Mentalità stragista, segreti, vecchi e nuovi Padrini di Cosa nostra a Palermo
Una mafia silente, ma presente; che non spara, ma che al contempo pensa di organizzare attentati come ai tempi delle stragi (come quello al pm Di Matteo); che per riorganizzarsi guarda al passato, proiettando però i suoi affari ed interessi verso il futuro. Senza rinunciare a quella mentalità di attacco allo Stato che ne ha contraddistinto l’esistenza negli anni delle mattanze e delle stragi.
Checché ne dicano benpensanti, intellettuali, storici, professoroni, addetti ai lavori sostenitori che “la mafia è stata sconfitta” (un tempo si diceva “la mafia non esiste”) è questa la fotografia di Cosa nostra degli ultimi otto anni. L’immagine di una mafia tutt’altro che sconfitta.
Lo si legge tra le righe dei processi e delle inchieste che si sono fin qui sviluppate.
Perché lo Stato ha fatto enormi passi avanti nel contrasto a Cosa nostra, soprattutto negli aspetti militari, ma mettendo insieme i pezzi, è chiaro che la partita è tutt’altro che chiusa.
Controllo del territorio
Nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più recenti si comprende come l’organizzazione criminale di Cosa nostra sia tutt’altro che scomparsa nella città.
Alfredo Geraci, ex mafioso di Porta nuova, uomo riservato vicino al boss Alessandro D’Ambrogio (con il quale si conosceva sin dall’infanzia), da qualche mese sta riempiendo le pagine dei verbali della Procura di Palermo.
Ai magistrati ha raccontato come nel mandamento di Palermo centro, ancora oggi, il pizzo sia chiesto e riscosso a tappeto dai picciotti.
Dati che erano emersi anche dalla recente operazione dello scorso ottobre, denominata “Resilienza”, che aveva portato all’arresto di 20 persone.
In quelle indagini, anche grazie alla denuncia di alcuni imprenditori come Giuseppe Piraino, erano state ricostruite ben 22 attività estorsive, aggravate dal metodo mafioso (6 consumate e 16 tentate).
Tra le attività taglieggiate, secondo quanto riferito da Geraci, anche quella delle lambrette che portano in giro i turisti per la città di Palermo, o nei locali della movida.
Chiedere il pizzo, nonostante i rischi, è un’azione necessaria non solo per mantenere il controllo del territorio, ma anche sostenere gli affiliati detenuti con somme che, a detta del collaboratore, variavano dai 750 euro al mese per i capi, ai 500 per i picciotti, a cui si aggiungevano gli aiuti per Natale. Insomma, non proprio spiccioli.
L’ascesa dei Mulè, e la geografia di Cosa nostra
Nei verbali, in cui compaiono diversi omissis, Geraci ha raccontato ai magistrati Francesco Lo Voi, Salvo De Luca ed Amelia Luise di quelle riunioni a Villa Pensabene a cui Alessandro D’Ambrogio, al tempo al vertice del mandamento di Porta Nuova, e Giulio Caporrimo, proprio per stabilire le strategie per una riorganizzazione di Cosa nostra nel 2011.
Uno schema che ciclamente si ripete tanto che, di volta in volta, i boss pianificano già le successioni in caso di arresto. Ed è sempre Geraci a confermarlo: “Nel 2014 Salvo Mulè viene battezzato, cioè affiliato da Lo Presti diventando così uomo d’onore. Tale circostanza mi è stata narrata dallo stesso Mulè una sera fuori del suo locale, da cui solitamente ci allontanavamo per lunghe passeggiate per ovviare ad eventuali intercettazioni: mi riferì in particolare, che da quel momento lui reggeva Palermo Centro così affermando ‘ora ci sono io a Palermo centro’ e mi aggiunse che insieme a lui era stato affiliato anche Paolo Calcagno, designato a reggere Porta Nuova nel caso di carcerazione del Lo Presti”. Poi, nel dicembre 2015 Geraci è finito in carcere e quando è stato liberato il reggente di Palermo Centro era nuovamente cambiato.
Geraci ha anche parlato delle dinamiche interne del mandamento e di quel passaggio di testimone tra Alessandro D’Ambrogio, Giuseppe Di Giacomo fino ad arrivare ai fratelli Salvatore e Massimo Mulè (“salutano spesso col saluto fascista, a dimostrazione della loro caratura, ben diverso è il loro atteggiamento rispetto a quello molto carismatico di D’Ambrogio”)
Parlando di Massimo Mulè il collaboratore lo indica non solo come il referente di Palermo centro, ma anche come il più accreditato per dirigere il mandamento di Porta Nuova.
Del resto, dopo essere stato arrestato nel blitz che nel 2018 svelò il tentativo di riorganizzazione della nuova Commissione provinciale, è attualmente in libertà dopo la decisione del Tribunale del Riesame che ha accolto l’istanza di legali della difesa per l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare non ravvisando fatti nuovi rispetto a quelli per i quali Mulè è già stato condannato.
Inoltre, nei verbali, Geraci fa riferimento anche al padre di questi, il vecchio boss Franco Mulè, già condannato per associazione mafiosa, tre omicidi e un tentato omicidio durante la guerra di mafia degli anni Ottanta. Dopo aver finito di scontare la sua pena agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, dal 2018 è un uomo libero e da un anno non è neanche sotto sorveglianza speciale.
L’attentato a Di Matteo
Nel suo flusso di coscienza Geraci ha anche riferito in merito agli affari e gli interessi economici di Cosa nostra in settori nuovi, come quello dell’imposizione dei buttafuori nei locali notturni di Palermo e dintorni. Quindi ha raccontato quanto apprese sull’organizzazione dell’attentato che le famiglie palermitane stavano preparando contro l’allora sostituto procuratore Nino Di Matteo.
Un altro collaboratore di giustizia, Vito Galatolo, aveva raccontato che a partecipare al summit ristretto erano lui assieme al suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio. E riferì anche che in quella occasione Biondino lesse una lettera proveniente da Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante corleonese, per poi spiegare il motivo per cui il pm doveva essere ucciso con 150 chili di tritolo provenienti dalla Calabria (“si era spinto troppo oltre”).
In seguito anche altri collaboratori di giustizia hanno aggiunto dettagli su quel progetto di morte, che godeva anche dal bene placito di Totò Riina, con tanto di condanna a morte dal carcere.
La Procura di Caltanissetta avviò un’indagine e nella successiva archiviazione si ribadiva come il progetto di attentato fosse “certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”.
Adesso Geraci ha aggiunto un dettaglio non da poco, confermando che la riunione vi fu e che effettivamente si parlò della lettera giunta da Messina Denaro.
“Mi ricordo l’appuntamento che mi è rimasto impresso – ha detto ai pm – c’erano malumori perché praticamente si diceva che Giuseppe Fricano (reggente del mandamento di Resuttana e oggi detenuto, ndr) non era all’altezza di gestire il mandamento, dicevano che c’erano i Madonia seccati, dicevano che c’era Vito Galatolo nervoso per questa cosa. Un giorno mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione”.
E quell’incontro si sarebbe tenuto fra il 2012 e il 2013 “in via Albergheria 97. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia; Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio; Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate; c’era anche Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù per aprire il portoncino a chi arrivava. Mi ricordo benissimo che a Galatolo lo andò a prendere Giuseppe Di Maio in vicolo Pipitone”. Fu quella l’occasione in cui “era stata fatta la presentazione di Tonino Lipari che era stato fatto uomo d’onore da Alessandro D’Ambrogio”.
Quindi, in un altro passaggio, ha aggiunto: “Alessandro D’Ambrogio ci ha raccontato ad una cena alla trattoria del Diavolo ove eravamo io Nino Ciresi ed Antonino Serenella, di una riunione in cui si discorreva dell’attentato al procuratore Di Matteo richiesto in una lettera arrivata da Matteo Messina Denaro che il Biondino gli aveva fatto leggere. D’Ambrogio a riguardo diceva di essere scettico sulla effettiva provenienza di tale lettera e di non concordare su tale attentato in particolare affermando ‘Se vuole l’attentato perché non viene lui a dircelo?’”.
Al di là del dubbio sollevato dal capomafia sul reale mittente della lettera, resta dunque il dato che di questo avevano parlato i vertici di Cosa nostra del tempo, rappresentata da famiglie mafiose di primissimo piano all’interno dell’organigramma palermitano.
Nuova mafia, vecchia mafia: si ricomincia dai padrini storici
Certo è che in questi anni Cosa nostra è sempre stata capace di far fronte ai continui arresti che sistematicamente avvengono nelle proprie fila.
