1000015.11.2021 Le motivazioni Appello “BORSELLINO QUATER“oooo
- la prescrizione salva Scarantino … La Repubblica
- confermate in appello tutte le condanne TGR – Rai
- confermate in appello tutte le condanne Il Tempo
- confermate le condanne all’ergastolo per i … Il Fatto Quotidiano
- Depistaggio sulla strage Borsellino, a Messina spuntano i verbali inediti di Scarantino Gazzetta del Sud
BORSELLINO QUATER, CONDANNE CONFERMATE IN APPELLO. ERGASTOLO PER I BOSS. DIECI ANNI PER I FALSI PENTITI. PRESCRITTA LA CALUNNIA DI SCARANTINO.E il Pg Sava annuncia un possibile “Borsellino Quinquies”. Poche sorprese. La Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, confermando la sentenza di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino. “Il dispositivo non ci ha colto di sorpresa perché eravamo consapevoli del fatto che sarebbe stata necessaria una grande dose di coraggio per assolvere Scarantino – ha commentato il suo legale, Calogero Montante -. Probabilmente i tempi non sono ancora sufficientemente maturi per dichiarare una simile verità. Prendiamo atto della sentenza, ovviamente non la condividiamo ma attendiamo di leggere le motivazioni per decidere sul da farsi”.
Al “picciotto della Guadagna” è stata riconosciuta l’attenuante di essere stato “indotto a mentire”, confermando così anche l’esistenza del depistaggio definito nelle motivazioni della sentenza di primo grado come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
Sempre nelle motivazioni della sentenza i giudici parlano chiaramente di “suggeritori” esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito inducendolo a mentire. “Soggetti, – scrivevano – i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte”. Su questi elementi, così come sulla possibile presenza di soggetti esterni che hanno potuto contribuire alle stragi, si concentra ora la Procura nissena, così come svelato proprio dal Procuratore generale Lia Sava, presente alla lettura del dispositivo di sentenza assieme ai sostituti Antonino Patti, Fabiola Furnari, Carlo Lenzi e Lucia Brescia, commentando la sentenza odierna. La Sava ha parlato dell’esistenza “ulteriori sviluppi delle indagini con la possibilità di arrivare a un Borsellino quinquies”. Del resto già durante la requisitoria aveva ribadito che “secondo la procura generale lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi”. E poi aggiungeva: “I magistrati devono continuare a raccogliere prove certe di responsabilità penali che consentano di addivenire a sentenze definitive di condanna per tutti coloro, anche in ipotesi, esterni a Cosa nostra, che possono avere concorso, a qualunque titolo, e per qualsivoglia scopo, alla realizzazione della strage di via D’Amelio e che, successivamente ai tragici eventi, possono avere mosso i fili, in maniera da determinare il colossale depistaggio delle relative indagini”.
Oggi, dopo l’emissione della sentenza d’appello la Sava non ha nascosto la propria soddisfazione: “E’ stata confermata l’impostazione della sentenza di primo grado, sono state accolte tutte le richieste costruttive della procura generale di Caltanissetta. La sentenza conferma l’impianto e la ricostruzione fatta sia dalla procura di Caltanissetta in primo grado, poi recepita e ampliata. Adesso leggeremo le motivazioni di questa sentenza di secondo grado. Ma tutto fa pensare che l’impianto solido della sentenza di primo grado sia stato in toto recepito”.
Presente alla lettura della sentenza anche Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino ma anche legale di parte civile assieme al collega Vincenzo Greco proprio dei tre fratelli, Lucia, Manfredi e Fiammetta. Rispondendo ai giornalisti ha parlato di “soddisfazione, a nome della famiglia Borsellino, per la sentenza che ha confermato le condanne di primo grado e certifica, in maniera inconfutabile, che nell’ambito del processo Borsellino uno e bis si è realizzato uno, se non il, più grande errore giudiziario della storia italiana. Chiaramente ora attendiamo sviluppi. Questa è una pietra miliare perché si afferma che Scarantino è stato indotto a depistare le indagini. Abbiamo il processo Bo e altri, la conferma totale della sentenza di primo grado costituisce i presupposti fondamentali per l’altro processo e per le ulteriori indagini che ci saranno e che magari sfoceranno in un altro processo”.
“Questa sentenza secondo noi rafforza il depistaggio che è stato perpetrato dopo la strage di via D’Amelio – ha commentato all’Adnkronos l’avvocato Roberto Avellone che rappresenta Antonino Vullo, l’unico agente sopravvissuto e i familiari degli altri agenti morti nella strage-. Sono molto soddisfatto per le parti civili che rappresento, cioè tutti i congiunti degli agenti di Polizia uccisi nella strage di via D’Amelio, tra cui l’unico superstite (Antonino Vullo ndr) e sono fiducioso che questa sentenza reggerà anche il terzo grado. Ed è una ulteriore conferma che il depistaggio è stato perpetrato da uomini dello Stato creando l’occultamento della verità”.
Attualmente per il depistaggio sono sotto processo, in un giudizio ancora in primo grado, davanti al tribunale di Caltanissetta, tre poliziotti che facevano parte del pool investigativo che indagò sulla strage e che, secondo l’accusa, avrebbero imbeccato i finti pentiti. Per competenza a Messina è invece aperto il fascicolo nei confronti dei due magistrati che in quegli anni si occuparono dell’attentato, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, rispettivamente procuratore aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo, entrambi indagati per calunnia aggravata. amduemila 15 Novembre 2019 di Aaron Pettinari
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BORSELLINO QUATER, REPICI: ”APPARATI DI STATO DIETRO STRAGE E DEPISTAGGIO DI VIA D’AMELIO‘‘ ANTIMAFIA DUEMILA 14.10.12019
Strage di via D’Amelio, l’avvocato dei Borsellino: “Perchè Giammanco non fu sentito? “Vincenzo Greco, che rappresenta i figli del magistrato ucciso nel 1992, è intervenuto al processo di Caltanissetta e ha parlato dell’allora procuratore di Palermo: “Aveva nascosto al giudice l’informativa dei Ros con cui si diceva che il tritolo era arrivato” “Ci siamo sempre chiesti come famiglia perché il procuratore Giammanco (morto lo scorso anno ndr) non venne mai sentito dagli i inquirenti”. Così l’avvocato Vincenzo Greco, legale della famiglia Borsellino, nel corso delle conclusioni delle parti civili nell’ambito del processo Borsellino Quater, che si celebra davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. Sul banco degli imputati i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i falsi pentiti Francesco Andriotta, Calogero Pulci e Vincenzo Scarantino. “Giammanco aveva nascosto al giudice l’informativa dei Ros con cui si diceva che il tritolo era arrivato a Palermo”, ricorda l’avvocato Greco. Che sottolinea anche come i rapporti tra Borsellino e Giammanco fossero pessimi. L’avvocato si è posi associato alle richieste della procura generale che chiede la conferma della sentenza di primo grado. “I magistrati – aveva detto il pg Lia Sava aprendo la requisitoria nelle scorse udienze – devono continuare a raccogliere prove certe di responsabilità penali che consentano di addivenire a sentenze definitive di condanna per tutti coloro, anche in ipotesi, esterni a Cosa nostra, che possono avere concorso, a qualunque titolo, e per qualsivoglia scopo, alla realizzazione della strage di via D’Amelio e che, successivamente ai tragici eventi, possono avere mosso i fili, in maniera da determinare il colossale depistaggio delle relative indagini”. PALERMO TODAY 23.9.2019
Processo Borsellino quater, chiesta la conferma delle condanne.Al processo Borselli Quater è stata chiesta la conferma della sentenza di primo grado per tutti i cinque imputati, del processo sulla strage di via d’Amelio, che si celebra in Corte d’Assise d’Appello a Caltanissetta Così come avevano fatto nel corso della loro requisitoria Lia Sava e Antonino Patti, anche i Pg Carlo Lenzi e Lucia Brescia, hanno chiesto la conferma dell’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, già condannati all’ergastolo per strage e per i falsi collaboratori Calogero Pulci e Francesco Andriotta, condannati alla pena di dieci anni ciascuno per calunnia. Reato prescritto invece per Vincenzo Scarantino, perché sarebbe stato «indotto a mentire». I due sostituti procuratori Lenzi e Brescia, nella loro requisitoria, sono entrati nei dettagli, soffermandosi sui vari ruoli ricoperti dai cinque imputati. La sentenza di morte per Paolo Borsellino sarebbe stata emessa da Totò Riina, nel corso della riunione per gli auguri di Natale, svoltasi nel dicembre del 91. Nessuno dei capi mandamento si oppose. Avallarono quella decisione. «Gli italiani – ha detto il Pg Lenzi – dovevano capire con chi avevano a che fare». Soffermandosi poi sul ruolo dei falsi collaboratori, il Pg ha affermato che «Francesco Andriotta e Calogero Pulci hanno reso gravissime dichiarazioni mendaci da cui sono discese pesantissime condanne. Andriotta ha ammesso di non sapere nulla e di aver barattato la sua libertà con quella degli altri». Il ruolo di Andriotta sarebbe stato quello di convincere Scarantino a collaborare. A soffermarsi invece sul ruolo ricoperto dall’ex picciotto della Guadagna, è stato il sostituto procuratore generale Lucia Brescia. «Scarantino – ha sottolineato il Pg – trasferito presso la casa circondariale di Pianosa, ebbe una serie di colloqui investigativi: rispettivamente il 20 dicembre 1993 con Mario Bo (funzionario di polizia), il 22 dicembre 1993 con Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 nuovamente con Mario Bo e il 24 giugno dello stesso anno ancora con Araldo La Barbera. In quest’ultima data Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla dottoressa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria collaborazione con l’autorità giudiziaria, confermando il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese da Candura e da Andriotta ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico». 22.9.19 TP24
“La decisione di eliminare Falcone e Borsellino fu presa da Riina e avallata da tutti” Con queste parole il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Carlo Lenzi ha proseguito, davanti alla Corte d’Assise d’Appello nissena, la requisitoria del processo Borsellino quater “E’ assolutamente impossibile, illogico e inammissibile che la decisione di eliminare Falcone e Borsellino, non fosse maturata nell’ambito di una riunione con tutti i vertici”. Con queste parole il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Carlo Lenzi ha proseguito, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, la requisitoria del processo Borsellino quater. Imputati i boss mafiosi palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannati in primo grado all’ergastolo per la strage di via d’Amelio, e i falsi collaboratori di giustizia Francesco Andriotta, Calogero Pulci e Vincenzo Scarantino. I primi due sono stati condannati a 10 anni per calunnia. Reato prescritto per il terzo che, come riconosce la sentenza di primo grado, è stato “indotto a mentire”. La riunione si tenne “prima di Natale nel ’91”, dice Lenzi. “Se è vero che in quella riunione fu presa questa decisione non è pensabile che Madonia fosse assente. I Madonia non erano capi mandamento lontani da Totò Riina. È credibile che la famiglia Madonia restasse fuori da una decisione così importante?”. I particolari di quella riunione sono stati raccontati dal pentito Giuffrè il quale “ci dice – ha sottolineato Lenzi – della presenza del Madonia e anche che a quella riunione parlò solo Madonia e gli altri tacquero. Si potrebbe dire che era una decisione di Riina e gli altri presero solo atto. Ma gli altri capi mandamento, con il loro silenzio, hanno avallato una decisione di Riina che tutti condividevano”. “Riina – ha aggiunto il rappresentante dell’accusa – è l’uomo che ha scalato Cosa Nostra su un letto di cadaveri. Vi immaginate che Totò Riina si fa imporre una decisione del genere da qualcuno? Fantasticare su mandanti occulti, poteri forti non si può. Quello di cui si può parlare all’esito delle indagini sarà di concorrenti esterni. Il capo dei capi era Totò Riina. Un capo che ci teneva ad affermare il suo potere su tutti gli altri capi”. FANPAGE 20.9.19
“STRAGI, I MANDANTI OCCULTI SARANNO PRESTO SCOPERTI” La requisitoria del Pg di Caltanissetta Lia Sava al Borsellino “quater ” “Abbiamo nuovi elementi da approfondire su Capaci e via D’Amelio” Le indagini su via D’Amelio? “Si stanno delineando nuove strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi, si tratta di produzioni inerenti la strage di Capaci e che sono oggetto di ulteriori approfondimenti”. A 27 anni dalla strage, il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava rivela punti di contatto tra gli indizi raccolti tra le due stragi del ’92 nella caccia ai mandanti occulti, esterni a Cosa Nostra: “Questo materiale – ha detto il pg –costituisce la dimostrazione che senza alcuna remora si sta cercando di battere ogni pista percorribile per far luce su alcune zone d’ombra”. E il pg chiarisce: “Anche qualora si arrivasse a individuare soggetti esterni, e allorquando sarà fatta luce sull’agenda rossa, ciò non farà venir meno le responsabilità degli uomini di Cosa Nostra”. La rivelazione arriva in apertura della requisitoria dell’appello del Borsellino quater, in cui Sava ha fatto il punto sullo stato delle indagini sulla più “anomala” delle stragi siciliane, ancora fitta di buchi neri, legati soprattutto al colossale depistaggio istituzionale sul quale davanti al Tribunale di Caltanissetta è tuttora in corso un nuovo processo a tre uomini del gruppo “Falcone Borsellino” della Polizia di Stato. E se in primo grado la Corte d’assise nissena stabilì che Vincenzo Scarantino fu “indotto”a fingersi pentito, facendo scattare per lui la prescrizione (confermata già dalla Cassazione), oggi il Pg Sava aderisce totalmente all’impostazione di quel verdetto, che pure due anni fa aveva ignorato le richieste della Procura (all’epoca la Sava era il numero due di quell’ufficio) che per Scarantino aveva chiesto la condanna a 8 anni e 6 mesi per calunnia. Il Pg, infatti, ha già anticipato che alla fine della requisitoria chiederà conferma anche per le condanne all’ergastolo dei boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, e a 10 anni per calunnia dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Nella sua requisitoria Sava sembra oggi allinearsi anche alla sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia che stabilisce un nesso tra il negoziato sotterraneo e l’accelerazione della strage di via D’Amelio: “Non può escludersi – ha detto il Pg – che la cosiddetta trattativa possa aver contribuito (insieme alle vicende del rapporto mafia-appalti), a indurre Totò Riina alla più rapida eliminazione di Borsellino”. Per concludere, consapevole delle numerose anomalie che tuttora spalancano dubbi su eventuali cointeressenze dei servizi deviati: “La ricerca della verità non si è mai fermata. Tocca ai magistrati la ricostruzione completa della strage di via D’Amelio che presenta, ancora oggi, punti drammaticamente irrisolti”, perché “l’Italia –ha concluso il pg –ha bisogno di comprendere il più violento degli attacchi alla nostra democrazia. Confidiamo che l’opera condotta all’unisono porterà alla verità”. Di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza Da il FQ. del 18/09/2019
