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Cantù, tacita connivenza con una ‘ndrangheta che vessa e si riappacifica. SENTENZA DI APPELLO. La Corte deposita le motivazioni: “delitti che evocano la forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo”. Piena consapevolezza da parte degli avventori riguardo alla “fama” del gruppo. Guerra interna? Troppo rischiosa per l’organizzazione: preferibile la via della pacificazione.
Non servivano certo due gradi di giudizio per accorgersi che la ‘ndrangheta esiste anche a Cantù. Ma tant’è. Lo scorso 24 ottobre la Corte d’appello di Milano ha depositato le motivazioni della sentenza con cui tre mesi prima aveva confermato, salvo qualche riduzione di pena, le condanne già inflitte dal Tribunale di Como ai presunti ‘rampolli’ della locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense. La gravità dei fatti contestati ha portato i giudici territoriali ad accogliere in sostanza l’ipotesi accusatoria della Dda di Milano, riconoscendo il reato di associazione mafiosa in capo a Giuseppe Morabito, nipote dell’omonimo boss di Africo detto ‘U tiradritto(condannato a 30 anni per associazione mafiosa, droga e armi), Domenico Staiti e Rocco Depretis, rispettivamente zio e cugino di Morabito. Le pene di costoro, sommate a quelle degli altri imputati condannati per reati diversi ma pur sempre con l’aggravante mafiosa, hanno superato in primo grado i cento anni di reclusione.
Nel corso del processo l’accusa ha ricostruito minutamente, ricorrendo anche alle intercettazioni telefoniche e ambientali, quelli che sono stati i fatti e le dinamiche alla base dell’inchiesta.
In sintesi: tra l’autunno 2015 e l’estate 2016, Morabito ed altri presunti affiliati, nel tentativo di prendere il sopravvento (nel modo tuttavia più pacifico e indolore, come si dirà) sugli appartenenti alla famiglia rivale dei Muscatello, avrebbero a poco a poco esteso la loro supremazia sul territorio controllato dalla cellula ‘ndranghetista locale, trasformando la città di Cantù – fido baluardo degli interessi dell’organizzazione – in una vera e propria “terra di conquista”. Al punto di finire per mettere le mani anche sul controllo della vita notturna.
Il modo, per giunta, non poteva essere più devastante: era diventata la prassi – secondo l’accusa – vedere discoteche come la Spazio Renoir venire prese d’assalto, locali come il Grill House tenuti sotto scacco. O vedere clienti (Morabito e i suoi, s’intende) entrare e uscire liberamente senza pagare le consumazioni, o avventori estorcere denaro a baristi e commercianti nella centralissima piazza Garibaldi.
Non è difficile immaginare quale fosse il clima di intimidazione, e di conseguente omertà diffusa, derivato da simili comportamenti di stampo tipicamente mafioso – un clima che si respira tutt’oggi nella città, come abbiamo avuto modo di constatare.
Significativo il ragionamento condotto dai giudici alla luce di quello che si potrebbe definire un “patrimonio diffuso” di sentenze ormai divenuto parte integrante di una corposa giurisprudenza in tema di ‘ndrangheta. La quale è ormai pacificamente riconosciuta come quell’associazione «operante da anni sul territorio di Milano e province limitrofe e costituita da numerose locali, di cui oggi 18 individuate, coordinate da un organo denominato “la Lombardia”», al cui vertice si sono succeduti Cosimo Barranca, Carmelo Novella (ucciso nel 2008) e Pasquale Zappia fino al suo arresto. Tutto ciò viene documentato e accertato nel processo Infinito approdato a sentenza irrevocabile nel 2016. Una ‘ndrangheta, quindi, costituita da una struttura “unitaria”, in cui le singole famiglie risultano mosse non tanto da intenti vendicativi o fratricidi nei confronti dei gruppi rivali, quanto dalla diversa e strumentale strategia della “pacificazione”. Tra le locali dipendenti unitariamente dal crimine lombardo vi è proprio quella di Mariano Comense, dominata per decenni dal capo-clan Salvatore Muscatello, condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione e nel processo Quadrifoglio ad altri 5 anni. La Corte d’appello concorda con il Tribunale sullo scopo del sodalizio criminale ‘ndranghetista: «l’acquisizione e il controllo di attività economiche (esercizi commerciali ubicati nella zona centrale di Cantù), ovvero l’acquisizione di servizi di guardiania attraverso la commissione di una serie di delitti contro il patrimonio e contro l’incolumità della persona». Ovvero, una lunga sequela di fatti di violenza, estorsioni, percosse, lesioni.