Nell’ultima relazione semestrale della Dia viene evidenziato come l’organizzazione mafiosa in provincia di Palermo, “si presenta ancora strutturata, pervasiva e dotata di una decisa volontà di riorganizzare i propri ranghi e allargare la sfera di influenza”.
Le divisioni sono sempre le stesse con la divisione in 15 mandamenti (8 in città e 7 in provincia) a loro volta composti da 81 famiglie (32 in città e 49 in provincia), i cui confini non appaiono sempre rigidamente definiti, ma sono adattabili in base ad una serie di delicati accordi ed equilibri.
Tuttò ciò nonostante le difficoltà riscontrate nella gestione del dopo Riina, le scarcerazioni, l’inadeguatezza dei giovani boss e il prepotente ritorno in auge dei cosiddetti “scappati” (i perdenti della guerra di mafia scatenata dai corleonesi negli anni Ottanta).
“I gruppi criminali palermitani – si legge nel documento – oltre che a ricercare un capillare controllo del territorio, si muovono con sempre maggiore sicurezza negli ambienti imprenditoriali e finanziari, infiltrandosi anche negli apparati amministrativi degli enti locali”.
E per gestire la rete degli affari più volte c’è stato il tentativo di riorganizzare la Commissione provinciale.
Le operazioni del 2018 e del 2019, “Cupola 2.0” e “New Connection”, hanno messo in mostra quello che gli analisti hanno definito come il “silenzioso fermento riorganizzativo interno a Cosa nostra” in cui ancora si avvertono le frizioni tra il gruppo dei cosiddetti “scappati”, discendenti compresi, e gli “stanziali”.
Divisioni storiche, figlie anche di un passato non troppo lontano.
In proposito basta ricordare i venti di guerra su cui soffiava Antonino Rotolo, pronto a tutto pur di evitare il ritorno della famiglia Inzerillo, nel capoluogo siciliano. “Questi Inzerillo erano bambini e poi sono cresciuti – diceva Rotolo intercettato nel 2006 nell’ambito dell’inchiesta Gotha – questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni… Se ne devono andare. Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti”.
La storia è nota. Nino Rotolo venne arrestato così come finirono le latitanze di Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo, ovvero due dei principali “sponsor” per il rientro degli storici padrini di Passo di Rigano. E gli Inzerillo si sono riaffacciati in grande stile.
Prove di dialogo
Non è un caso se proprio Settimio Mineo, il capomafia di Pagliarelli che era stato designato al vertice della nuova Cupola, aveva avuto più incontri (almeno quattro quelli registrati dagli inquirenti, ndr) con i due Inzerillo, Tommaso e Francesco Inzerillo (il fratello di Salvatore, il capo indiscusso dello schieramento fatto uccidere da Riina l’11 maggio 1981).
E di recente anche il pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo aveva spiegato come si sia messa una pietra sopra il divieto di rientro per gli scappati (“Sono voluti bene da tutti in Cosa Nostra… tutti cercano a Franco Inzerillo, a Masino Inzerillo”).
E’ sempre la Dia a mettere nero su bianco come i “perdenti” siano sempre più determinati a riprendere il potere dopo la lunga egemonia corleonese.
E proprio in questo senso va evidenziato quanto emerso dall’operazione “New Connection”, dove si evince come il summit mafioso del maggio 2018, propedeutico al rilancio della Commissione provinciale, fosse stato tenuto nel territorio del mandamento di Passo di Rigano, storicamente zona di riferimento della famiglia “americana”.
Una scelta che evidenzierebbe come il clan sia tornato ad avere una posizione di particolare rilievo nell’ambito dell’organizzazione criminale.
A quegli incontri, però, non partecipavano direttamente gli ex “scappati”, ma un loro uomo di fiducia: Giovanni Buscemi, tornato in libertà dopo 24 anni di reclusione e subito pronto per mettersi a disposizione. Inzerillo preferiva defilarsi perché temeva che qualcuno si pentisse.
In un’intercettazione del 22 gennaio 2019 Tommaso Inzerillo, a colloquio con Giuseppe Spatola e Gabriele Militello, parla del giovane padrino Leandro Greco, designato a entrare nella neo costituita commissione di Cosa nostra come vertice del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, in quanto nipote del “Papa” Michele Greco. “Quello ha ventiquattro anni, appena entra dentro si svuota (collabora, ndr)”, diceva.