Borsellino quater, il pg: “Trovare chi ha mosso fili per colossale depistaggio”“Il primo profilo riguarda la famiglia di Paolo Borsellino e i congiunti di tutti gli uomini della scorta, i servitori dello Stato che sono stati trucidati in via D’Amelio. Essi hanno il diritto di sapere e di comprendere fino in fondo come e perché si giunse alla stagione delle stragi, anche al fine di cercare di lenire un dolore mai sopito, ma che addirittura si amplifica di fronte agli assordanti silenzi sia all’interno di Cosa nostra che all’interno di altri e più differenti contesti“. E’ quanto dice il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava, nel corso della requisitoria per il processo ‘Borsellino quater’ in corso a Caltanissetta. Imputati i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i tre ex pentiti Calogero Pulci, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. “Questo ufficio – scandisce il procuratore generale – è fortemente convinto che la completa verità sulla strage di via D’Amelio potrà essere raggiunta solo mettendo insieme elementi che provengano da direzioni e da contesti investigativi diversificati che dovranno essere letti in chiave unitaria e supportati, si spera, da sopravvenute fonti dichiarative e dalle risultanze di ulteriori accertamenti anche di carattere tecnico scientifico“. ADNKRONOS 17.9.19
“La ricerca della verità non si è mai fermata”.Così il Procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava ne corso della requisitoria dle processo Borsellino quater. Secondo la procura generale “lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi”. “Si tratta di produzioni inerenti la strage di via Capaci e che sono oggetto di ulteriori approfondimenti. Questo materiale – dice il pg in aula – costituisce la dimostrazione che senza alcuna remora si sta cercando di battere ogni pista percorribile per far luce su alcune zone d’ombra. Il materiale sopra richiamato non incide in alcun modo sulla sentenza della quale oggi vi chiediamo conferma. Perché anche qualora si arrivasse ad individuare i soggetti esterni e allorquando sarà fatta luce sull’agenda rossa, ciò non farà venir meno le responsabilità degli uomini di Cosa nostra”. RAI NEWS 17.9.19
Borsellino quater: ”Scarantino ancora ambiguo ma indotto a mentire”. L’ex pentito Vincenzo Scarantino, uno dei principali accusatori nel primo processo per la strage di via d’Amelio le cui dichiarazioni fecero condannare all’ergastolo nove innocenti, poi scagionati, è “stato indotto a mentire”. Riprendendo le parole delle motivazioni della sentenza di primo grado il sostituto procuratore generale di Caltanissetta, Lucia Brescia, ha proseguito la requisitoria al processo Borsellino quater che si celebra davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. “Scarantino – ha detto Brescia – trasferito presso la casa circondariale di Pianosa, ebbe una serie di colloqui investigativi tra il 1993 e il 1994: con Mario Bo (sotto processo nel processo per depistaggio, ndr), con Arnaldo La Barbera e nuovamente con Mario Boe il 24 giugno ancora con Arnaldo La Barbera.In quest’ultima data Scarantino iniziò la propria collaborazione con l’autorità giudiziaria, confermando il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese da Candura e da Andriotta ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico”. Nel corso della sua esposizione il magistrato ha anche sottolineato che “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità”. Già le motivazioni della sentenza di primo grado avevano affrontato il tema mettendo in evidenza come “sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di ‘collaborare’ con la giustizia, in data 24 giugno 1994 lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto”. Ebbene tutte queste circostanze, secondo i giudici, sono “del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage”. Queste circostanze, che saranno anche raccontate da Gaspare Spatuzza (l’ex boss di Brancaccio che si è autoaccusato del furto dell’auto, permettendo di raggiungere ad una nuova verità, ndr), come potevano essere note dai cosiddetti suggeritori? Secondo i giudici: “È del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”. Il sostituto Pg ha poi affermato che “Scarantino continua a mantenere un atteggiamento ambiguo e ondivago nelle sue dichiarazioni. È innegabile, e si evince chiaramente dalla complessiva condotta di Scarantino nel corso degli anni, la piena consapevolezza di rendere dichiarazioni mendaci a carico di soggetti che, in relazione alle specifiche accuse di partecipazione alla strage di via d’Amelio, non avevano alcuna responsabilità. La sua responsabilità non può essere esclusa, essa può e deve essere tuttavia attenuata”. Infatti, al termine della requisitoria, per il picciotto della Guadagna, accusato di calunnia, è stata chiesta la conferma della sentenza di primo grado, dove venne riconosciuta la prescrizione. Oltre a Scarantino imputati per il medesimo reato, vi sono Francesco Andriotta e Calogero Pulci (in primo grado condannati a dieci anni). Per strage sono stati invece condannati all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino. Rispetto alle posizioni di Andriotta e Pulci la Procura generale è stata, invece, assolutamente critica. “Francesco Andriotta e Calogero Pulci hanno reso gravissime dichiarazioni mendaci da cui sono discese pesantissime condanne – ha detto il sostituto procuratore generale Fabiola Furnari – Andriotta ha ammesso di non sapere nulla e di aver barattato la sua libertàcon quella degli altri”. Il ruolo di Andriotta sarebbe stato quello di convincere Scarantino a collaborare. “Il rapporto fra i due nasce durante la loro detenzione al carcere di Busto Arsizio. Un rapporto sempre più stretto al punto tale che Scarantino confessò di aver commissionato a Candura il furto di quella Fiat 126 utilizzata nella strage del 19 luglio del 1992, su richiesta di un parente. Con le sue false dichiarazioni – ha proseguito – Andriotta ha determinato per Scotto, Profeta e Vernengo, la pena dell’ergastolo e la condanna per Scarantino”. L’accusa ha anche sottolineato che “la sua non è stata una confessione spontanea ma è stata sollecitata dalle dichiarazioni di Spatuzza che hanno smantellato il suo progetto diabolico. Avrebbe potuto tirarsi indietro e invece non lo ha fatto”. Il Pg ha quindi chiesto per Andriotta la conferma della sentenza di primo grado. Strage decisa dai vertici di Cosa nostra Nella parte di requisitoria dedicata alla responsabilità dei boss mafiosi il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Carlo Lenzi, rivolgendosi alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, ha ribadito: “È assolutamente impossibile, illogico e inammissibile che la decisione di eliminare Falcone e Borsellino non fosse maturata nell’ambito di una riunione con tutti i vertici. La riunione si tenne prima di Natale nel ’91 e se è vero che in quella riunione fu presa questa decisione non è pensabile che Madonia fosse assente. È credibile che la famiglia Madonia restasse fuori da una decisione così importante? I Madonia non erano capi mandamento lontani da Totò Riina, il capo dei capi. Ci teneva ad affermare il suo potere su tutti gli altri capi”. A raccontare della presenza di Madonia alla riunione degli auguri di Natale è il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, ritenuto credibile da più Procure. “Si potrebbe dire che era una decisione di Riina e gli altri presero solo atto – ha detto il Pg – Ma gli altri capi mandamento con il loro silenzio hanno avallato una decisione che venne esposta da Riina ma che tutti condividevano. Anche altri omicidi commessi con modalità meno eclatanti venivano decisi in riunioni dei capi mandamento in seduta plenaria. Riina è l’uomo che ha scalato Cosa nostra su un letto di cadaveri. Vi immaginate che Totò Riina si fa imporre una decisione del genere da qualcuno? Fantasticare su mandanti occulti, poteri forti non si può. Quello di cui si può parlare all’esito delle indagini sarà di concorrenti esterni”. Poi Lenzi ha aggiunto: “Lo scopo della finalità di terrorismo ed eversione è totalmente realizzata per le modalità con le quali vennero realizzate le stragi. L’obiettivo erano anche gli altri 66 milioni di italiani che dovevano capire con chi avevano a che fare”. ANTIMAFIA DUEMILA 21.9.2019
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18.7.2018
- SERVIZIO TG ETV
- SERVIZIO TG 5 MEDIASET
- SERVIZIO TG STUDIO APERTO
- SERVIZIO TG 3 RAI SICILIA
- SERVIZIO TG2 RAI
- SERVIZIO TG1 RAI
19.7.2018
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BORSELLINO QUATER – stralci di sentenza
Il collegamento con l’Agenda Rossa I giudici mettono nero su bianco per la prima volta che “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”. Il personaggio a cui la Corte d’Assise fa riferimento è Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato. Secondo la Corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. Per la corte l’agenda del magistrato, da lui custodita in una borsa e scomparsa dal luogo dell’attentato, “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”. La Corte dedica proprio un capitolo alla sparizione dell’agenda rossa evidenziando le “molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati”. Tra questi anche quella dell’allora capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo. Lui è quel soggetto immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage, proprio in quel disgraziato pomeriggio del 19 luglio, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano la borsa del magistrato. Un fotogramma che venne fuori soltanto nel 2005 quando il nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, segnalò alla Dia l’esistenza della foto. Quel che è certo è che oggi sulla strage di via d’Amelio ed i fatti ad essa connessi si continua ad indagare. La Procura di Caltanissetta ha chiesto il processo nei confronti dei funzionari di polizia Mario Bo e i due sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia in concorso. Un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Gabriele Paci e dal PM Stefano Luciani. Intanto la Corte ha ritenuto “doveroso” disporre la trasmissione al Pubblico ministero dei verbali di tutte le udienze dibattimentali in quanto “possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità“. Ci sono ancora diverse zone d’ombra che avvolgono la strage. Misteri irrisolti oltre la sparizione dell’agenda rossa come l’identità dello sconosciuto uomo che Spatuzza ha detto essere stato presente durante la preparazione dell’autobomba; l’infiltrato di cui parla la mamma del piccolo Giuseppe Di Matteo con il marito nel 1993; le confessioni di Borsellino fatte alla moglie Agnese su Subranni e quelle fatte ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa riguardo “un amico che mi ha tradito”. A ventisei anni di distanza, questa sentenza, offre comunque una prima risposta.
Convergenza d’interessi I giudici, che parlano in maniera diretta di “disegno criminoso”, evidenziano come l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage di via D’Amelio, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato, potrebbe essere proprio uno dei moventi del depistaggio delle indagini. In particolare la Corte ricorda le parole del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré: “L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, che ha riferito che prima di passare all’attuazione della strategia stragista erano stati effettuati ‘sondaggi’ con ‘persone importanti’ appartenenti al mondo economico e politico”. Giuffrè ha precisato che “questi ‘sondaggi’ si fondavano sulla ‘pericolosità‘ di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a ‘fare affari’ con essa”.
Il movente del delitto e la trattativa Dunque perché Paolo Borsellino fu ucciso? Il magistrato palermitano “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra’”. I giudici, riprendendo le parole scritte dai PM nella memoria conclusiva, affermano che “appare incontestabile come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”. Secondo la Corte d’Assise, dunque, nella strage di Via D’Amelio, “era sicuramente riscontrabile la finalità di incutere terrore nella collettività con un’azione criminosa diretta contro Paolo Borsellino per tutto quello che egli rappresentava per la società italiana e volta a destabilizzare pesantemente le istituzioni, scuotendo la fiducia nell’ordinamento costituito. Ne consegue che la finalità terroristica è sicuramente riscontrabile nella strage di Via D’Amelio, la quale non fu soltanto un fatto di mafia, ma un fatto di terrorismo mafioso”.