Tutti comportamenti contrassegnati, a detta dei giudici, dall’aggravante del metodo mafioso. Di associazione mafiosa si è accertata la sussistenza – si è detto – solo nei confronti di Morabito, Staiti e Depretis. Il percorso argomentativo muove, anche qui, dalla ‘storia’ della ‘ndrangheta lombarda: sin dall’operazione Crociata, «le sentenze fotografano gli equilibri mafiosi nella città di Cantù controllata dalla locale di Mariano comense fino al mese di ottobre 2015 sotto la salda guida di Muscatello Salvatore, classe 1934, che operava attraverso il figlio Domenico, classe 1968, i nipoti Stjven e Salvatore, classe 1989, oltre che naturalmente a Ludovico Muscatello». Le intercettazioni indicano chiaramente la capacità di quest’ultimo, dipendente addetto alla sicurezza del locale Spazio Renoir, di trattare con i clienti morosi nei pagamenti, soprattutto calabresi.
Le vicende esaminate danno inoltre a credere – scrive la Corte – «che non si trattasse di episodi isolati, ma di un’escalation volta a destabilizzare gli equilibri criminali esistenti, ad assumere il pieno controllo del territorio di Cantù». Il che «cominciava ad essere chiaro a partire dal 10/10/2015, quando Muscatello Ludovico nipote del capoclan Salvatore, era pubblicamente gambizzato».
«Una condotta delittuosa – continuano i giudici riportando le parole del gip – specificamente evocativa della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo» di matrice ‘ndranghetista. La quale si evince dal «contesto di una spartizione di potere territoriale sui locali notturni di Cantù», «di lotta per il prestigio criminale» e dalla «scelta di punire Muscatello agli occhi del pubblico presente in strada ed ha gli occhi della cittadinanza di Cantù». Un gesto volutamente scenografico: cos’altro aspettarsi da un’esemplare tipico di congrega mafiosa in cerca di consenso sociale?
Ma c’è dell’altro. La Corte avalla anche la ricostruzione data dal Tribunale circa la piena consapevolezza da parte degli avventori riguardo alla “fama” del gruppo. «Fama fondata non su pettegolezzi e voci correnti nella cittadina di Cantù, bensì su fatti notori dati da precedenti provvedimenti giudiziari dei quali si aveva notizia anche per via degli organi di stampa, e sulla conoscenza dell’appartenenza degli stessi a famiglia gravitante nell’ambito della criminalità ‘ndranghetista o ad un parente in carcere per il delitto di cui all’articolo 416 bis».
Di più. I rapporti che la Corte evidenzia tra Morabito e Muscatello rivelerebbero proprio quel volto “unitario” che fa della ‘ndrangheta un’associazione fondata sul «mutuo soccorso» e sul «rinsaldamento dei legami di appartenenza all’associazione». E ciò «non solo attraverso i summit propriamente detti, ma anche attraverso la frequentazione in occasione di eventi privati, che assume una rilevanza simbolica che trascende il mero ambito familiare». Dopo il fatto della gambizzazione, la famiglia Muscatello non reagisce con una faida, come sarebbe forse avvenuto in passato. La spiegazione secondo la Corte è solo una: «è chiaro che la contrapposizione [dei Morabito, nda] ai Muscatello implica una pari forza e una pari legittimazione derivante dall’appartenenza alla medesima associazione di stampo ‘ndranghetista (…) Una guerra interna sarebbe stata troppo rischiosa per gli interessi dell’organizzazione, risultando allo stato preferibile la via della pacificazione. Si è proceduto così al «riconoscimento della mafiosità del gruppo contrapposto a Salvatore Muscatello», il quale tuttavia ha sempre difeso l’unitarietà della ‘ndrangheta al Nord.
Anche dopo l’«avvicendamento tra Morabito e Muscatello» e il «mutamento dei rapporti di forza interni al gruppo criminoso», il rapporto tra i due soggetti resta sostanzialmente immutato. Perfino dopo l’agguato del 10 ottobre 2015 ad opera dello zio e del cugino di Morabito. Un fatto che mette in luce – secondo i giudici – l’opera di pacificazione e di «accettazione da parte di Muscatello e della di lui famiglia del nuovo potere criminale in capo agli Africoti».
Da tener presente, in proposito, la stessa conversazione intercettata ambientalmente tra Muscatello e Morabito sull’auto di quest’ultimo. La loro è una conversazione svolta «con tono amichevole», «con frequenti sottolineature del legame fraterno» che li legherebbe, nonostante il ferimento subito da Muscatello da parte dei congiunti dell’altro: “no degli altri non mi interessa, no… Peppe è mio fratello”.
È questo, a giudizio della Corte, il dato più saliente della mentalità di questa ‘nuova’ ‘ndrangheta: al desiderio di sangue si sostituiscono l’inclinazione alla «composizione del conflitto» e la pragmatica accettazione dei mutati «equilibri di potere». Segno di un adattamento pressoché integrale al contesto territoriale in cui si trova a operare. WORDNEWS 13.11.2020
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco