone («In questo momento inoltre, oltre a magistrato, io sono testimone, sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza cli lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto…. degli elementi probatori che porto dentro di me, io debbo per prima cosa rappresentarli all’autorità giudiziaria che è l’unica in grado cli valutare quanto queste cose che io so, non che io penso, che io so, possono essere utili alla ricostruzione dell‘evento che pose fine alla vita di Giovanni Falcone…»).

Non serve spendere parole di commento per significare l’effetto di sovraesposizione prodotti da simili coraggiose esternazioni. Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Se ne inferiva inoltre che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti; ma che era pronto e ansioso di farlo.

Era quindi altresì prevedibile, dopo quelle pubbliche esternazioni cui aveva fatto seguito un immediato e notevole risalto mediatico (v. articolo pubblicato su Repubblica del 27 giugno, dal titolo “L’atto di accusa di Borsellino”) che quanto prima sarebbe stato finalmente sentito da magistrati nisseni nella veste di persona informata sui fatti (in effetti, secondo quanto ebbe poi a confermare il dott. Giordano, pubblico ministero di Caltanissetta, il dott. Borsellino doveva essere sentito a inizio della settimana successiva al 19 luglio).

V’è poi traccia in atti di altre interviste ai giornali, non solo locali, (come quella pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno il 3 luglio 1992, sugli scenari mafiosi in atto e l’ipotesi di una crescente anche se ancora latente conflittualità tra i due capi corleonesi, Riina e Provenzano, descritti come due pugili che si fronteggiano su un ring); dell’intervento nell’ambito di “Lezioni di mafia”, registrato presso il centro Rai di Palermo la mattina del 26 giugno e la contestuale intervista rilasciata al giornalista Antonio Prestifilippo, pubblicata su Il Mattino di Napoli (v. ancora audizione della dott.ssa Sabbatino dinanzi il Csm); ed ancora di altra intervista al giornalista Attilio Bolzoni pubblicata su il Venerdì di Repubblica, del 22 maggio, nella quale il magistrato si sofferma sulle peculiarità, legate al ruolo pervasivo della criminalità organizzata, che contraddistinguono, in Sicilia e nel Meridione in genere, i fenomeni di corruzione e concussione o comunque di uso spregiudicato del denaro pubblico che sono diffusi in tutto il territorio nazionale: peculiarità che ostacolano lo sviluppo delle indagini (“Ecco perché a Palermo è più difficile scoprire certi affari: perché incontriamo le stesse difficoltà investigative che troviamo quando indaghiamo su fatti di mafia”).