Anomalie d’indagine Secondo la Corte d’Assise, “Le anomalie nell’attività di indagine – aggiungono i giudici della Corte d’Assise -continuarono anche nel corso della collaborazione dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ritrattazione della ritrattazione, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero”. La Corte ritiene “le indagini successive alla ‘collaborazione’ dello Scarantino furono contrassegnate da numerosi profili del tutto singolari ed anomali. Assolutamente anomala appare, ad esempio, la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino (colloqui che furono autorizzati dal PM Ilda Boccassini, ndr), detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia”. Altra anomalia si riscontra nelle condotte di alcuni poliziotti appartenenti al “Gruppo Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato. Questi “mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia, dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. ‘Borsellino uno'”. E i giudici ravvisano come “tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’Ispettore Fabrizio Mattei, escusso all’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino. Risulta però del tutto inverosimile che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura, e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale. A ciò si aggiungono ulteriori aspetti decisamente singolari segnalati da alcune parti civili. Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate”. La Corte cita anche la lettera che due PM, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano scritto ai colleghi per segnalare “l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino su via d’Amelio”. Una missiva che è stata rinvenuta anni dopo alla Procura di Palermo e non a Caltanissetta. Partendo da questi fattori la Corte d’assise, senza fare nomi, parla dell’operato dell’autorità giudiziaria. “Questo insieme di fattori – proseguono i giudici riferendosi alla valutazione che venne fatta delle parole di Scarantino – avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”. Quel che è noto è che non tutti i magistrati condussero dall’inizio quell’inchiesta. Ad esempio l’oggi sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel cosiddetto “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato, mentre istruì completamente il cosiddetto “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56). E proprio nelle conclusioni di quella sentenza, come riporta oggi la Corte d’Assise del “Borsellino quater”, si ritiene “che delle dichiarazioni rese da Vincenzo Scarantino non si debba tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio”. Sempre in quella sentenza si scriveva che “risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche”. Una trascrizione, quest’ultima, effettuata anche nelle motivazioni della Corte d’Assise che ha evidenziato come di “particolare rilievo” le parole dette da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio (“che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”) e la “drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un ‘colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato'”.
Candura-Andriotta La Corte mette in fila i colloqui investigativi che i funzionari di polizia avranno con Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. Scrive la Corte che “è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura”. Dunque “l’analisi che si è condotta sulla genesi della ‘collaborazione’ con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino – scrivono i giudici – lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.
Le note del Sisde Ma come si arrivò a Scarantino? Nel corso del processo vennero riscontrate alcune anomalie come ad esempio l’appunto con cui, in data 13 agosto 1992, il Centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo comunicò alla Direzione di Roma del Sisde che “in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abitava la madre del Giudice Paolo Borsellino. (…) In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”. La Corte, così come i pm, ricorda che in quella data ancora non era comparso sulla scena Candura, “prima fonte dell’accusa nella direzione della Guadagna”. Chi era dunque il soggetto a cui si riferisce la nota?“Quale fosse tale fonte nessuno ha saputo o voluto rivelarla – annotano i giudici – Residua allora il dubbio che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente ‘suggestionabile’, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via d’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti”. La Corte parla anche dell’iniziativa, definendola “decisamente irrituale”, presa dall’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai PM di Palermo nel dicembre del 1992, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio. In tal senso va sottolineato come la normativa vigente all’epoca, ancor già tenuto conto che Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura. E i giudici non possono fare a meno di rilevare che quella richiesta fece seguito alla “mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia”. La Corte ricorda “la particolare attenzione rivolta allo Scarantino dai servizi di informazione, nei mesi immediatamente successivi alla strage”, così come dimostrato in alcuni documenti segnalati già nella sentenza del “Borsellino uno”. Vi è un informativa riservata del Sisde, trasmessa alla Squadra mobile il 10 ottobre 1992, nella quale si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti. La Corte ricorda il dato che il Capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera, aveva già intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il Sisde (dal 1986 al marzo 1988), con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia, ma la Corte evidenzia che già nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del Sisde relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa.
Il falso mescolato assieme a un po’ di vero La sentenza riserva una parte delle motivazioni anche a quelle dichiarazioni dello Scarantino che, “pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità“. “Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di ‘collaborare’ con la giustizia, in data 24 giugno 1994 – scrivono i giudici – lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto”. Ebbene tutte queste circostanze sono “del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage”. Queste circostanze, che saranno anche raccontate da Gaspare Spatuzza (l’ex boss di Brancaccio che si è autoaccusato del furto dell’auto, ndr), come potevano essere note dai cosiddetti suggeritori? Secondo i giudici “E’ del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.
Il depistaggio Scarantino Quel depistaggio, costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione, viene indicato dalla Corte come “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”. Proprio sul gruppo degli investigatori dell’epoca, guidato da Arnaldo La Barbera (deceduto), vengono accesi i riflettori. Secondo i giudici sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta costruendo i falsi pentiti e la motivazione non si sarebbe celata dietro un’ansia di ottenere risultati nella ricerca dei responsabili del delitto del 19 luglio 1992. Scarantino viene descritto come “un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, nel frattempo, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva ‘maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai ‘incastrato’ sulla scorta di false prove'”. Secondo la Corte dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza del proposito criminoso portato avanti da quegli investigatori. Così furono compiute “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte“.
“Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” e “soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il balordo della Guadagna,Vincenzo Scarantino, a rendere false dichiarazioni sulla strage che, cinquantasette giorni dopo “l’Attentatuni di Capaci”, uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. E’ questo uno dei passaggi centrali delle motivazioni della sentenza del cosiddetto Borsellino quater che, a distanza di un anno e due mesi dalla pronuncia del dispositivo, è stata depositata dai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta.
- Alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra “Cosa Nostra” e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato.In proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di entrambe le vicende: si è già sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, dal Dott. Arnaldo La Barbera, il quale è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre. L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario – cheportò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione – rivelatasi poi infondata – che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone e lui più vicine nel periodo che precedette la strage di Via D’Amelio. Vanno richiamati, al riguardo, gli elementi probatori già analizzati nel capitolo VI. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, «chenon sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi edaltri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato». Occorre, altresì, tenere conto degli approfonditi rilievi formulati nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) secondo cui «risulta quanto meno provato che la morte di Paolo BORSELLINO non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. (…) E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come BORSELLINOavrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo diapproccio con COSA NOSTRA e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigioprofessionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche». Questa Corte ritiene quindi doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale (tra cui proprio quella della sottrazione dell’agenda rossa), di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata.
- ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti difondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
- alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziatadalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee alloro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondentialla realtà;
- (…) Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate.Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:
Borsellino Quater – dalla Sentenza …IL DEPISTAGGIO DI STATO
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- PROCESSO BORSELLINO QUATER – Primo grado
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BORSELLINO QUATER – L’arringa finale dell’avvocato di parte civile Fabio Repici Oggi concludo nell’interesse di Salvatore Borsellino e senza un filo di retorica dico che ho l’onore di concludere nell’interesse di Salvatore Borsellino non solo in quanto egli è il fratello di Paolo Borsellino ed è questa la ragione che gli dà un ruolo processuale in questa sede ma perché sono onorato di assistere qui l’ingegnere Salvatore Borsellino, uomo libero che ha vissuto le vicende che hanno portato alla morte del fratello. Ce ne è una traccia istruttoria di questo che sto per dire, attraverso il rapporto con la madre. Risulta nelle ricostruzioni che si sono fatte e sulle quali poi dovrò necessariamente tornare in relazione alle telefonate effettuate dalla utenza Fiore, dove nell’appartamento di Rita Borsellino, nei giorni precedenti e il diciannove luglio mille novecentonovantadue, dimorava
la signora Lepanto Borsellino. E’ proprio la signora Lepanto, la mamma di Paolo e Salvatore Borsellino, che è stata in qualche modo anche il collante con ciò che è stata la vita di Salvatore Borsellino dopo l’uccisione di suo fratello. Perché come dicevo nell’atto di costituzionef di parte civile e alla prima udienza dibattimentale con le richieste di prova… E mi permetto di osservare, signor Presidente, poi aggiungerò qualche cosa al riguardo, che sono non del tutto soddisfatto di ciò che con le mie minime capacità sono riuscito a
offrire a questo processo, però sono discretamente soddisfatto dall’essermi reso coerente fra ciò che erano le prospettazioni che avevo avanzato al momento delle richieste di prova e ciò che è stato il percorso che ho proseguito durante l’istruttoria e che completo oggi con la discussione. Dicevo in esito al… in occasione delle richieste di prova avevo spiegato come l’ingegnere Borsellino avesse proprio visceralmente un desiderio di accertamento pieno, quanto ripieno possibile della verità in questa vicenda processuale nella quale la verità era stata la settima vittima della strage. E negli anni successivi alla morti di suo fratello era stata proprio la madre a spingere, a convincere Salvatore Borsellino a divulgare in giro per l’Italia le parole, i pensieri e la figura di suo fratello fino a quando, proprio perché, come vi dicevo, uomo libero e refrattario a qualunque accomodamento cerimoniale, ha avvertito probabilmente che c’era uno iato eccessivo fra ciò che Stato aveva offerto alla memoria il suo fratello nell’impegno della ricerca della verità e ciò che di immensamente più grandi invece di suo fratello meritava. Ed è il motivo per cui per anni egli riparò lontano dalla scena pubblica sino a quando… e alle volte, Presidente, le cose hanno un senso pure quando uno non riesce immediatamente a provarlo, sino a quando nel duemila e sette egli decise che non poteva più tacere, che era forse un eccessivo tradimento tacere e allora era l’anno due mila e sette egli uscì dalla nicchia intimista nella quale si era richiuso e con voce alta e nobile reclamò e pretese dallo Stato ciò che era dovuto a suo fratello. E che quella specie di Truman show in salsa horror che era stata la ricostruzione, che erano state le indagini e la ricostruzione dei fatti su Via D’Amelio, venisse squarciato definitivamente. E poiché, dicevo, anche se noi alle volte non lo comprendiamo, forse le cose hanno sempre un senso, non è forse un caso che poco dopo ma egli non ne ha avuto né direttamente né indirettamente ne consapevolmente né inconsapevolmente alcuna azione causale, è passato poco tempo che il signor Gaspare Spatuzza cominciò a squarciare quello scenario di cartapesta orrido che in questo Paese si era costruito. E a quel punto è stata conseguente la il suo impegno anche in questo processo oltre che ciò che ha fatto fuori da questo processo. E le cose che dirò oggi sono probabilmente senza minimamente averle concordate io col mio assistito, spero di riuscire a renderle coerenti con quelle che sono state le sue pretese nella discorso pubblico.
Fatta questa premessa, signor Presidente, io voglio passare subito alla ricostruzione dei fatti con una minima parentesi che ritengo doverosa e cioè, parentesi minima perché, Presidente, lo dico senza piaggeria, questa è un’altra premessa che voglio fare, questo processo è stato lungo e faticoso per tutti; io lo voglio dire e io non sono soggetto che solitamente suscita grandi simpatie ma in questo penso che ci possa essere unanimità fra i pochi inclini alla simpatia nei miei confronti e di tanti inclini in altro senso, tutti all’unanimità possono riferire… tutti coloro che sono in quest’aula possono ben sapere come io sia proprio refrattario alla piaggeria, e proprio perché refrattario alla piaggeria io una cosa la voglio precisare: che in questo lungo dibattimento, faticoso, alle volte anche aspro la difesa di parte civile Salvatore Borsellino si è sentita garantita dall’operato di questa Corte, del suo Presidente e dell’intera Corte, ciascuno dei componenti, uno per uno individuali. E questo, Presidente, pure se naturalmente, come è normale
che sia, non sempre le decisioni possono essere state condivise. In realtà c’è stata una altissima proporzioni di condivisione… ce n’è stata una in particolare invece nella quale la condivisione, da questa parte sia processuale sia sostanziale non era possibile. E però è davvero un grazie sincero che noi offriamo alla Corte.
E a questo punto tre precisazioni in un appunto di diritto: abbiamo assunto una mole di materiale probatorio immenso. Enorme. Eppure, Presidente, i sinceramente dico… sia chiaro, il patrimonio probatorio è più responsabilità delle parti che lo offrono alla Corte. Naturalmente esistono i poteri d’ufficio della Corte ma è più responsabilità delle parti offrirlo alla Corte. Quella mole immensa di materiale probatorio forse è perfino insufficiente rispetto a quanto era doveroso assumerne. E le numerosissime udienze in cui è stata… sono state assunte prove orali in misura notevole sotto tutte le forme, testimoni, testimoni assistiti, imputati di reato connesso e tutte le altre prove che sono state acquisite, in realtà probabilmente non sono del tutto bastevoli, è stato fatto molto ma io non mi sento di poter dire che dalle parti sia stato fatto tutto e questo lo dico in punto primariamente di autocritica, prima per me e poi per gli altri. Certo che materiale probatorio e significativo. Certo, nel corso del processo, quanto alla prova orale abbiamo visto di tutto. Proprio in relazione a quell’occasione in cui io non ho condiviso la decisione della Corte ho scoperto che oltre ai testimoni, ai testimoni falsi e ai testimoni reticenti c’era anche un’altra categoria, che è quella dei testimoni renitenti, cioè di chi si sottrae, o cerca di sottrarsi al dovere che dovrebbe essere di tutti e, ai sensi dell’articolo cinquantaquattro della Costituzione, signor Presidente, mi perdoni, i soggetti istituzionali ben di più. E più alti sono nella loro collocazione delle istituzioni, ancora di più. Per questo è veramente, è stata per noi moralmente davvero intollerabile l’iniziativa di un testimone che, solo per puro caso, pro tempore si trovava assiso alla più alta carica dello Stato, il senatore Giorgio Napolitano, di cercare di sottrarsi a una testimonianza che era stata disposta dal giudice. Ed è quello sì uno sbrego che è stato fatto da quel testimone renitente al processo, che sarebbe stato meglio non ci fosse stato.
E però due precisazioni in punto di diritto vanno fatti, proprio sulla prova corale. Presidente e Giudice a latere, voi sapete che il nostro sistema, da quando l’Italia è un Paese
democratico ma pure prima in teoria sotto il punto di vista giuridico rifiuta il principio della prova legale. Lo rifiuta. Come è doveroso. E così, lo dico per i giudici popolari, non è che ci possono essere dichiarazioni testimoniali che devono essere prese in considerazione e dichiarazioni testimoniali che possono essere trascurate, delle quali il giudice può fare finta che non siano mai state acquisite e cestinarle. Non funziona così, perché il sistema processuale nostro prevede che il giudice dopo l’emissione della sentenza che attiene, con la lettura del dispositivo, completa la sentenza con le motivazioni, che sono le ragioni con le quali il giudice è tenuto a spiegare i motivi per i quali ha assunto quelle determinazioni e che sono l’unico modo che consentono democraticamente di controllare la rispondenza delle valutazioni del giudice rispetto alle prove acquisite e anche rispetto al percorso procedurale prescelto. E da questo, signor Presidente, lo sappiamo tutti che è da questo che deriva la necessità, non la possibilità, per il giudice, nella valutazione delle dichiarazioni dei soggetti escussi, di farla nel voto completo anche quando si tratti detti soggetti che mostrano, che hanno mostrato nel loro nella loro narrazione gravi pecche. Ed è una situazione di previsione codicistica, la nostra, che impone la valutazione frazionata delle dichiarazioni di chiunque, se quelle dichiarazioni non siano le più lineari o presentino aspetti di grave zoppia. Non si può prendere la dichiarazione e cestinarla e fare finta di non averla acquisita. Lo so che alle volte si è prescelta quella strada ma è una strada che è fuori dal corretto, dalla corretta impostazione codicistica perché è una strada che porta alla prova legale. Che è rifiutata dal nostro Codice perché… c’è una misura? E cioè, un testimone che ha detto cinquanta cose giuste ma ha detto una balla grande quanto una casa, cestiniamo anche le cinquanta cose giuste? Ne dobbiamo fare una proporzione quantitativa? Se le balle sono entro il cinquanta per cento si può tollerare sopra no? E non funziona così, ci vuole spirito di sacrificio nel ragionare. E’ così. Però è la cosa che dovrebbe contraddistinguere in senso nobile l’umanità.
E alle volte anche se uno ha detto nove balle la decima dichiarazione che ha detto invece è utile alla ricostruzione dei fatti e d’altronde, signor Presidente, mi scusi,anche l’articolo 238 bis indica dal giudice una fonte di prova e quella fonte di prova sono le sentenze passate in cosa giudicata e il Codice prevede, lo dico per i giudici popolari, che le sentenze
passate in cosa giudicata e, per farvi un esempio, qui ci sono le sentenze del processo Borsellino uno e del processo Borsellino bis, che passarono in cosa giudicata e che tuttora non sono state intaccate, probabilmente lo saranno, ma allo stato hanno i requisiti di cui all’articolo 238 bis. E l’articolo 238 bis, Presidente, attribuisce a quelle fonti probatorie esattamente, proprio esattamente, la stessa qualità delle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso, perché devono essere valutate secondo i canoni di cui all’articolo 192 terzo comma, cioè le dichiarazioni di un pentito equivalgono, quanto alla qualifica di diritto, alle sentenze irrevocabili. E poi proprio poiché si equivalgono, signor Presidente, noi dovremmo dire che, ad esempio, della sentenza del processo Borsellino uno passata in giudicato non si può fare uso? Dobbiamo cestinarla? E della sentenza Borsellino bis non si può fare uso? La dobbiamo cestinare se riterremo cheun gran pezzo di quelle sentenze non possa essere convalidato? Perché io ho sentito una parte, la pubblica accusa, sostenere che ci sono dichiarazioni di alcuni soggetti che non possono essere tenute in nessun conto, poi in realtà ne ha tenuto conto in malam partem, e però anche qui ci si dovrebbe mettere d’accordo o non se ne tiene conto o se devo tenere conto, frazionando le valutazioni. E però ha utilizzato correttamente frazioni di quelle sentenze sulla quali però peste e corna erano state dette per altri versi. Correttamente.
Seconda questione: che è stata resa necessaria persino dall’intervento del Procuratore della Repubblica. Presidente, le prove, per carità ci sono anche le prove atipiche però, più o meno, sono quelle previste dal Codice. E le prove hanno la loro capacità rappresentativa secondo la loro ontologia. I documenti fanno prova in relazione a ciò che rappresentano.
Un verbale di dichiarazioni, se acquisito solo come documento, vale per attestare che in quel dato giorno quella persona davanti a quelle altre è stata sentita. Punto. Io invece qui ho scoperto un tertium genus, dii prove che sarebbero dichiarative e quindi avrebbero la capacità rappresentativa della prova dichiarativa, cioè una rappresentazione di fatti, ma
poiché prova assunta nel consenso delle parti però, prova che ha una pecca patologica originaria, colloqui investigativi, e allora non può essere utilizzata ai fini della ricostruzione dei fatti ma può essere utilizzata ai fini della genesi per le valutazioni sull’attendibilità… perché le valutazioni sulla genesi, Presidente, è inutile prenderci in giro, sono valutazioni sull’attendibilità, sono valutazioni sul soggetto che dichiara, non sono sicuramente valutazioni che afferiscono alla forza dimostrativa ex articolo 234 e cioè che quel tale giorno c’è stato quel colloquio investigativo davanti a quel tal signore. Punto. Questo discorso, Presidente, lo sa meglio di me è irricevibile. Però ci andremo.
Andiamo ai fatti. Signor Presidente e signori giudici ciò che… si conclude, si conclude in qualche modo… si conclude nel modo più tragico il diciannove luglio del mille novecentonovantadue con la devastazione di un pezzo della città di Palermo e soprattutto l’uccisione di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina.
In realtà è una storia che risale, dobbiamo fare risalire più o meno al mille novecentottanta. Una delle sei vittime ne era ben consapevole, le altre cinque purtroppo o per fortuna, non so che dire, no. Però è certo che è più o meno dal mille novecentottanta che risale quella frazione della storia vissuta da Paolo Borsellino. E quello l’anno in cui Paolo Borsellino va all’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo e ci va occupandosi da subito di un episodio che l’omicidio del capitano Basile, avvenuto a Monreale il quattro maggio del mille novecentottanta. Ora, per carità Braudel già spiegato che la storia evenemenziale è una baggianata e le cose i percorsi dell’uomo hanno una lunga durata, non è che ciò che accadde nel mille novecentottanta nasce lì, però ci sono degli aspetti che ci fanno dire che fino a un certo momento l’azione di contrasto di Cosa nostra, soprattutto all’interno della magistratura ma in realtà analogamente nelle forze di polizia, era stato un’azione molto parziale e che si limitava all’impegno di singoli soggetti. Signor Presidente ne sappiamo, lo sa lei meglio di me che le sentenze e ordinanze istruttorie di Cesare Terranova, che aprirono uno dei processi più importanti che poi finì come finì a Catanzaro nel dicembre del mille novecentosessantotto, risalgono al mille novecentosessantatré sessantaquattro, La Barbera più altri, Liggio più altri… e Cesare Terranova quindi non si può dire che avesse omesso qualcosa nella sua azione intelligente di giudice che era chiamato a perseguire Cosa Nostra. E però cos’è che accade? E lo stesso può dirsi anche per Gaetano Costa, che viene ucciso il sei agosto del mille novecentottanta viene ucciso a seguito di una tremenda vicenda interna al Palazzo di Giustizia di Palermo, viene ucciso perché solo, viene ucciso perché tradito almeno da uno dei suoi sostituti… anche egli però si era mosso purtroppo individualmente; non per sua volontà, non aveva incontrato troppo troppa condivisione. Ciò che invece accade in conseguenza, in seguito alla morte di Cesare Terranova del settantanove, con l’intervento di Rocco Chinnici alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo, è che l’azione non è più individualistica, non è più il bravo giudice istruttore Cesare Terranova che da solo si trova operare contro tutti ma ce ne sono intanto almeno due che operano in modo non collegiale ma condiviso, sotto una guida saggia e coraggiosa. E quindi all’inizio dell’ufficio istruzione guidato Rocco Chinnici, per la prima volta nella storia palermitana e quindi d’Italia c’è un gruppo di magistrati che operano nel contrasto a Cosa nostra e uno di questi appunto è Paolo Borsellino. Che, risulta dall’istruttoria, proprio in conseguenza di ciò che inizia a fare subito nell’istruttoria sull’omicidio del capitano Emanuele Basile, comincia prima a essere destinatario di un tentativo indiretto di avvicinamento o comunque di induzione a essere più mite, tentativo che naturalmente non poteva fare che la fine abbia fatto e a quel punto entra già nel mirino di Cosa nostra. Questo lo dico perché uno degli aspetti che va valutato, che già è stato in realtà valutato in modo che ha anche il valore probatorio di quell’articolo 238 bis dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catania in sede di rinvio nel processo congiunto Borsellino bis – Capaci, estensore la dottoressa Spanto, però l’azione di Borsellino comincia a essere guardata malevolmente da Cosa Nostra già nei primi anni ottanta. E però è dal mille novecentottantadue, con il deposito della informativa Michele Greco più centosessantuno, che nasce uno dei capolavori giudiziari della storia d’Italia, uno dei cui principali artefici fu proprio Paolo Borsellino. Quell’informativa dell’ottantadue è il primo passo che porta al maxiprocesso e venne firmata da Ninni Cassarà per la polizia e da Angiolo Pellegrini per i carabinieri. E l’azione non venne fermata neanche quando il ventinove luglio del mille novecentottantatré il capo dell’ufficio istruzione, il capo di Paolo Borsellino Giovanni Falcone venne assassinato. Apro una parentesi: il processo di oggi è il processo per una strage oltre che per le calunnie commessa da Cosa Nostra ai danni, come obiettivo preciso di un magistrato, con un’autobomba. Sappiamo che Paolo Borsellino non è stato purtroppo il primo magistrato siciliano ucciso da Cosa nostra, ce ne sono stati altriprima di lui, Pietro Scaglione, Cesare Terranova e Gaetano Costa di cui avevo detto, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Giacomelli, Livatino, Giovanni Falcone… non so se ne sto colpevolmente dimenticando qualcuno… sì Saetta. E però l’autobomba che colpisce un magistrato ha un solo precedente, che è Rocco Chinnici. Ce ne sarebbe anche un altro, sconosciuto al Paese, che io ho scoperto in altra latitudine, sei mesi prima della strage Chinnici un’autobomba aveva colpito un pretore in Val d’Aosta, nel centro di Aosta, un pretoree che indagava sul Casinò di Saint Vincent, si chiamava Giovanni Selis. Ma è un’altra storia. L’azione va avanti nonostante l’uccisione di Rocco Chinnici grazie alla all’intervento di Antonino Caponnetto e si arriva al maxiprocesso con la sentenza ordinanza scritta a quattro mani da Paolo Borsellino Giovanni Falcone, non nel loro ufficio non nella loro comodità delle loro case ma in un carcere, all’Asinara. Sappiamo che poi gli venne anche mandata la richiesta di pagamento da parte del ministero. Quello è, nell’attività di Paolo Borsellino, forse il momento finale della parabola ascendente di un certo periodo, perché, Presidente, poi a febbraio e ottantasei si apre il dibattimento del maxi processo e cominciano, mi viene da dire, gli anni del riflusso. E cominciano anche gli anni del riflusso investigativo soprattutto perché accade nel mille novecentottantacinque che tiene macellata la squadra mobile di Palermo nei suoi vertici migliori, Ninni Cassarà e Beppe Montana. Fra i due fatti c’è l’uccisione del mafioso Salvatore Marino negli stessi uffici della questura di Palermo, che comporta un ulteriore sconquasso. Certo è, ma lo dico perché c’è un riferimento rilevante sulla vicenda di Paolo Borsellino, certo è che, fra la devastazione della squadra mobile di Palermo e l’allontanamento da Palermo del colonnello Pellegrini, le forze di investigazione a Palermo precipitano nel buio, sia dal lato della squadra mobile sia dal lato dei carabinieri, dove il successore di Pellegrini è il colonnello, il cui nome divenne famoso di lì a poco, Mario Mori, che copre gli anni del riflusso fino al mille novecentonovanta.