E’ un fatto noto che Greco, fino ad oggi, non ha mai parlato con i magistrati, ma il capomafia di Passo di Rigano non aveva tutti i torti sui pericoli che si potevano correre nella riorganizzazione, tanto che altri due capimandamento finiti in manette, Colletti e Bisconti, hanno saltato il fosso svelando affari e accordi. Collaborazioni che potrebbero ulteriormente esasperare le conflittualità interne di Cosa nostra.
Perché non è facile immaginare che padrini storici come i Graviano, seppur in carcere, possano accettare un ridimensionamento di Brancaccio all’interno del mandamento. O che al contempo possa essere accolto con favore il ritorno delle vecchie famiglie americane.
E’ anche vero che in questi anni gli Inzerillo hanno avuto modo di insaldare i propri legami d’oltreoceano investendo denari (Rotolo diceva “loro hanno avuto i morti ma hanno tutti i soldi”) ed acquisendo potere.
In “New connection”, ricorda sempre la relazione della Dia, come vi sia il riferimento ad un soggetto “…importante anello di collegamento tra la famiglia mafiosa di Passo di Rigano e la Cosa Nostra americana… per aver gestito in prima persona il passaggio dall’Italia verso gli Stati Uniti di denaro proveniente dalla famiglia mafiosa di Passo di Rigano e destinato al sostentamento dei detenuti appartenenti alla famiglia Gambino”.
In quell’indagine del luglio 2019 viene evidenziato proprio come la collaborazione tra le due mafie, quella siciliana e quella americana, sia stata costante e redditizia, “facendo pervenire in territorio siciliano, in modo occulto, somme non quantificate di denaro contante, beni ed altre utilità, in parte destinati al finanziamento di attività commerciali presenti in territorio palermitano intestate fittiziamente a prestanome ed in realtà riconducibili a soggetti appartenenti al mandamento mafioso di Passo di Rigano…”.
Sicuramente quello con gli Stati Uniti era un canale aperto. E c’erano anche altre figure che erano pronte a tornare in Sicilia. Tra queste Giovanni Greco (classe 1956), che tutti chiamano “Giovannello”, ex fedelissimo del Principe di Villagrazia, Stefano Bontate.
Di lui parlava Tommaso Inzerillo in un’intercettazione (“… in Spagna… poi è stato qua… tutto a posto… sì, sì… se ne è andato, quando dite voi vengo”) facendo capire che lo stesso aspettava solo un cenno. Anche lui ha finito di scontare la propria pena e, come altri, rappresenta in qualche modo il ritorno della vecchia mafia.
Il carisma dei vecchi
La relazione della Dia metteva in evidenza anche il dato per cui “gli aspetti organizzativi ed operativi dei sodalizi risultano, infatti, costantemente influenzati dalle scarcerazioni degli anziani uomini d’onore ai quali sarà sempre riconosciuta una pregnante influenza sul territorio. In effetti spesso le famiglie – che avevano dovuto affidare il controllo dei loro affari a giovani elementi talvolta impulsivi, spregiudicati e in qualche caso privi di visione strategica – devono fare ricorso proprio ai consigli dei più anziani, che sopperiscono, con il loro carisma, a reggenti senza un reale seguito”.
E sicuramente non è un caso se diversi boss mafiosi, una volta concluso il proprio periodo di detenzione, siano tornati ad occupare esattamente i ruoli di vertice all’interno delle famiglie.
Era accaduto a Calogero Lo Piccolo, che era tornato al vertice di San Lorenzo-Tommaso Natale prima del nuovo arresto di dicembre 2018.
Così è stato per Giulio Caporrimo, tornato libero nel 2019, e Nunzio Serio. Entrambi stavano riorganizzando proprio il mandamento di Tommaso Natale, per poi finire arrestati lo scorso giugno nell’inchiesta “Teneo”, condotta dai carabinieri e coordinata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dai sostituti Francesco Gualtieri e Amelia Luise.
Un altro nome di peso per cui si sono riaperte le porte del carcere è quello del boss dell’Arenella, Gaetano Scotto indicato dai pentiti come il trait d’union tra Cosa nostra e i servizi segreti negli anni neri delle stragi.
E lo scorso ottobre è finito nuovamente in manette, dopo la scarcerazione di tre anni fa, Angelo Monti, ritenuto il reggente della “famiglia” del Borgo Vecchio.
