La testimonianza della figlia minore del giudice Paolo Borsellino a Milano, al Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere
Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia): C‟è una considerazione che faccio spesso in carcere, quando ci occupiamo di temi delicati come l‟ergastolo ostativo e parliamo delle semplificazioni di certa informazione: credo che il nostro lavoro, di persone che cercano di sensibilizzazione la società a partire dal carcere, per la maggior parte sia quello di ricomplicare le cose semplificate e banalizzate da altri. Dobbiamo sempre lavorare su questo: le cose non sono affatto semplici. Ricordo una copertina della nostra rivista, Ristretti Orizzonti, dove Charlie Brown chiede a Lucy: “Tu cosa fai nella vita?”, e lei risponde: “Me la complico”. È il senso di tutto questo nostro lavoro: noi dobbiamo lavorare per uscire dalle semplificazioni e ricostruire un pensiero complesso. È una fatica enorme. Il bisogno di ricostruire un pensiero complesso è una cosa che si capisce ancora di più rispetto a fenomeni come la mafia e a vicende come l‟inchiesta e i processi relativi all‟attentato a Paolo Borsellino.
La testimonianza di Fiammetta Borsellino
Io farò un intervento meno tecnico anche perché sono qui per condividere la mia storia personale. Vedo che ci sono dei ragazzi così intanto mi presento.
Io sono Fiammetta Borsellino e sono la più piccola dei tre figli di Paolo Borsellino.
Mio padre è stato trucidato in un vile agguato, avvenuto ventisette anni fa in Via D‟Amelio a Palermo, un agguato di tipo terroristico-mafioso perché Paolo Borsellino muore, insieme ai cinque agenti della sua scorta, per l‟esplosione di un‟autobomba. Mio padre era un uomo, un uomo che era andato a trovare sua madre, un uomo che faceva onestamente il proprio lavoro. Io dico sempre che camminava con i calzini bucati e le scarpe aperte, perché era una persona dedita al lavoro e poco attenta alle forme.
È morto perchè ha dedicato la sua vita alla ricerca della verità, alla liberazione di un popolo dalla schiavitù, la schiavitù mafiosa. Ma è morto anche perché è stato lasciato solo, solo da uno Stato che probabilmente, anzi sicuramente, doveva proteggerlo.
Uno Stato che a volte rema contro, perché il male non è soltanto quello di chi spara o impugna una pistola.
Una forma di male sono anche tutti quegli aspetti di complicità e di contiguità tra le organizzazioni criminali e determinati apparati dello Stato o potentati economici, o della politica.
Ma al di là di questo è importante capire proprio come la cultura dell‟emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, abbiano dato luogo a quello che è il grande inganno di via D‟Amelio. Ovvero un percorso di verità che è stato disatteso già dalle prime ore successive all‟eccidio.
Una storia di orrore e di menzogne che ha dato luogo a innocenti condannati all‟ergastolo e falsi pentiti costruiti a tavolino tra lusinghe e torture, e a una serie di indagini e di processi caratterizzati da gravissime anomalie.
È un ennesimo scempio fatto sul cadavere di mio padre, ma anche un‟offesa all‟intelligenza, non soltanto della nostra famiglia, ma anche dell‟intero popolo italiano.
Perché questo depistaggio, così l‟ha definito la sentenza conclusiva del Borsellino quater, cioè il quarto processo sulla strage di via D‟Amelio (ce ne sono voluti ben quattro di processi per arrivare ad un barlume di verità), è stato uno dei depistaggi, se non il depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo Paese.
È una storia dove la verità, dopo che sono passati tanti anni nella costruzione di falsi castelli, è una verità che appare enormemente compromessa, perché, mai come oggi, la ricerca della verità è strettamente connessa alla ricerca delle ragioni della disonestà di chi questa verità doveva cercarla.
È un processo fatto male che è stato originato da tantissime cause, come sicuramente l‟ansia di trovare immediatamente dei colpevoli, e dal non saper andare contro una scia che si percorreva in quel momento, anche se era una scia sbagliata.
Anche il giornalismo non è stato di sicuro un giornalismo di vigilanza, perché fin dall‟inizio non si è mai voluto parlare di questo processo, soprattutto del Borsellino quater, dove sono emerse tutte le false verità e le anomalie.
Non se n‟è voluto parlare perché quello che a mano a mano andava emergendo era così pesante ed era così grave che si è preferito voltarsi dall‟altra parte.
Per questo motivo nel 2017, quando la Corte d‟Assise di Caltanissetta ha pronunciato il verdetto, ho deciso che non si poteva più stare in silenzio: ho cominciato a studiare il processo, a guardare le carte.