E però in Polizia interviene nel mille novecentottantotto un soggetto che è protagonista di questo processo, Arnaldo La Barbera, a guidare la squadra mobile. Questo l’ho detto, delle condizioni delle forze di investigazione palermitane di quegli anni perché, Presidente, lei ricorderà le parole del figlio di Paolo Borsellino in questa sede, al riguardo di un’intervista rilasciata nell’estate del mille novecentottantotto da Paolo Borsellino, che in quel momento era procuratore della Repubblica a Marsala, e che disse che lo Stato aveva abdicato alla otta alla mafia e che le forze di polizia a Palermo erano a zero. E in quel momento ce l’ha detto Manfredi Borsellino, il riferimento di suo padre era anche, non solo ai carabinieri, ma anche alla squadra mobile guidata da Arnaldo la Barbera, che peraltro Paolo Borsellino si ritroverà ancora come capo della squadra mobile quando, nel primo semestre del mille novecentonovantadue, rientrerà Palermo da Marsala come procuratore aggiunto della Repubblica. E’ in quegli anni che si stratificano patologie che poi hanno una loro epifania iniziale nel mille novecentottantanove, con la strage dell’Addaura, col duplice omicidio Agostino-Castelluccio… cito fatti che poi hanno un rilievo per questo processo, Presidente… e che poi hanno un continuum e porteranno al novantadue. E però prima di arrivare al novantadue, il giudizio del maxiprocesso, che aveva avuto la storica sentenza di primo grado della corte d’assise di Palermo del sedici dicembre mille novecentottantasette, aveva avuto anche un appello che in relazione alla responsabilità dei componenti dell’organo direttivo di Cosa nostra, era un po’… aveva preso un’altra strada rispetto alla sentenza di primo grado, e nel frattempo era intervenuto un altro elemento che avrà un ruolo decisivo per ciò che accade nel mille novecentonovantadue: Giovanni Falcone lascia la Procura di Palermo e arriva al Ministero allora ha detto di Grazia e giustizia… e lo cito in relazione al maxiprocesso, Presidente, perché arriva il dottore Falcone al Ministero ed interviene la scarcerazione per decorrenza termini del maxiprocesso, e interviene il cosiddetto “decreto di cattura”, che con norma interpretativa… decreto legge del Governo poi convertito, ripristina la carcerazione che era stata disposta per molti boss. Questo lo dico perché l’azione di Giovanni Falcone al Ministero prosegue fino al ventitré maggio del mille novecento novantadue, e il paradosso vuole che il Governo a guida di quel Presidente del Consiglio si chiamava Giulio Andreotti si trova a essere il Governo che emette i provvedimenti più duri della storia d’Italia quanto all’azione di contrasto contro Cosa nostra.
Ora, Presidente, noi sappiamo che il ventitré maggio mille novecentonovantadue a Capaci l’autostrada esplode e muoiono cinque persone e fra queste l’obiettivo, che era Giovanni Falcone, tre poliziotti e un altro obiettivo… o meglio, un’altra persona, che era la moglie di Giovanni Falcone, la dottoressa Francesca Morvillo, che forse non si è mai riflettuto su questo, Presidente, forse c’era una ragione perché fosse anch’ella obiettivo. Dico questo perché, Presidente, noi oggi ci troviamo a celebrare questo processo innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta per un delitto compiuto pacificamente a Palermo e ci troviamo qui ai sensi di una norma del Codice, l’articolo undici, che prevede che per i reati che vedono un ruolo per i magistrati di un distretto, il processo si deve celebrare in altro distretto e quindi Caltanissetta per Palermo. Però, Presidente, il ventitré maggio del mille novecentonovantadue Giovanni Falcone non era magistrato del distretto di Palermo, perché era fuori ruolo già da un anno e tre mesi, e se non ci fosse stata Francesca Morvillo in macchina, se non fosse stata colpita Francesca Morvillo da quella azione delittuosa, non ci sarebbe stata competenza dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta sulla strage di Capaci. E’ una riflessione che mai ha trovato troppi attenti osservatori ma è un fatto come è un fatto che, al momento in cui quella strage viene compiuta, la procura di Caltanissetta, quanto alla guida era in una fase di vacatio perché la il precedente Procuratore, che era stato già trasferito sulla carta a Palermo, il dottore Celesti, era ancora in servizio a Caltanissetta ma era già stato bandito il concorso dal Consiglio superiore della magistratura per la copertura del ruolo di Procuratore della Repubblica a Caltanissetta. E la, penso fosse anche all’epoca la quinta Commissione, aveva proposto come Procuratore della Repubblica il dottor Giovanni Tinebra, come unico proposto. E, Presidente, cosa accade? Accade che c’è quel quel disastro che ha degli sconquassi, direi a livello internazionale, ha degli effetti così clamorosi perfino nella storia della Repubblica, determina l’elezione di un Presidente della Repubblica piuttosto che di un altro e è in quello scenario che al Consiglio Superiore della Magistratura qualche mente illuminata dice ‘beh, poiché la procura di Caltanissetta ora si dovrà occupare delle indagini sulla strage di Capaci, è bene riaprire i termini per le domande’. E però invece ebbe più forza la necessità a fatata che fosse Procuratore della Repubblica Giovanni Tinebra e così il sistema decise e il ventisei maggio del mille novecentonovantadue il plenum spiegò alla Repubblica che a svolgere le indagini sulla strage di Capaci sarebbe stata la Procura guidata da colui che in quel momento era stato procuratore della Repubblica a Nicosia, provincia di Enna.
Presidente, ho citato il fatto soprattutto per una ragione: noi sappiamo che la vita di Paolo Borsellino ha avuto un prima e un dopo. E il dopo è durato solo per cinquantasette giorni. Tanti testimoni hanno spiegato come, nel pomeriggio di sabato ventitré maggio, Paolo Borsellino cambiò. Fu letteralmente, somaticamente un’altra persona; la gioiosità
che in tante immagini abbiamo visto e che tanti testimoni hanno riferito a voi, scompare. Ora, signor Presidente, io questo dato lo sottolineo alla Corte per una ragione, che secondo me ha visto difettosa la ricostruzione della Procura e cioè: i fatti percepiti da Paolo Borsellino dal ventitré maggio al diciannove luglio 1992 hanno, anche sulla persona di Paolo Borsellin,o anche nelle valutazioni di Paolo Borsellino una misura diversa, da quella che avrebbero avuto fino al ventitré maggio mille novecentonovantadue; perché nel frattempo che cosa era accaduto? Era accaduto che c’era stato l’omicidio di Salvo Lima. Ma noi sappiamo che l’omicidio di Salvo Lima era la conseguenza di un fatto che ha un rilievo processuale diretto sulle imputazioni di questo processo, in particolar modo sulla posizione dell’imputato Salvatore Madonia e cioè quel capolavoro giudiziari maxiprocesso, di cui principali, se non quasi unici, artefici erano stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino trovò esito con la sentenza del trenta giugno mille novecentonovantadue, emessa dalla Corte di Cassazione presieduta per fortuna non più dal dottor Corrado Carnevale ma, nell’occasione, dal dottor Arnaldo Valente in conseguenza ad una attività di monitoraggio che era stata disposta, come sappiamo, su sollecitazione del Ministero, Ministero nel quale operava Giovanni Falcone, c’era stata una determinazione del Primo Presidente dell’epoca, dottor Brancaccio credo fosse, noi però sappiamo che Cosa Nostra apprende dell’esito del processo prima ancora che avvenisse. Mi verrebbe da dire con Rilke, perchè? Perché cosa nostra i processi… sì ogni imputato aveva il suo difensore… ma fino a un certo momento li aveva decisi fuori dalla sede propria e il maxiprocesso per Cosa Nostra era quella bestia che i vertici di Cosa Nostra non riuscivano a controllare e in diretta ebbero contezza di non riuscire più a controllare. Presidente, sappiamo come Riina tentò di adoperarsi e come a un certo punto incaricò, lo riferisce Brusca, tutti, tutti gli uomini di spessore di Cosa nostra di adoperarsi per come fosse a ciascuno possibile per aggiustare il processo in Cassazione, a colpi di soldi a colpi di violenza com’era… come avvenne il nove agosto del mille novecentonovantuno con l’uccisione del dottore Scopelliti. Quando Cosa nostra apprende che il maxi processo non può essere aggiustato e che quindi finirà male fa un conclave, anzi, più di un conclave, fa due conclavi; viene radunata la Commissione regionale e, Presidente, sappiamo che era un organismo del quale in quel periodo non abbiamo notizia, a parte l’assise nelle campagne di Enna dell’autunno mille novecentonovantuno, che in realtà sarà una seduta permanente che, come ci hanno riferito e come avevano riferito ad altre corti alcuni collaboratori di giustizia, sta in seduta permanente sostanzialmente fino a febbraio, con un programma politico, che è un programma delittuoso ma politico perché nella riunione di Enna noi sappiamo che viene deliberato l’avvio di una campagna stragista ma di una campagna stragista che ha un diretto obiettivo politico che è quello di svoltare la storia del Paese, la convivenza che Cosa Nostra aveva avuto con il sistema di potere imperante fino a quel momento si era persa e bisognava quindi stravolgere gli equilibri e trovare altri alleati ma contemporaneamente, signor Presidente, per la prima volta nella storia di Cosa Nostra viene addirittura fatto un marchio politico, perché noi sappiamo che a lei la riunione di Enna prende, da parte di Cosa nostra prende avvio un’idea davvero straordinariamente sorprendente e cioè che i delitti di Cosa nostra vanno rivendicati non era mai successo nella storia. Mai. Solitamente venivano rivendicati ad altri al più, veniva depistati. Ma Cosa nostra decide che vanno rivendicati quei delitti con una sigla strana, che ha un carattere chiaramente politico, perché si chiama Falange Armata, che è una sigla che aveva avuto evocazione già da prima, e qui, Presidente, il fatto è rilevante. Il fatto è rilevante perché poi ci sarà un argomento da trattare e cioè: è stata solo Cosa Nostra? Falange armata non era una locuzione inedita nella storia d’Italia, perché è una locuzione che trova vita a partire dall’undici aprile del mille novecentonovanta data in cui un educatore penitenziario, in servizio al carcere di Opera, Umberto Mormile, venne assassinato. E il primo proclama pubblico a nome della Falange Armata fu la rivendicazione dell’omicidio Mormile. Circostanza, Presidente, che dovrebbe anche fare poi un po’ riflettere sulle vicende relative all’applicazione del quarantuno bis da parte dello Stato, alla luce di, ma qui racconterei un’altra storia, ciò che ha raccontato uno dei killer di Umberto Mormile e cioè che la famiglia Papalia, responsabile di quel delitto, diede disposizioni di rivendicare quel delitto nome della Falange Armata perché la causale di quel delitto era stata che Umberto Mormile era stato testimone dell’indicibile: l’incontro in carcere fra Domenico Papalia e i servizi segreti.
Quindi a Enna c’è quella riunione. A quella riunione fa seguito un’altra assise, in questo caso a Palermo. Sappiamo che il cuore di Cosa Nostra è Palermo, era Palermo, lo è probabilmente ancora seppure siamo in un’altra, completamente altra epoca, e sappiamo, perché ce lo racconta, ce l’hanno raccontato miriadi di sentenze che le decisioni comunque vanno comunque prese dalla Commissione provinciale di Palermo e sappiamo che la commissione provinciale di Palermo si riunì poco prima del tredici dicembre mille novecentonovantuno, la riunione degli auguri tutti Natale, sul punto rimando a quanto è scritto nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catania, Presidente, è la riunione
che ha un valore a livello effettuale deliberativo della stagione regista che Cosa Nostra decide di intraprendere, stagione stragista che ha quali obiettivi i nemici di Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e degli amici non più tali o non più utili. Il senso passò su un giornale umoristico del tempo, Presidente, a proposito dell’omicidio Lima come John Lennon ucciso da un fan impazzito, si disse. Intendeva dire: gli amici ora uccidono.
C’è un dato però, Presidente, su questo che secondo me è stato sottovalutato. Perché che cosa ci ha detto il processo? Ci ha detto che quella deliberazione di Cosa nostra venne conosciuta all’esterno, addirittura da uomini dello Stato, perché un ministro del tempo, tal Calogero Mannino, apprende che è fra gli obiettivi di Cosa nostra. E qui, come dire, nessuno si è ancora interrogato, mi auguro che prima o poi qualcuno lo farà, su come sia stato possibile che lo Stato, una parte dello Stato abbia saputo della delibera presa dal cuore pulsante di Cosa nostra. Ciò che accade in quella riunione, c’è già il giudicato, ha un valore, a carico di tutti i partecipanti a quella riunione deliberativa, di concorso corale nei delitti eseguiti in attuazione di quel deliberato.
Sul punto, Presidente, io nei giorni scorsi io sentito seppure a distanza parti che si sono adesivamente riportate ad altre parti, a quanto esposto da altre parti. Io sono proprio ontologicamente incapace di farlo ma in un processo del genere ritengo che sia veramente curioso che si possa essere d’accordo su qualunque cosa. Mi sembra un dato… anzi,
lo riterrei quasi patologico se lo facessi io. Alcune cose che ho sentito e che ho letto io le ho condivise e sicuramente la ricostruzione della procura sulla posizione di Salvatore Madonia è indubitabilmente corretta. Mi permetto di osservare però, Presidente, una zoppia del discorso in relazione all’esame delle fonti di prova. E cioè, è corretto, c’è il 238 bis, sentenza Corte d’Assise d’Appello di Catania in sede di rinvio, c’è Giuffrè, c’è Brusca, c’è Cancemi. C’è soprattutto Giuffrè, perché il pilastro è Giuffrè e, Presidente, non c’è dubbio che, fra queste tre voci, quella di Giuffrè è la più credibile e in modo direi pacifico. E però bisogna portarle a compimento tutte le conclusioni e Giuffrè è vero che attendibile e riscontrato, ma su tutto, non solo sulla riunione del dicembre del mille novecentonovantuno perché Giuffrè ha detto anche delle altre cose che invece sono state del tutto trascurate.
(interruzione) Dicevo che su Salvatore Madonia è più che corretto il quadro rappresentato dalla pubblica accusa e le fonti di prova che vi ho proprio elencato, senza necessità di alcuna sottolineatura o di alcun approfondimento rendono Salvatore Madonia meritevole della condanna quale responsabile a titolo di concorrente morale per i capi A, B e C che gli sono contestati.
