Di Lionello Mancini
Inizia tra tre giorni, nell’aula bunker di Rebibbia, il processo a 50 imputati di “Mafia capitale”. I primi arresti – Buzzi, Carminati, Odevaine eccetera – risalgono al 2 dicembre 2014, perciò dopo soli 11 mesi la vicenda è già davanti al tribunale per il primo grado di giudizio.
Tutti dovrebbero compiacersi per la rapida definizione di un caso così grave e invece – mentre il sindaco traballa e i Casamonica celebrano il loro spudorato Pantheon di pregiudicati – c’è chi protesta e organizza scioperi contro le modalità scelte per il dibattimento, affiancato da una quota minuscola, ma non secondaria, di opinion maker da 11 mesi impegnati in una campagna contro i pubblici ministeri, indicati come gli autori di una farsa mediatico-giudiziaria utile solo a restare sotto i riflettori, a scapito di una borghesia capitolina al massimo “colpevole” di maneggi locali (usuali, ancorché milionari), di banalissimi favori ai potenti ricambiati con ovvi nepotismi. Sì, insomma: niente altro dei soliti affidamenti senza gara, favoriti dal lubrificante cash dovuto all’onnivora burocrazia romana. Perché lo sanno tutti, a Roma, che vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. E tu, Procura, più non dimandare.
Ma così, dopo aver fallito nella prevenzione, si corre il rischio di vanificare anche l’occasione per iniettarsi una buona dose di anticorpi offerta dal processo. Perché le torbide pratiche attribuite a delinquenti comuni, amministratori e partiti, ora oggetto di giudizio penale, sono le stesse da decenni.
La novità è solo una: nel porto giudiziario della Capitale si è finalmente diradata la nebbia che faceva incagliare ogni inchiesta ed è ora possibile a tutti osservare da vicino gli intrighi lucrosi a danno dei cittadini romani e del Paese, contare i parenti assunti nelle municipalizzate e – come prima conseguenza – chiudere i circoli di partito “dannosi e pericolosi”. Perciò questo processo senza ossequi né carezzevoli attenzioni è un’occasione per testare un’ipotesi di convivenza civile in cui non trovino posto borseggiatori, pusher, ladri georgiani, ma nemmeno bancarottieri e grandi evasori. Un contesto di garanzia in cui si perseguono le responsabilità per la morte di Stefano Cucchi, si sequestrano i beni mafiosi e si bussa anche all’Anas, all’Inps, all’Ospedale israelitico e – perché no – al Campidoglio. Uno scossone all’albero ormai quasi soffocato dai frutti marciti. Utopia? Forse. Oppure innesco di rilancio, se fuori dall’aula bunker si comincerà (o continuerà) a fare con coscienza ciascuno la propria parte.
L’anomalia che deve destare allarme non è un dibattimento dal calendario serrato o che utilizzi la tecnologia per snellire i tempi, ma lo svuotamento semantico di aggettivi come “legale” o “normale” a opera di spregiudicati maître à penser che non si peritano di salmodiare “in fondo è soltanto la solita corruzione”.
Sarà snobismo irresponsabile, proprio mentre il Paese cerca di ripartire su basi nuove, o pura e semplice difesa degli interessi più retrivi?
Lo sapremo presto. Quando, per esempio, si udranno le prime lamentazioni per il 41 bis rifilato ad alcuni imputati, proprio come ora si odono quelle per il ricorso alla videoconferenza. L’anomalia è che non ci sia ancora vergogna di vivere in un Paese nel quale da Sanremo a Boscoreale, da Bari a Reggio Calabria, centinaia di dipendenti comunali possono rubare lo stipendio sotto lo sguardo assente o impotente di superiori e colleghi. Per non dire dei sabotaggi ai mezzi comunali, dei falsi sugli elicotteri antincendio, dei vergognosi fallimenti sulla raccolta dei rifiuti.
Il processo ai corrotti e ai mafiosi della Capitale non risolverà alcuno di questi problemi. Ma potrà servire a far decidere da che parte stare, su quale piatto della bilancia mettere il proprio sassolino. Le campagne d’opinione più inattuali proseguiranno, magari in nome di princìpi sacrosanti quali il garantismo, la libertà d’opinione, la libertà economica.
Il dibattimento che prende il via giovedì sarà utile se – condanne e assoluzioni a parte – spingerà politici, amministratori, imprenditori, baristi, vigili urbani, venditori ambulanti, a interpretare il loro ruolo con un copione riscritto da capo.
Sole 24 Ore 2.11.15