Una cosa complicatissima, perché è un pasticcio di proporzioni enormi, il peggio forse che si poteva fare per onorare la morte di un servitore dello Stato. Così ho cominciato a parlarne.
Oggi ci sono delle indagini in corso per cui io non posso entrare nel merito degli attuali aspetti investigativi e processuali perché, a seguito della sentenza del Borsellino quater, che non poteva essere un punto di arrivo ma un punto di partenza per lo sviluppo di ulteriori indagini, sono attualmente indagati tre poliziotti dalla Procura di Caltanissetta che facevano parte del gruppo investigativo Falcone e Borsellino e due magistrati della Procura di allora.
Ci sono stati indagini e processi fatti male, che hanno sfruttato la debolezza delle persone. Il processo è stato costruito intorno alla figura di questo falso pentito Scarantino, una persona che è stata subito classificata come mafiosa, ma che era un semplice venditore di sigarette di contrabbando e un posteggiatore abusivo.
Esattamente quello che si meritava una strage come via D‟Amelio. Questa persona è stata determinata alla calunnia da coloro che lo gestivano, questo dice il Borsellino quater.
Coloro che lo gestivano, secondo il nostro ordinamento, sono le forze dell‟ordine, ma anche i magistrati che coordinavano le attività. Questa persona è stata determinata alla calunnia, nonostante la sua evidente inattendibilità: era una persona che continuamente accusava e ritrattava, era una persona che, sin dalle prime dichiarazioni, manifestava delle avvisaglie di inattendibilità. Nonostante questo si è voluto andare avanti con metodi a volte contrari alla legge.
Venivano fatti anche sopralluoghi.
Io cito sempre, per esempio, il sopralluogo che avvenne fra il 29 e il 30 luglio 1992 al garage Orofino, il garage dove Scarantino diceva di avere custodito la 126.
Ma Scarantino non conosceva neanche le modalità di apertura della saracinesca.
Ebbene, di questo sopralluogo non è stata fatta una verbalizzazione, né mai nessun magistrato ne ha fatto richiesta. Non sono stati fatti confronti che sarebbero stati importantissimi, quelli tra i pentiti che si autoaccusavano tra di loro e si rincorrevano per far convergere le loro dichiarazioni in un‟unica versione.
Parlo dei tre falsi pentiti Scarantino, Candura e Andriotta. Non furono depositati confronti importantissimi fra Scarantino e mafiosi doc, come Cancemi o Di Matteo, il padre del piccolo Giuseppe Di Matteo, e La Barbera, confronti dove questi mafiosi non riconoscevano la persona che avevano davanti.
Tante anomalie, come appunto la gestione di Scarantino, non da parte del servizio centrale di protezione come solitamente avviene, ma direttamente da parte del gruppo Falcone Borsellino, e tanto altro.
Mancate testimonianze fondamentali come quella dell’allora procuratore Pietro Giammanco che era il procuratore capo quando mio padre morì, e con il quale mio padre da sempre aveva avuto dissidi, perché mio padre aveva chiesto di ritornare da Marsala a Palermo proprio per occuparsi della mafia palermitana, ma questa delega gli fu sempre negata.
Gli fu concessa in maniera molto singolare il 19 luglio, proprio il giorno della strage.
Con una telefonata alle sette del mattino, non giustificata sicuramente da rapporti sereni, Giammanco si preoccupò di informare mio padre di questa delega.
Io, facendo un passo indietro, dico sempre che l‟archiviazione del dossier mafia appalti era già stata architettata e pensata, l‟archiviazione di quel dossier a cui mio padre teneva tanto.
Questo è dimostrato da tante cose, come le riunioni che lui volle e chiese alcuni giorni prima del 19 luglio. E dal fatto che il dossier fu archiviato esattamente due giorni dopo la sua morte.
Un depistaggio che si compie anche nei cinquantasette giorni intercorrenti tra la morte di Giovanni Falcone e la morte di mio padre. Quei cinquantasette giorni in cui mio padre dichiarava e chiedeva di poter parlare con la Procura di Caltanissetta perché diceva di sapere delle cose sulla morte del suo amico e collega. Però lui non fu mai sentito da quella Procura, la stessa Procura che pensò bene di individuare un magistrato, un tale Vaccara, che non aveva mai avuto niente a che fare con la mafia, e di chiedergli di venire a Palermo, proprio per pedinare mio padre e cercare di capire cosa sapeva.