Dicevo che la vita di Paolo Borsellino cambia il ventitré maggio del mille novecento novantadue. E il processo ha raccolto la prova anche che egli, dal ventitré maggio mille novecentonovantadue, visse sapendo che la sua fine sarebbe stata imminente. E’ incomprensibile a me dove abbia reperito le forze inumane che quell’uomo ha speso in quei cinquantasette giorni perché, Presidente, davvero è un una cosa che va fuori dalla possibilità del… veramente, dell’umana comprensione. In quel momento egli, forse ancora e solo applicato alla data del ventidue maggio novantadue alla Procura di Palermo, anzi senza il forse, formalmente ancora Procuratore della Repubblica di Marsala tanto che poi,
diciamo i saluti, la cerimonia dei saluti, vado a memoria, dovrebbe essere credo il quattro luglio. Ma già opera a Palermo. Opera Palermo e la strage di Capaci gli dà un ruolo che quindi comprende a quel punto di avere. Signor Presidente, io prodotto all’epoca delle integrazioni probatorie, le parole, alcune delle parole di Paolo Borsellino fra il ventitré maggio il diciannove luglio del mille novecentonovantadue. Aggiungo una notazione che è personale: io, le parole del discorso del venticinque giugno mille novecentonovantadue, a Casa Professa non le ho lette ex post ma le ho ascoltate dal vivo. Ce n’è traccia nei video, nessuno mi riconoscerebbe visto i capelli che al tempo avevo, ma ero lì ad ascoltare quell’uomo ed è difficile spiegare la… ascoltando un po’ dal tratto della voce si coglie ma il tono plumbeo delle riflessioni e al contempo la forza di fare ciò che sente di dover fare e sente di dover fare nel più veloce tempo possibile e fra queste una cosa la dice il venticinque giugno del mille novecentonovantadue. Dice:
ci sono cose che io qui a voi non racconterò, perché ci sono cose che devo raccontare come testimone alla Procura di Caltanissetta’. Che fu renitente. In questo caso ad essere renitente fu l’ufficio. C’è un’altra cosa, Presidente, che cambia, l’ha raccontata tra gli altri, tra molti, ma in modo proprio chiaro il testimone Ingroia. C’è un’altra cosa che cambia in Paolo Borsellino il ventitré maggio del mille novecentonovantadue. Fa una cosa che non aveva mai fatto, che non avrebbe mai fatto, che quando vedeva fare agli altri la contestava, anche quand’era fatta dal suo migliore amico. Noi sappiamo che a commento dei diari, dei brani, degli stralci dei diari di Giovanni Falcone pubblicati dalla giornalista Liana Milella, quando gli si chiese contezza della veridicità o meno e, anzi, ancora prima quando si diceva dei diari e si temeva la sparizione che, purtroppo, più che un timore la sparizione di dati di memoria di Giovanni Falcone è un fatto, Paolo Borsellino commentava criticamente. Ma noi sappiamo che dopo il ventitré maggio millenovecentonovantadue Paolo Borsellino cominciò a prendere annotazioni su una agenda rossa.
Quando in premessa parlavo dell’urlo di verità e di giustizia del mio assistito, Presidente, non è un caso che il mio assistito, quando decise di rioccupare la scena pubblica di questo Paese, cercando di cacciare dalla scena pubblica chi è indegno di starci, lo ha fatto costituendo un gruppo di persone, una associazione che si chiama per l’appunto ‘Le Agende Rosse’ e questo perché? Perché, Presidente, noi l’agenda rossa non ce l’abbiamo. Qualche idea su dove sia finita, ora vedremo di farcela, però un’idea del suo contenuto ce la possiamo ben fare. Sappiamo che nell’agenda rossa Paolo Borsellino in modo proprio compulsivo prendeva continuamente appunti sulle cose più dedicate che percepiva, che recepiva, che capiva. E questo ce l’hanno detto i soggetti a lui più vicini, sia familiarmente sia professionalmente in quei cinquanta sette giorni. Basti, quanto ai contatti professionali, riferirsi alla deposizione del teste Carmelo Canale o del teste Diego Cavaliero. Ricorderà la Corte il maremoto provocato da Paolo Borsellino a Salerno allorché una mattina non riuscì più a trovare l’agenda rossa. Presidente, pensi qual era la delicatezza del contenuto di quel documento e ora, facendo un passo avanti ma poi ci arriveremo, Presidente pensi a quanto si è stato proprio la abiezione più grossa in assoluto, lo stupro della figura morale di Paolo Borsellino dopo la sua uccisione, che non Cosa nostra ma dei banditi di Stato siano appropriati dell’agenda rossa. Quando pensate a questo dovete pensare alla reazione furente di quella mattina di Salerno, Presidente. Quanto al contenuto ci andremo, perché in realtà alcune cose le possiamo già percepire. Per fortuna una donna che non c’è più ha lasciato delle parole e Agnese Piraino Borsellino, negli ultimi anni della sua vita, ha consentito a noi di comprendere la qualità del contenuto dell’agenda rossa.
Non c’è dubbio che dal ventitré maggio novantadue Borsellino si dedica anima e corpo a capire. Sfugge, come dice lui il venticinque giugno novantadue a uno sport che all’epoca divenne in voga, la gara a chi era più amico di Giovanni Falcone… quelle parole andrebbero lette e rilette a tanti anche ad alcuni che hanno testimoniato in questo processo, uno in particolare, ed erano a lui dedicate, indubitabilmente. Anziché dedicarsi all’hobby nazionale “chi è più amico di Giovanni Falcone”, si dedicò a cercare di capire e di scoprire. Cominciò un’attività frenetica ed egli era uno dei pochi se non forse l’unico che poteva comprendere alcuni dati. Alcuni li avevano potuti forse valutare insieme, insieme a Giovanni Falcone, e mi riferisco all’omicidio Lima e a un omicidio del quale egli si occupò personalmente e cioè l’omicidio di Giuliano Guazzelli, quattro aprile mille novecentonovantadue. Giuliano Guazzelli che in quel il momento è l’interfono fra il generale Subranni e il ministro Mannino; e viene ucciso e le indagini vengono svolte
dal corpo, dal reparto asseritamente di alta specialità di investigazioni dell’Arma, il Ros e vengono puntualmente mirate in errore. Dico puntualmente, Presidente, perché prima o poi ci sarà qualcuno che si farà carico di costruire la storia delle investigazioni sugli assassini dei carabinieri nei quali in qualche modo ci ha messo mani il Ros, sia in epoca in cui era tale formalmente, sia ante litteram e cioè la strage di Alcamo Marittima del gennaio settantasei, i due carabinieri uccisi e le indagini fatte, perfino contro Peppino Impastato, che fu destinatario di una perquisizione, indagini curate dal colonnello Russo. Presidente, c’è stato un signore che ha fatto più di ventidue anni di carcere, ingiustamente condannato,
si chiama Giuseppe Gulotta, e costretto a confessare. La cosa richiama qualcosa da queste parti. La revisione l’ha fatta da solo. Non ci sono stati i pubblici ministeri che gli si sono affiancati con le fanfare. L’ha ottenuta dopo tanti tentativi, poi gliela hanno dovuta dare. L’omicidio del colonnello Russo, questo lo dico facendo un’autocritica, Presidente,
perché purtroppo anche lì, l’omicidio del colonnello Russo, le indagini fanno gli uomini del Ros e prendono tre innocenti che vengono condannati puntualmente e solo nel novanta credo sei, forse Presidente lei ricorderà più di me, ottennero la revisione. Certo quando ci sono i pentiti di Cosa Nostra che spiegano che non erano stati i tre pastori, così come non erano stati i tre ragazzetti, uno anarchico di Alcamo Marittima, a uccidere quei due carabinieri e non erano stati i tre pastori uccidere al bosco… al Bosco della Ficuzza il colonnello Russo e il professore Costa, ma era stato personalmente un tale Leoluca Bagarella. E però le indagini di quel gruppo, mi verrebbe da dire grumo, dei carabinieri punta in direzione sbagliata nonostante si tratti… è come se Paolo Borsellino dopo l’uccisione di Giovanni Falcone avesse puntato le sue idee sulla responsabilità dell’uccisione di Falcone deragliando. Viene ucciso il capo di un gruppo dell’Arma, seppure in quel momento è dedito ad altro. Presidente, l’omicidio Russo è il preambolo, il primo dei preamboli della guerra di mafia. Nel settantasette viene ucciso Russo, nel settantotto Di Cristina e Calderone e nell’ottantuno si comincia da Bontade e tutti gli avversari dei Corleonesi vengono massacrati. E infatti Russo viene ucciso dai Corleonesi e sappiamo, non in questo processo, forse parzialmente anche in questo processo, dei legami con l’area Badalamenti. L’omicidio del maresciallo Guazzelli fu la stessa cosa. Chi fu, dice il Ros? La Stidda. Viene ucciso un loro uomo, perché Guazzelli era informalmente uno del Ros e però fu la Stidda. E poi sappiamo che dopo una condanna in primo grado arrivano i pentiti di Cosa nostra ‘ma guardate che avete sbagliato’. Lì non ci fu necessità di revisione perché in appello la sentenza fu riformata. Presidente, Paolo Borsellino conosceva Guazzelli, sapeva chi era e fa le indagini sull’omicidio Guazzelli e naturalmente gli stiddari arrestati dal Ros vengono arrestati dopo la morte di Paolo Borsellino. Però, Presidente, noi sappiamo ciò che accade a fine giugno del novantadue. Sappiamo che il ventotto giugno del mille novecentonovantadue Paolo Borsellino rientra da Giovinazzo, era stato ad un congresso della sua corrente e per rientrare a Palermo passa da Fiumicino e viene contattato e incontra… incontra casualmente anche il ministro Andò, ma incontra non casualmente la dottoressa Liliana Ferraro, la quale gli riferisce di avere appreso dal capitano De Donno, che il dottore Borsellino conosceva, che il colonnello Mori, o meglio, che il capitano De Donno stava supportando il colonnello Mori nel contattare, chi? Vito Ciancimino, per avviare un discorso politico, perché sappiamo che viene chiesto a De Donno, non sono in quell’occasione, viene chiesto pure dalla dottoressa Ferraro e poi a Mori viene chiesto dall’onorevole Violante, se è stata informata l’autorità giudiziaria e la risposta è ‘no, è un discorso politico’. Cosicché abbiamo scoperto che il Ros faceva discorsi politici. E questi discorsi politici li faceva con Vito Ciancimino. Ora, signor Presidente, c’è una cosa che non si è colta del tutto; le avete lette, le rileggerete, io ho cercato di farle emergere con la deposizione di Antonino Giuffrè, che non c’è dubbio che sia uno dei collaboratori di giustizia più attendibili. Ma è mai possibile che… intanto una cosa… una questione terminologica, Presidente, perché veramente non ce la faccio più, non è più tollerabile. Si dice: “Ah ma che c’entra, quella è un’operazione di polizia giudiziaria”. Allora noi sappiamo che quell’operazione è fattualmente consistita in questo: un organo di alta investigazione, di eccellenza incontra un mafioso, il più mafioso dei politici più politico dei mafiosi, che era condannato già in appello per mafia, quindi non era un mafioso così ritenuto, era un mafioso. Ma non lo incontra per raccogliere dichiarazioni, confidenze. No, lo incontra perché il mafioso riferisca messaggi ai vertici di Cosa nostra.
Presidente, sull’attività del Ros con Vito Ciancimino non c’è un bigliettino, manco un pizzino, di relazione di servizio. Neanche una! Ma perché nessuno se lo chiede. Come mai? Presidente, ma se fosse stato il brigadiere di paese che incontrava il mafiosetto per avere informazioni, quante relazioni di servizio avrebbe scritto? Magari avrebbe scritto “fonte degna di fede” e non scriveva il nome e il nome lo riferiva solamente al suo superiore. E però, Presidente, qui invece avviene quello che ho raccontato, che, Presidente, a coloro che sembra che gli viene l’orticaria quando sentono la parola “trattativa”, perché non si deve dire… è vero, non si deve dire, e io utilizzerò la parola usata Mario Mori che l’ha usata coram populo, l’ha detta agli italiani nel dicembre del due mila quattordici intervistato dalla giornalista di Ballarò e disse: “E’ vero, non fu una trattativa, fu un baratto”. Okay, la chiamiamo “baratto”. Il Ros fa il baratto con Ciancimino. Ciancimino, un uomo di Cosa Nostra seppure non formalmente punciuto. E, Presidente, c’è una cosa, per questo io citavo Giuffrè, se io scelgo un interlocutore, lo scelgo a ragion veduta, io voglio ottenere A, scelgo quel soggetto, io voglio ottenere B, scelgo quell’altro soggetto. E quindi la dovremmo fare una riflessione su chi fu l’interlocutore, l’interfono fra Ros e cosa nostra Vito Ciancimino? Perché, e qui richiamo Giuffrè, Vito Ciancimino non era esattamente l’uomo dell’intera Cosa nostra, no, era l’uomo di Bernardo Provenzano. Quindi il Ros, Mori, il baratto lo fa non con l’intera Cosa nostra, lo fa con Bernardo Provenzano. E d’altronde cosa dice Giuffrè poi della cattura di Riina, fatta da chi? Presidente, quanti latitanti siciliani di Cosa nostra ha catturato il Ros? Uno. Pensi a tutti, ma li prenda tutti, i componenti delle Commissioni provinciale e regionale di Cosa nostra. Il primo fu catturato dal Ros, il capo Totò Riina. Forse in quel momento paradossalmente re Travicello. Ma poi nessuno. Ne-ssu-no. L’organo di alta investigazione. E che dice Giuffrè? Come commenta Provenzano l’arresto di Totò Riina? Sono dei sacrifici che vanno fatti agli dei. Che evoca qualche cosa che direi un po’ oltre Cosa Nostra. Ma è certo che Nino Giuffrè dice quando ne chiede conto a Bernardo Provenzano avendone letto notizia del contatto fra Ciancimino, che nel frattempo è in carcere, e il Ros, Bernardo Provenzano disse “stai tranquillo è in missione”. Che non è una scena del film dei Blues Brothers, è davvero in missione e per chi se non per Bernardo Provenzano? Presidente, questo io non è che lo cito a caso perché il Ros mi sta antipatico. Sa perché lo cito? E lo cito proprio in relazione alla tappa di Giovinazzo perché tra i documenti che io ho prodotto c’è un’intervista al quotidiano di Bari, Il Corriere del Mezzogiorno, che viene pubblicata, vado a memoria, non non la prendono il documento né lo leggo il tre credo luglio mille novecentonovantadue, ma noi sappiamo che da Giovinazzo Paolo Borsellino va via il ventotto giugno. E’ naturale che poi l’intervista venga pubblicata giorni dopo.
