I tasselli mancanti contro il malaffare

Di Lionello Mancini

 

Cosa impedisce a istituzioni, giurisdizione e sistema delle imprese, di fare fronte comune contro il malaffare? Perché nessuna volenterosa miccia accesa nei diversi campi è ancora riuscita a innescare il definitivo rigetto del Paese verso mafia (specie nei suoi tentacoli grigi) e corruzione, come avvenne con il terrorismo politico? Eppure tutti concordano: il malaffare è disastroso per l’economia e la stessa tenuta democratica. Queste domande non hanno ancora risposta, anche se trovarne è necessario perché «è terribile – per dirla con il politologo Francis Fukuyama – sprecare l’occasione di una crisi».

Sono passati oltre 50 anni dal debutto della prima normativa sulla confisca dei beni, quell’approccio in chiave totalmente antimafia, che avviò l’epoca dell’aggressione alle fortune dei boss, pratica ben più temuta del carcere o della latitanza. A quella legge del 1965 si ispireranno – vent’anni dopo – la legge Rognoni-La Torre (1982) e tutte le disordinate modifiche successive, fino al più organico – ma già insufficiente – Codice antimafia del 2011. Siamo, dunque, concettualmente ancora fermi a un approccio repressivo tout court, dato che le misure incidenti sull’economia sono nate come propaggine necessaria al contrasto ai camuffamenti simil-imprenditoriali dei clan.

Eppure, molte cose sono cambiate (si veda anche «Il Sole 24 Ore» di venerdì 25 settembre): le mafie si sono palesate al di fuori dei loro territori storici, adeguando perciò il loro strumentario; l’infiltrazione riguarda imprese vere, grandi società, grandi appalti, multinazionali, che non è logico definire come semplici emanazioni mafiose, anche se per incuria, ignavia o furbizia hanno fatto incamerare ai criminali denaro, potere, relazioni sociali. Negli anni, è diventato più chiaro il legame mafia-corruzione ed è stato messo a fuoco il peso strategico dell’area grigia. Ed è così che la distinzione tra azienda e singolo contratto, subappalto, ha cominciato a farsi strada.

Ma come? Grazie a chi? E con quali esiti? Tre i soggetti su cui puntare i riflettori. Al legislatore, da troppi anni di qualità discutibile, va riconosciuto il buono di sporadici sforzi meditati, ma addebitato il quadro normativo confuso, nel quale gli strumenti repressivi e di prevenzione (in genere lanciati in attimi di picco mediatico, quindi malamente trasformati in leggi) si sovrappongono, si ingarbugliano, si inceppano e fanno danni alle imprese, senza raggiungere lo scopo.

Secondo soggetto, appunto, la magistratura, cui la discutibile scrittura delle norme affida l’enorme responsabilità di interpretare, estendere o piegare le regole, emettendo sentenze che non valgono solo per il caso specifico ma diventano brutte fotografie di dinamiche e sistemi pressoché sconosciuti. Investiti di questo ruolo, i magistrati non si tirano indietro anche se l’estensione abnorme di tale dinamica finisce per deformare la propria percezione della categoria, cancella il confine tra il ruolo di legge e invasione di campo più o meno involontaria, non stimola gran desiderio di aggiornarsi sulla veloce evoluzione dell’economia, mantenendo buoni principi e pregiudizi ormai insensati

Infine gli imprenditori, cui va dato atto di aver sperimentato, specie in alcune finestre temporali e geografiche, nuovi codici interni per qualificare il sistema e anche di aver lanciato proposte innovative (es. il rating di legalità). Ma, insieme, va loro addebitato un rapporto mediamente sospettoso con le regole, la propensione a lamentarne deficienze e oneri, una insufficiente diffusione di una moderna cultura d’impresa. Risultato: i furbi contano ancora più degli onesti, gli scandali continuano a deflagrare, trova poco spazio il “nuovo”, ben più credibile agli occhi di interlocutori istituzionali e togati. E quanti hanno coraggiosamente tracciato nuovi sentieri, hanno spesso saggiato l’isolamento e la delegittimazione proprio da parte dei possibili alleati.

Onestamente, le responsabilità della situazione odierna vanno ripartite tra tutti gli attori, ancora troppo propensi all’invettiva contro le altrui inadeguatezze e molto meno alla riflessione sui propri limiti e ritardi.

SOLE 24 ORE 28.9.15