Un depistaggio che inizia anche con la formazione di una Procura assolutamente inadeguata a quella che era l‟entità della strage, una Procura retta da magistrati che non si erano mai occupati di mafia. Parlo di quello che hanno dichiarato la dottoressa Palma e il dottor Petralia, indagati nel Borsellino quater.
Magistrati che non si erano mai occupati di mafia e magistrati inesperti.
Penso all‟allora giovane Antonino Di Matteo che, lo voglia o no, cominciò ad occuparsi delle indagini già dal novembre del „94. Lungi da me voler fare una battaglia che cerchi di focalizzare l‟attenzione solo su alcuni responsabili, per quello ci saranno le indagini dell‟autorità giudiziaria a stabilire se ci sia stato dolo, colpa grave o soltanto irresponsabilità.
Quello non lo so. Trovare dei responsabili oggi non mi fa stare meglio, come non mi fa stare meglio che ci siano dei mafiosi come Filippo e Giuseppe Graviano, da anni chiusi in carcere nel loro mutismo. Mi farebbe stare meglio l‟assunzione di una responsabilità che passa attraverso il riconoscimento degli errori.
Passa e può passare, ma non è detto, dal dare un contributo di onestà per la ricerca della verità che oggi penso sia qualcosa che non riguarda soltanto la nostra famiglia.
Penso che ognuno di noi se ne debba fare carico, non delegando solo alla magistratura questo compito, o alle Istituzioni, delle quali, nonostante tutto, bisogna avere fiducia. Se oggi si sa qualcosa sulle stragi di via D‟Amelio è perché ci sono delle Procure che stanno lavorando e stanno lavorando bene, con problemi enormi, perché spesso il tempo perduto è difficile da recuperare: i maggiori risultati investigativi si hanno nelle ore, negli anni immediatamente successivi alle stragi. Ma non per questo bisogna perdere fiducia nelle Istituzioni perché significherebbe disattendere la vera eredità morale che ci ha lasciato nostro padre.
Lui è morto per lo Stato, era un uomo di Stato che ha cercato di difendere fino alla fine l‟idea di uno Stato onesto, di uno Stato che si allontana da quella erronea concezione della vita come esercizio del potere. Il potere crea soltanto distruzione, crea soltanto morte.
Queste persone che hanno dedicato, che hanno sacrificato la loro vita per il lavoro in cui credevano, ci hanno insegnato che nella vita è importante dire apertamente da che parte stare, se stare dalla parte di coloro che ammazzano, che opprimono, che intrallazzano, o dalla parte invece di coloro che si prodigano per gli altri, per il bene comune e il rispetto del prossimo.
Questo è stato l‟atteggiamento che ha ispirato la vita di mio padre, che non era una persona che lavorava con aridità burocratica, non era un mero applicatore di leggi. Io dico sempre che i migliori successi li ha avuti perché lui, prima che al mafioso, si rivolgeva all‟uomo, a volte anche contravvenendo alle regole. Lui ha cercato sempre di capire l‟uomo.
Mio padre diceva sempre che per combattere la mafia devi prima conoscere i mafiosi, devi prima riconoscere il mafioso che è in te, per poterlo poi affrontare.
Questi uomini, rispetto a determinati mafiosi, si misero in una condizione di apprendimento. Falcone diceva che Buscetta gli insegnò a parlare con i mafiosi passando dai gesti alle parole.
Questo mi sembra un insegnamento molto importante. Senza dilungarmi, questo è quello che mi ha portato a trovare un momento di incontro, anche in un modo abbastanza inconsapevole. Era una strada che ho voluto percorrere senza sapere molto dove poteva andare a finire.
Quel momento di incontro con Filippo e Giuseppe Graviano, che sono appunto i mafiosi della cosca di Brancaccio che sono stati fra gli autori della strage.
Fiammetta Borsellino: Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo. Loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo.
Sicuramente io non sono una esperta in questo settore, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso.
Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull‟onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale.
Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni.
Il problema è un problema molto complesso, che va letto in relazione all‟attuale disastrosa condizione delle carceri italiane.
Bisogna evitare le semplificazioni perché le semplificazioni come “la mafia ha perso” o “la mafia ha vinto” o anche “la mia antimafia è migliore della tua”, fanno male.
Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e sono convinta che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quella giusta, quella che va incontro a quell‟altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre.
Fiammetta Borsellino: Non ho fatto nessuna di queste dichiarazioni.
A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l‟altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l‟altro, e questo lo voglio sottolineare, il Consiglio Superiore della Magistratura si sia mai assunto una responsabilità circa l‟avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto.