Ma al 3 luglio del 1992 il primo che lo dice Borsellino e, Presidente, per questo io dico che i percorsi ricostruttivi logici vanno portati fino in fondo… quando il 28 giugno Paolo Borsellino apprende da Liliana Ferraro che è in corso il baratto tra il Ros e Vito Ciancimino, non solo egli sa che Vito Ciancimino é uomo di Bernardo Provenzano, ma già comincia ad esserci una dicotomia dentro Cosa nostra e quindi sa che il Ros e il baratto è aperto certo non con la linea riiniana. Noi sappiamo qual è stata la reazione di Paolo Borsellino alla dottoressa Ferraro: risposta secca, all’apparenza frigida, “va bene, me ne occupo io, lascia perdere”. Quasi a non badarci. Presidente, guardiamo l’immagine del video del 25 giugno, il volto di Paolo Borsellino. Quando Liliana Ferraro dice quella cosa a Paolo Borsellino, cosa dobbiamo pensare che sia stata l’immediata riflessione di Paolo Borsellino? Paolo Borsellino aveva incontrato quei due uomini il 25 giugno e sappiamo che quei due uomini avevano già avviato il baratto e a lui non avevano detto niente. E come mai giusto Paolo Borsellino? Perché io posso anche… voglio essere di manica larga, Presidente, sappiamo quali furono le polemiche, polemiche molto in realtà costruite ad hoc, tra il Ros e alcuni esponenti della procura di Palermo, ma è certo che (?) Paolo Borsellino era l’unico in assoluto del quale il Ros poteva fidarsi, perché era l’unico puro che ci fosse in quella procura. E come mai non glielo dicono? Lo dicono a Liliana Ferraro, lo dicono a Fernanda Contri, lo dicono a Luciano Violante. Tre soggetti, nessuno dei quali magistrato in servizio e a Paolo Borsellino no. Presidente, e poi avevo anticipato le parole di Agnese Borsellino, Giuseppe De Donno, Mario Mori, Antonio Subranni, qual è il pensiero e, perdonatemi, Paolo Borsellino in quel momento non sputa sentenze, gli scappa. Lo sappiamo, Presidente, perché ce l’hanno detto i suoi figli, che Paolo Borsellino per spirito protettivo nei confronti della sua famiglia cercava di non dire niente a casa. È un dato acquisito. E però in quelle ultime settimane alcune cose non riesce a tenerle quando si trova a parlare solo con la sua Agnese. E chi è Antonio Subranni? Presidente, ma come è possibile che… a me questa cosa davvero mi fa impazzire, perché è una cosa di una portata così apocalittica e io la vedo commentare dei processi come se fosse una barzelletta. Paolo Borsellino dice, confida gravosamente in modo angosciato a sua moglie: Antonio Subranni, il capo del Ros, é punciuto. Non le dice è disonesto, non le dice è un po’ leggero, non le dice è antipatico, non sa fare il suo lavoro, non le dice manco è corrotto, che già… le dice è punciuto. Presidente, io ho provato ad immaginare una esternazione più dura che Paolo Borsellino poteva fare a sua moglie su Subranni. Io non l’ho trovata davvero. Perché, Presidente, mettiamoci nell’ottica di quell’uomo, è quel momento, Subranni (?) …dire che un uomo di Cosa Nostra ritualmente affiliato. Qual è l’attività, tale attività frenetica che fa in quel momento Paolo Borsellino? Gioacchino Schembri. Lo va a sentire in Germania in due trasferte almeno e, Presidente, questo dato io per fortuna sono riuscito a farlo emergere durante la deposizione di Mario Mori. C’era chi riteneva che si potesse avvalere dalla facoltà di non rispondere, ai sensi dell’articolo 210. A me sembrava una bestemmia secondo il codice ed è (?) , perché allora perché c’è stata la modifica sul giusto processo, gli avvisi di quell’articolo 64, la figura del testimone assistito ex articolo 197 bis, se poi non deve essere utilizzata? È una violazione di legge. E lei ha consentito e il suo comprensibile… da parte mia anche compreso profondamente, il non rispondere a domande sulle quali si riteneva che ci potesse essere un collegamento con il processo a suo carico, però ha detto una cosa che… era un dato notorio forse, però processualmente non era mai emersa da nessuna parte. Dove aveva casa il generale Subranni? A Campo Felice di Licata. Esattamente l’area territoriale sulla quale operava Gioacchino Schembri. Esattamente quello, come del resto perfino i fatti politici di questi anni attraverso la figlia, diventata portavoce del ministro, emerge chiaramente, però pensando ai padri non sappiamo che (?) ma Borsellino sentì in quel periodo Gioacchino Schembri e poi dice a sua moglie “Subranni é punciuto”. Beh fosse stata una serie di elementi a corredo delle dichiarazioni di Spatuzza sulla esecuzione, non oso immaginare il Pubblico ministero cosa avrebbe egregiamente costruito su questi dati. Invece sono scivolati via.
Si arriva al 1 luglio, Presidente, durante il dibattimento del Borsellino uno… se l’agenda rossa è stata fatta sparire da banditi di Stato, almeno durante il dibattimento del Borsellino uno la moglie Agnese consegna un’altra agenda, grigia, che non era destinata a contenere degli appunti ma conteneva la ricostruzione di tutti gli spostamenti di Paolo Borsellino dell’intera giornata. E noi sappiamo che il 1 luglio 1992 Paolo Borsellino si trova a Roma a sentire, e ci riesce, ad onta del procuratore Giammanco e dell’aggiunto Aliquó, ad interrogare… il primo interrogatorio che fa un collaboratore di giustizia, e Presidente, lei può ben comprendere all’epoca quale possa essere stata la speranza nata dopo la strage di Capaci con il pentimento di Gaspare Mutolo, perché da quanto tempo non arrivava pentito di così grosso calibro? Tanto. L’ultimo era stato Francesco Marino Mannoia, di tale livello, nel 1989. Gaspare Mutolo comincia a collaborare e rende dichiarazioni al procuratore di Firenze, perché aveva dimorato per qualche tempo nella Maremma e quindi aveva da riferire i fatti di competenza della procura distrettuale di Firenze, ma dice “io di magistrati palermitani voglio parlare solo con Paolo Borsellino”. Lui è stato più coerente del Ros, molto. Lui voleva parlare con Paolo Borsellino e ci parlò. Non è che voleva parlare con Paolo Borsellino e poi non disse niente, anzi, forse disse persino troppo. L’1 luglio interrogatorio di Mutolo, abbiamo l’agenda grigia, noi sappiamo che tutti i dati che… ci hanno dato i suoi figli, è un dato probatorio acquisito… tutti i dati contenuti nell’agenda grigia di Paolo Borsellino sono fatti accaduti, non sono appuntamenti programmati. Tanto che, noi ce l’abbiamo in atti, Presidente, si ferma al 17 luglio, perché evidentemente il 18 luglio non ce l’aveva fatta a redigere tutte le annotazioni e il 19 luglio lo sappiamo perché non l’ha compilato. Fosse stata una agenda che conteneva impegni futuri avremo trovato pure gli appuntamenti dei giorni successivi. Primo luglio, Roma, interrogatorio Mutolo, Dia. Sappiamo quali sono i simboli, Presidente. Ce ne sono alcuni che sono particolarmente importanti, non solo perché danno il senso della grandezza umana di Paolo Borsellino, ma perché hanno un rilievo processuale qui; sono quelli che indicano la mamma, indicato con una simbologia che è come il nido nel quale egli trova riparo. E noi sappiamo che alle 17:30 c’è scritto Parisi, vado a memoria, Presidente, senza consultarla, chiedo venia se faccio errori, e alle 18:30 c’è scritto Parisi… [Salvatore Borsellino mostra la pagina dell’agenda grigia a Fabio Repici, ndA] no, ho sbagliato di un’ora. Alle 18:30 c’è scritto Parisi e alle 19 30 c’è scritto Mancino. Poi torna alla Dia, perché ha interrotto l’interrogatorio, che sappiamo perché ha interrotto l’interrogatorio, perché viene chiamato al Viminale. E poi in tarda serata atterrerà a Punta Raisi. Ora, Presidente, noi abbiamo l’avvocato Nicola Mancino che si è avvalso della facoltà di non rispondere, però abbiamo acquisito delle dichiarazioni raccolte in fase di indagine. Presidente, c’è una lacuna che io ho notato, secondo me, nella prospettazione della procura. Abrogazione tacita dell’articolo 207 del codice penale. La corte all’esito del dibattimento nel pronunciare la sentenza deve trasmettere all’autorità giudiziaria tutte le dichiarazioni sulle quali c’è fumus di falsa testimonianza. Mancino si é avvalso… in quell’occasione era stato sentito come testimone, il reato probabilmente sarebbe prescritto. Presidente, la ricostruzione del Viminale è che… Paolo Borsellino stava espletando un atto investigativo di rilievo enorme. Viene fatto andare al Viminale a stringere la mano a Nicola Mancino. Ora è ricevibile una prospettazione di questo tipo? É irricevibile. Ma tutte le acute ricostruzioni logiche sui comportamenti fatte nel segmento esecutivo della strage ma perché per gli altri fatti accaduti non deve essere fatta? È falso che possa essere stato chiamato Paolo Borsellino per andare a stringere la mano a Nicola Mancino. Noi abbiamo visto Paolo Borsellino il 25 giugno 92. Io lo vidi all’epoca. Abbiamo il video. Presidente, è una bestemmia sul cadavere di Paolo Borsellino sostenere quella ipotesi. Paolo Borsellino viene convocato. Perché altrimenti non ci sarebbe andato e naturalmente se è il ministro, pure se é quel ministro, ci va. Ed è il ministro che ha preso il posto del ministro Scotti e sappiamo come e perché. Non mi dilungo ma non c’è dubbio, Presidente, che il ministro Scotti, che era l’uomo che aveva condiviso con il ministro Martelli, ma soprattutto con Giovanni Falcone, le strategie alte di contrasto dell’Italia, della nazione contro Cosa nostra era stato fatto fuori dalla sera alla mattina con uno scherzo da prete, diciamo, dal Presidente della Repubblica. In condivisione con altri. Presidente, io avevo già l’età per conoscere, per leggere, per riflettere sui fatti pubblici, lei molto più di me. Sappiamo cosa si lesse e si pensò. C’è Capaci e la prima novità politica del nuovo governo… si toglie il ministro che aveva collaborato con la principale vittima di Capaci. A nessuno viene da pensare che questo… Presidente, lungi da me avere simpatie per quell’uomo politico, però i fatti sono fatti. E se Platone può essere amico… quel nuovo ministro che è il ministro di Polizia, che è il ministro al quale Claudio Martelli riferisce adirato dell’iniziativa del baratto del Ros con Vito Ciancimino, senza avere reazioni, prima non ricordava la faccia di Paolo Borsellino… ha detto così, senza senza ridere. Presidente, se si fa una rassegna stampa e televisiva dal 23 maggio al 1 luglio del 1992, non c’è giornale né telegiornale che non abbia puntualmente, a pranzo e a cena, mostrato il volto di Paolo Borsellino. Non ce n’è. Forse il ministro di polizia non leggeva il giornale e non guardava e non aveva manco partecipato al Parlamento in seduta comune, che un mese e mezzo prima eleggeva il Presidente della Repubblica. Perché decine di volte era stato nominato Paolo Borsellino e, Presidente, mi viene da pensare allora nella prospettazione di Nicola Mancino, Nicola Mancino che era un autorevole politico, sentiva il nome di uno e diceva “chi sa…”. Ma si può? Perché è indubitabile che o conosci la faccia di Paolo Borsellino o non sai chi è, non puoi dire “sapevo chi fosse ma non ne conoscevo la faccia”. No, non si può. Quindi noi sappiamo che è un falso quella costruzione e Paolo Borsellino va lì e poi ritorna da Gaspare Mutolo e voi sapete cosa racconta Gaspare Mutolo. Presidente, sul punto Gaspare Mutolo è testimone, perché certo non è imputato di reato connesso come Nicola mancino o non so chi altro o Parisi. È uno che era lì. E’ a un’interlocuzione con Paolo Borsellino. E chi trova al Viminale? Contrada, il quale sappiamo dai tabulati telefonici che quell’1 luglio era a Roma. E qual è il problema Presidente? Il problema è che Gaspare Mutolo, lo sappiamo, aveva confidato a Paolo Borsellino che aveva rivelazioni da fare su almeno due esponenti istituzionali o forse tre. Due sicuri. Bruno Contrada e Domenico Signorino. Il terzo, sentito a dibattimento, è forse Giuseppe Ayala. Presidente, quello era lo stato in quel momento. C’è una persona che ha il terrore di collaborare con la giustizia, parla solo con Paolo Borsellino… perché ha terrore? Perché deve parlare di alcune persone e ne può parlare solo… a quel punto lo preannuncia informalmente. Però Gaspare Mutolo in quel momento sa qual è la mostruosa capacità militare di Cosa nostra. “Prima facciamo