Incrociando gli elementi emersi dalle attività investigative e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è possibile stilare una piccola mappa della città.
In alcune intercettazioni in carcere tra Giovanni Di Giacomo, boss di Porta Nuova, ed il fratello Giuseppe, prima che questi venisse ammazzato nel 2015, venivano indicati alcune figure di riferimento: il giovane Leandro Greco per Ciaculli, Giuseppe Giuliano per Corso dei Mille e Pietro Tagliavia per Brancaccio. Di questi è Giuliano ad essere ancora libero così come Giuseppe Greco, il cugino di Leandro, che secondo gli inquirenti aveva un ruolo quasi paritario all’interno dell’organizzazione, e Ignazio Ingrassia. Questi ultimi due vengono citati in diverse informative così come quelli di Ignazio Traina a Santa Maria di Gesù, Salvo Genova a Resuttana e Giuseppe Calvaruso a Pagliarelli. Quest’ultimo, un tempo braccio destro di Gianni Nicchi, vive lontano da Palermo, in Emilia Romagna.
Lo sguardo verso il futuro
Allo stato attuale, comunque, è difficile individuare a Palermo un unico leader che sappia gestire l’intera organizzazione. Le dinamiche interne sono in continua evoluzione, tanto quanto le indagini.
In Provincia tra i soggetti monitorati dalle forze dell’ordine vi è anche Sandro Capizzi. Il figlio del boss di Villagrazia Benedetto Capizzi è tornato libero qualche anno fa e assieme al padre aveva già partecipato al tentativo di rifondazione della Cupola nel lontano 2008 (operazione Perseo, ndr). Di lui ha parlato anche il pentito Bisconti, ma in riferimento a questioni del passato.
Altro nome importante è quello di un “fantasma” come il latitante Giovanni Motisi, ricercato dal 1993, già condannato all’ergastolo per omicidi eccellenti tra cui quello ai poliziotti Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale Mondo.
Per molti era deceduto, nelle attività di indagine che hanno riguardato Scotto, però, sono emerse delle intercettazioni in cui si farebbe riferimento a “U Pacchiuni” (il soprannome riservato al boss di Pagliarelli). Addirittura, avevano annotato gli investigatori che Scotto avrebbe riferito di aver tentato di contattarlo attraverso il nipote, Antonino Scotto, ma che il latitante avrebbe rifiutato ogni forma di dialogo.
Certo è che Motisi è uno degli uomini di spicco di questa nuova-vecchia mafia.
E’ inserito nell’elenco dei ricercati di spicco e nel 2007 Gianni Nicchi, ‘u picciutteddu, al tempo capomafia a Pagliarelli, aveva cercato un contatto per contrastare l’avanzata di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, i signori di San Lorenzo, nel controllo della città.
Di Motisi aveva parlato anche un collaboratore di giustizia, Angelo Casano indicando nell’agrigentino il territorio in cui si sarebbe nascosto per la latitanza. “Giovanni Cangemi, quando eravamo a Pagliarelli, ne parlava – aveva spiegato ai pm – Le uniche persone, dice, che sanno dove si trova Giovanni Motisi sono io e mio padre Carmelo. Lui mi disse pure che l’unica persona che può riprendere il potere di Altarello è lui, se lui arriva si riprende il potere”.
Intanto le ricerche proseguono, tanto in Italia quanto all’estero. Le ultime tracce qualche anno fa i carabinieri, durante una perquisizione, trovarono una fotografia in cui è ritratto durante il compleanno di una delle figlie.
Il tentativo di contatto tra Scotto e Motisi rafforza l’ipotesi che, considerato il “curriculum” mafioso, il boss di Pagliarelli potrebbe essere davvero il punto di riferimento per Cosa nostra a Palermo.
Fine dei corleonesi?
Del resto certe figure carismatiche, alla fine, hanno sempre trovato il modo di imporsi.
La morte di Bernardo Provenzano, prima, e del Capo dei Capi Totò Riina, poi, hanno lasciato un vuoto e da tempo è in corso una rideterminazione degli equilibri del potere nella mafia siciliana. Forse, però, non si può ancora dire che sia finita totalmente l’era dei “corleonesi”.
Il motivo è nelle parole degli stessi boss. E’ di pochi anni fa una conversazione tra i mafiosi Sutera e Marchese in cui si discuteva del cambiamento all’interno dell’organizzazione criminale.