Fonte: RISTRETTI ORIZZONTI
IL SILENZIO SU FIAMMETTA di Luciano Capone Il Foglio, 30 ottobre 2019 La figlia di Paolo Borsellino elogia la Consulta contro l’ergastolo ostativo. Ma le sue parole non fanno comodo. Non abbiamo la controprova, ma se avesse affermato il contrario le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino sarebbero finite sulle prime pagine di tutti i giornali e in tutti i Tg.
E invece, le parole della figlia del giudice ammazzato dalla mafia a favore delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale contro l’applicazione automatica dell’ergastolo ostativo sono cadute nel vuoto.
Tanti commentatori, inclusi magistrati che hanno occupato o che occupano ruoli di rilievo, hanno contestato le sentenze della Cedu e della Consulta spendendo i nomi di Falcone e Borsellino. Le parole della figlia, evidentemente, non rientravano nella narrazione e per questo sono state ignorate.
Alcuni giorni fa, subito dopo la sentenza della Consulta, Fiammetta Borsellino ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il “depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese” (che è poi proprio ciò che l’ha spinta – dopo la sentenza del Borsellino quater – a esporsi pubblicamente).
Nel suo intervento ha parlato dell’ergastolo ostativo, per commentare le dichiarazioni di alcuni magistrati e le prime pagine di certi giornali secondo cui i giudici di Strasburgo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”.
“Penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato, così come viene fatto in questi giorni, la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo”, ha detto Fiammetta Borsellino.
“Loro ci hanno insegnato che questi sono problemi complessi, non possono essere semplificati in questo modo. Non sono un’esperta in questo settore, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso”, che poi è ciò che ha stabilito la Consulta rinviando a una decisione caso per caso dei giudici di sorveglianza.
E ancora: “Il problema è molto complesso e va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni perché le semplificazioni, come ‘la mafia ha perso’ o ‘la mafia ha vinto’ o ‘la mia antimafia è migliore della tua’, fanno male”.
Fatta questa premessa su come magistrati, giornalisti e professionisti della giustizia dovrebbero porsi di fronte a questioni fondamentali che riguardano il diritto, Fiammetta Borsellino ha detto anche che le sentenze delle supreme corti sull’ergastolo ostativo automatico non vanno contro i princìpi che hanno guidato l’azione di suo padre.
Anzi, vale il contrario. “Sono convinta – ha detto – che il problema andasse affrontato e sono convinta che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quella giusta, quella che va incontro all’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre”.
La figlia del magistrato è stata poi ancora più esplicita quando dal pubblico le è stato chiesto di nuovo se lei condividesse l’idea che, con queste sentenze, la Cedu e la Corte costituzionale avrebbero ucciso di nuovo suo padre.
“A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi – ha risposto – è stato il tradimento di alcuni uomini delle istituzioni che oggi, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Consiglio superiore della magistratura si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto”. Il riferimento di Fiammetta Borsellino ai magistrati che si sono occupati, malamente e proprio a causa della “cultura dell’emergenza”, delle inchieste sulla strage di Via D’Amelio e che distribuiscono patentini di antimafia non è casuale. Come non lo è il silenzio che ha circondato le sue dichiarazioni: avesse detto il contrario, sarebbe finita su tutti i giornali.
“Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico” di Damiano Aliprandi – Il Dubbio, 30 ottobre 2019
Fiammetta Borsellino al Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. “È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie”.
È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano.
Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale – come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla – “è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine”.
Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. “Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo”, ha risposto Fiammetta.
“Sicuramente io non sono una esperta in questo settore – ha continuato la figlia di Borsellino – ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni”.
Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di “un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘la mafia ha perso’ o ‘la mafia ha vinto’ o anche ‘la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre”.
Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita.
Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. “A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto”, ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti.
FIAMMETTA BORSELLINO: «L’ERGASTOLO VA RIVISTO: PIÙ EDUCATORI E MENO AGENTI» La figlia del magistrato ucciso ha partecipato a due incontri in Calabria. Ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», aggiungendo «sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!» Verità, diritto alla conoscenza, depistaggi e difesa dello Stato di diritto. Queste le parole chiave del ciclo di incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus, che si sono conclusi la settimana scorsa e che hanno visto la partecipazione di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992. Nei due incontri, il primo a Catanzaro, alla facoltà di Sociologia e il secondo al Comune di Rende, presso la sala Tokyo del Museo Del Presente, non si è parlato dell’antimafia come di solito avviene nei convegni sponsorizzati dai mass media, dove molto spesso la narrazione non coincide con lo Stato di diritto, evocando teorie della cospirazione che – divenute una spada di Damocle – frenano qualsiasi governo nel rivedere quelle misure emergenziali divenute nel frattempo ordinarie. Si è parlato della ricerca della verità sulle stragi, in particolar modo quella che ha coinvolto Borsellino. Così come sono stati trattati i temi del sistema penitenziario, che assume a volte forme più vendicative che non di reinserimento del detenuto nella società, e del giusto processo, da tutelare perché garantito dalla Costituzione.
La verità sulla strage di via D’Amelio, infatti, è stata insabbiata dal depistaggio certificato, dopo 26 anni, grazie alla sentenza del Borsellino quater. Depistaggio avvenuto non solo per la conduzione delle indagini, ma reso possibile anche grazie l’irritualità dello svolgimento dei primi processi. «ll vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise», ha esordito Fiammetta Borsellino durante il primo incontro. Ma non solo. «Si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre – ha spiegato Fiammetta -, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage».
Ma la causa della morte del padre? Un quesito posto da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, che ha sottolineato come solo pochi giornalisti– incappando in querele – ricordino ad oggi la vecchia storia del dossier mafia- appalti. Fu un’operazione condotta dai Ros e depositata in Procura a Palermo nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Un dossier che poi interessò molto Paolo Borsellino. Ed è la figlia che risponde, ribadendo che la concausa della morte del padre è da ritrovarsi nel suo interessamento sul dossier di mafia- appalti. Ricordiamo che questa indagine è stata presa in considerazione, con sentenza definitiva emessa il 21 aprile del 2006, da parte della Corte d’Assiste d’Appello di Catania. Scrivono, infatti, i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti.
Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale motivazione sarà poi ripresa anche nel Borsellino quater, dove furono acquisite anche le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Falcone e Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno». Nella decisione di eliminare i due magistrati, quindi, aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione del Borsellino quater -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».
Fiammetta Borsellino ha ribadito l’importanza del dossier e ha chiesto lumi sulla richiesta di archiviazione, che fu depositata dopo tre giorni dalla morte del padre. Ha aggiunto la figlia del giudice, a proposito dei giornalisti che vengono querelati, l’importanza del diritto all’informazione e ha approfittato per ricordare che è a rischio la chiusura di Radio Radicale, «perché se non ci fosse stata lei che segue tutti i processi, noi oggi non sapremmo nemmeno di cosa si sta parlando». Fiammetta poi è ritornata su mafia- appalti e ha aggiunto qualcosa di inedito.
Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla Procura di Palermo avente come oggetto anche la questione del dossier mafia- appalti, proprio perché i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò Paolo Borsellino. La figlia, durante il primo convegno alla facoltà di Catanzaro, ha quindi posto una domanda: «Qualcuno tra magistrati e componenti del Csm, saprà dirmi cosa disse mio padre quel giorno?».
Durante il convengo di Rende, parliamo della seconda e ultima giornata del ciclo di incontri, interessante l’intervento del sociologo Ciro Tarantino che parte dalla domanda posta dalla locandina dell’evento “Chi è Stato”, con un duplice significato dal “chi è stato” l’esecutore delle stragi a chi è Stato con la maiuscola. «Gianni Rodari – ha spiegato Tarantino – dava valore cambiando la minuscola con la maiuscola, quindi qual è questa parte di Stato che si è reso responsabile della strage di via D’Amelio?». Il sociologo ha sottolineato che nella storia repubblicana tale domanda si pone inevitabilmente sempre dopo le stragi, esattamente quando si fanno i funerali, appunto, di Stato. «Ed è proprio in quel momento – ha aggiunto – che si verifica lo scarto tra lo Stato ideale che noi vogliamo, da quello reale». Tarantino ha puntato sul diritto alla verità e quindi l’importanza della memoria collettiva. «Gianni Rodari – ha concluso – sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere». Si è affrontato anche il ripristino del 41 bis, così come la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. È intervenuto a tal proposito il presidente della camera Penale di Cosenza, avvocato Maurizio Nucci: «I diritti del soggetto non vengono garantiti, la Costituzione è violata perché viene a mancare il diritto alla speranza». Poi c’è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaha, ha posto delle riflessioni in merito all’ergastolo ostativo e al carcere duro: «Ci sono persone condannate all’ergastolo, a cui è stata rubata la vita al pari delle vittime delle stragi. È necessario un regime carcerario che anche l’Onu considera tortura? Serve ad ottenere la verità?». Fiammetta Borsellino ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», così come ha voluto sottolineare. «Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!», ha affermato Fiammetta. E ha aggiunto: «Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie». La figlia di Borsellino ha così concluso il suo pensiero: «lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve». Damiano Aliprandi il DUBBIO 9.5.2019
Speciale ERGASTOLO OSTATIVO