E nella discussione i due non parlavano solo della morte degli illustri padrini, ma anche del “vicinanzo”, altrimenti “non se ne vedono lustro e niente li frega”.
E via con l’elenco dei nomi dei più importanti appartenenti allo schieramento corleonese: i fratelli Graviano, Leoluca Bagarella e soprattutto il latitante Matteo Messina Denaro. Quest’ultimo è ancora latitante mentre i primi sono in galera dove devono scontare svariati ergastoli.
Sono gli stragisti ancora in vita a cui si affiancano famiglie come quelle dei Biondino o dei Madonia, con legami storici con i servizi di sicurezza.
Dunque diviene difficile pensare ad una mafia che abbia preso totalmente le distanze da una certa mentalità.
La vicenda dell’attentato organizzato contro il pm Nino Di Matteo, da questo punto di vista, rappresenta una prova.
Se è vero, come ritengono molti magistrati, che solo pochi anni fa Cosa nostra voleva uccidere il magistrato palermitano con l’utilizzo di un’autobomba; se è vero che l’input veniva proprio da Matteo Messina Denaro, si dovrebbe essere molto cauti nell’esprimere considerazioni per cui Cosa nostra ha definitivamente abbandonato la strategia di attacco frontale alle istituzioni o che lo stesso boss trapanese, latitante anch’egli dal 1993, si è lasciato alle spalle il “passato stragista”.
I segreti delle stragi
Per comprendere quanto conti Matteo Messina Denaro all’interno delle dinamiche di Cosa nostra basta guardare alla sua storia.
Perché oltre ad essere stato protagonista assoluto (l’ultimo ancora libero) del biennio stragista, grazie all’eredità paterna conosce i risvolti di delitti eccellenti come quelli di Alberto Giacomelli e Mauro Rostagno, e poi ancora i motivi che si nascondono dietro la strage di Pizzolungo con l’attentato al giudice Carlo Palermo; e poi ancora i traffici di armi e droga con le coperture di apparati deviati dello Stato.
A questi si aggiunge l’archivio segreto di Riina, esportato dal covo di via Bernini dopo l’arresto, a detta dei collaboratori di giustizia finito nelle sue mani.
Ecco, dunque, il vero potere del boss trapanese: i segreti di cui è depositario, su tutti quelli degli accordi tra la mafia e lo Stato.
Del resto è proprio a lui, assieme al capomafia di Brancaccio Giuseppe Graviano, l’uomo a cui il “Capo dei Capi” dà il compito di portare avanti certi affari.
Lo ha raccontato in maniera chiara Giovanni Brusca, sentito proprio nel processo contro la primula rossa trapanese, ha riferito di una confidenza che gli fece verso la fine del 1992: “Totò Riina mi ebbe a dire che, qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto. Queste cose me le dice alla fine del 1992, tra novembre e dicembre. Era il periodo in cui non avevamo più notizie e lui iniziava a preoccuparsi che poteva essere arrestato”.
Non è un caso che proprio Messina Denaro e Graviano siano tra i pochi ad essere messi a conoscenza dell’esistenza della “supercosa”, un gruppo che vedeva al suo interno anche altre figure di rilievo come Leoluca Bagarella e Vincenzo Sinacori, con il compito di supportare ogni decisione o strategia di Riina.
Il primo, elemento di raccordo tra passato e presente, è in libertà. L’altro, così come il fratello, è in carcere ristretto al 41 bis.
Da lì, nei mesi scorsi deponendo al processo ‘Ndrangheta stragista, Graviano ha inviato messaggi verso l’esterno quasi ad imbastire una nuova idea di trattativa tra lui, che dalla morte di Totò Riina rappresenta a tutti gli effetti gli alti vertici della mafia, e altri apparati dello Stato.
Ecco perché si può ritenere che, accanto a quegli “scappati” che hanno il filo diretto con gli Stati Uniti d’America, Giuseppe Graviano, assieme al super latitante trapanese Matteo Messina Denaro, a figure come Salvatore Biondino ed i Madonia di Palermo, Leoluca Bagarella, o lo stesso latitante di Pagliarelli Giovanni Motisi, secondo le regole di Cosa nostra, siano le figure di riferimento che comandano la mafia siciliana.
Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari 03 Dicembre 2020