arrestare tutti” e quel “facciamo arrestare tutti”… poi c’è l’omicidio, la strage di via D’Amelio, significa operazione Golden Market, vado a memoria Presidente, c’è in atti, febbraio ’94, viene arrestato anche il dottor Maurizio Romano, ricordiamocelo. Viene chiamato Paolo Borsellino al Viminale e lì si trova Contrada, che gli dice “so che Mutolo si é pentito, se ha bisogno io sono qua”. Non so come abbia interpretato Gaspare Mutolo il messaggio, noi sappiamo che nelle sentenze su Capaci, che spesso richiamano le sentenze sull’Addaura e gli atti istruttori sull’Addaura, ci sono le dichiarazioni di Giovanni Falcone sull’Addaaura, le “menti raffinatissime”, disse al giornale ma agli atti mise il nome: Bruno Contrada. E lo riferirono anche altri testimoni, la prima Carla Del Ponte. Tornato a Palermo, continua l’attività frenetica. Il clima, Presidente, e cito solo en passant perché altrimenti prenderebbero troppo tempo, in quei due mesi Paolo Borsellino si deve occupare di dar manforte ai suoi due giovani colleghi Camassa e Russo, che si trovano… uno dei quali si trova a dover interrogare Domenico Signorino e allo stesso tempo si trova a dover sopportare quel suo pavido collega, il dottor Scaduti, che ha ricevuto la visita del notaio massone Pietro Ferraro, che gli aveva raccomandato un processo. E quale processo, Presidente? sempre quello: il capitano Basile. Per fortuna che lo raccontò a Borsellino, perché almeno fu garantito l’esito di quel processo. Del resto, Presidente, lo hanno spiegato i figli di Paolo Borsellino, non so se Lucia o Manfredi, non ricordo, quali fossero le gravi valutazioni che in quei giorni, in quelle settimane Paolo Borsellino faceva sul dottor Salvatore Scaduti, il quale ha avuto poi qui a dibattimento il coraggio, veramente stupefacente, di buttare fango sul fratello di Paolo Borsellino, con una affermazione che veramente lascia dubbi sul modo di pensare in quel momento di quel dichiarante, che stava parlando di quale fosse l’angoscia di Paolo Borsellino nel periodo successivo al 23 maggio 1992. E noi abbiamo scoperto un dato inedito, non lo conosceva nessuno, solo Scaduti. Quindi si deve occupare anche di quello e si deve occupare anche di un’altra cosa, Presidente, e sappiamo poi come alla Criminalpol, poi in qualche modo tradotta nel gruppo Falcone-Borsellino, arrivino degli stupefacenti funzionari di polizia dal nord Italia. Ma ce ne era uno in Sicilia che era il più bravo e il più serio di tutti, uomo di fiducia di Paolo Borsellino, che Paolo Borsellino si voleva portare a Palermo e giusto quello il vertice del Viminale, nella persona del dottor Luigi Rossi, impedisce che possa andare a collaborare con Paolo Borsellino a Palermo. Si chiama Calogero Germanà… credo Calogero, sicuramente Rino Germanà. Sappiamo che fine fa Presidente, anzi, che fine rischia di fare e un po’ la fa; si salva in modo incredibile sulla spiaggia di… Mazara immagino, da quelle parti. Rino Germana non poteva andare alla Criminalpol a collaborare con Paolo Borsellino. In quei giorni, subito dopo dopo la morte di Paolo Borsellino, è potuto venire quel soggetto di nome Vincenzo Ricciardi, che questo… Cos’altro dice Paolo Borsellino a sua moglie Presidente? Sappiamo, le dichiarazioni sono in atti, “sto vedendo la mafia in diretta”, “abbassa le finestre perché dal castello Utveggio ci spiano”. Non ho sentito nessun commento nella lunghissima requisitoria, Presidente. Che è un’amnesia? Oppure Paolo Borsellino si inventava fantasie sulle alture di Palermo? Presidente, veramente questa é una vergogna. Veramente. Oppure Agnese Borsellino se l’è inventata? Non c’è soluzione, delle due l’una o Paolo Borsellino vede il Castello Utveggio come una postazione di pericolo, oppure Paolo Borsellino ha preso in giro sua moglie o sua moglie ha preso in giro noi.
Senza ignominia una sola se ne può scegliere. Altra cosa, tornando dalla trasferta romana, “ho respirato aria di morte”. Presidente, anche qui siamo più o meno a livello del generale Subranni punciuto. Cioè c’è un uomo che da anni, da lustri, si occupa di mafiosi che fa arrestare, li fa condannare per gravissimi delitti, E vede ‘la mafia in diretta’ quando vede soggetti istituzionali e ‘respira aria di morte’ nei palazzi del potere. Presidente, purtroppo era morto 17 anni prima Pier Paolo Pasolini, ma lei ha idea di che cosa avrebbe scritto su quella frase di Agnese Borsellino? Di Paolo Borsellino che respira odore di morte nei palazzi del potere?
E lì si arriva al 19 luglio 1992 ed è il momento in cui noi sappiamo che alle 16.58 e 20 secondi, secondo l’istituto sismologico, esplode via d’Amelio.
(Proiezione del video)
È bene averli ben presente in testa il luoghi dei fatti perché si evita così di prendere cantonate o comunque è più difficile prenderle. Questa è l’immagine di via d’Amelio dall’alto dopo l’esplosione dell’autobomba Fiat 126. Questo contributo che vedrete sarà preziosissimo, però ve l’ho potuto dare non per mia capacità ma grazie soprattutto a una persona che mi ha collaborato, che si chiama Angelo Garavaglia che ha reso possibile vedere alcune cose che secondo me la Corte non aveva avuto modo di cogliere del tutto. Noi abbiamo in quell’immagine poi… Presidente, per comodità della Corte… sono dati già acquisiti, le consegnerò poi un DVD che contiene tutte le immagini. Noi possiamo vedere tutti, o meglio, molti dei punti principali dello scenario di morte.
Possiamo vedere dove si trovava l’auto da cui era sceso Paolo Borsellino, che si trovava più avanti rispetto al luogo in cui si è formato il cratere. Si vede il luogo in cui si è formato il cratere, si vede il luogo in cui sarà trovato nelle condizioni in cui sarà trovato il… il cadavere di Paolo Borsellino, me lo faccia chiamare così. Si vede esattamente l’ingresso, il cancellodove c’era il microfono che egli aveva pigiato. Questo è lo scenario. Lo scenario anche delle misure… ve la dico a voce. La distanza tra l’esplosione, il cratere, si vedeva (?) e il famoso muro e il famoso giardino. La distanza è 25 metri. Presidente, basta leggere il capo di imputazione, i capi di imputazione (?), vado a memoria… le devastazioni, sappiamo i danni che ci furono. I danni dei palazzi, non dei muri, dei palazzi furono ben oltre 25 metri… Possiamo partire con lo scorrimento delle immagini. Questa è una ripresa che viene da Via Autonomia Siciliana. Sappiamo che Via D’Amelio è in quel punto un segmento, perché trova appunto fine nel muretto che dà sul giardino e parte da Via Autonomia Siciliana. Questa immagine viene da Autonomia Siciliana e guarda in direzione… lo si vede dal fumo. Le immagini sono inserite in ordine cronologico, queste sono le prime, le altre sono col passare dei minuti. Noi sappiamo che tra le prime persone ad arrivare ci fu Giuseppe Ayala. Lo sappiamo perché in quel momento dimorava al Residence Marbella, che si trova a poche centinaia di metri dal luogo, sentì l’esplosione, vide il fumo e sappiamo che subito si precipitò giù accompagnato dai due uomini di scorta, che si chiamavano, quelli di quel giorno, si chiamano Farinella e De Simone. Arrivano davanti via d’Amelio, lasciano la macchina nel punto di intersecazione di Via d’Amelio con Via dell’Autonomia Siciliana e si precipitano sui luoghi. E infatti qui ancora non ci sono tantissime persone. Ayala è subito visibile vista la sua altezza, fossi stato io non sarei comparso in nessuna immagine, Ayala compare quasi dappertutto. Come vedete, non sono i fumi finali, non ci sono ancora i vigili del fuoco, tranne quello che sta operando in questo momento sulla destra… ferma qui… e c’è lì vicino un ufficiale dei carabinieri che si chiama Giovanni Arcàngioli o Arcangióli, non ho capito se sia sdrucciola o piana, lo chiamerò Arcàngioli. Giovanni Arcangioli era in quel momento un ufficiale del nucleo operativo dei Carabinieri, già da qualche anno; siamo al 19 luglio 1992, il comandante del gruppo dei carabinieri di Palermo, successore del colonnello Mori, è il colonnello Emilio Borghini. Possiamo andare avanti. Arcangioli in quella immagine ultima che abbiamo visto non si è ancora allontanato dai luoghi con la borsa di Paolo Borsellino. Ci sono alcuni soggetti che sono stati, come dire, segnalati solo perché compaiono spesso o intorno ad Arcangioli o intorno ad Ayala, magari non avranno invece alcun rilievo sullo scenario però li abbiamo indicati. Vedete Ayala sulla destra, sta cercando di capire un po’, Arcangioli si trova dall’altra parte rispetto d’Ayala e nella zona dell’auto di Paolo Borsellino. Nel frattempo sono arrivati… sono arrivate le camionette dei vigili del fuoco. Quella è la visuale verso Aia Autonomia Siciliana, dal lato opposto rispetto all’esplosione, di fatti vediamo che già sono state bloccate le persone… c’è una marea di gente e curiosi… comunque di gente che assiste… Questo è un soggetto che spesso rivedremo intorno alle due persone di cui ho detto,… All’estrema destra vedete il dottor Ayala. Quello è il dottor Ayala, si vedono questi due soggetti che potrebbero anche essere degli agenti di scorta a riposo che in quel momento si trovavano in zona. Quello è Farinella e l’altro è de Simone… Farinella è un testimone decisivo sui fatti della borsa. Si sta riavvicinando ai punti nevralgici, sappiamo che il dottor Ayala ad un certo punto entra nel cortile interno del palazzo dove si trovano i resti di Paolo Borsellino, ha raccontato la scena che vide. Guardate i danni ai balconi, e pure più in alto, c’è un taglio sul muro di quel palazzo. Possibilmente… noi non siamo stati in grado ma possibilmente, visto che il taglio d’ombra su quel muro deriva dalle da situazioni che stabilmente si mantengono in via d’Amelio, possibilmente si potrebbe anche individuare l’ora esatta in cui Giovanni Arcangioli ha la borsa in mano… Arriva il colonnello Borghini, posteggia esattamente al punto in cui finisce via d’Amelio in Via Autonomia Siciliana.… anche il colonnello Borghini è molto alto e quindi è ben visibile… È lui che parla al telefono, con una mano si tappa l’altro orecchio perché come… è facile immaginare quale fosse il rumore… E lì abbiamo il capitano Giovanni Arcangioli che è “molto preoccupato” dei cadaveri, dei brandelli umani… con passo da passeggiata sorniona ha in mano la borsa di Paolo Borsellino. Ora, Presidente, io su questa immagine vorrei che la Corte facesse una valutazione anche in diritto. Nel senso, ora ripartiremo da dietro per vedere come si muove il capitano Arcangioli con in mano la borsa di Paolo Borsellino e voi mi dite se quello è il modo di agire di un ufficiale dei carabinieri che sta cercando di mettere in salvo qualcosa ai fini dell’interesse pubblico e dell’accertamento dei fatti oppure se è uno che ha preso in qualche modo possesso di qualcosa e la sta portando via con passo, ripeto, sornione. Se torniamo indietro di pochi secondi, ricominciamo… guardate, così come uno che si trova a passare lì per caso… Guardate, in quel momento non parla con nessuno, non si ferma con nessuno, perché ha una missione. Il punto da cui è partito lo vedete lì dietro, si è visto poco fa, c’era vicino il generale Borghini. Lui avanza e va, noi lo sappiamo, verso Via dell’Autonomia Siciliana, le scritture vi hanno indicato dove si trova l’auto del generale Borghini, e un po’ più spostata l’auto di Ayala. Eccolo lì, dove sta andando Arcangioli? Su Viale… verso Viale dell’Autonomia Siciliana. Badate bene, c’è lì il suo capo, che è il comandante del gruppo dei carabinieri di Palermo, lui invece va a… dopo essere partito da un punto che è vicino al luogo del suo capo, va verso l’auto del comandante dei carabinieri di Palermo. Come vedete abbiamo il taglio dell’ombra su quel muro, volendo, chi avrà modo, potrà verificare l’ora esatta. Le posizioni sono indicate, la borsa non l’abbiamo vista sparire dal teatro della strage, noi sappiamo che la borsa a un certo punto ricompare sull’auto, perché viene prelevata, questo è ciò che sappiamo, dell’ispettore Francesco Paolo Maggi. Arcangioli non ci ha detto che cosa lui ha fatto della borsa, Presidente, veramente io non riesco a trovare parole, di come sia consentito che quello ufficiale sia rimasto in servizio… anzi, ha fatto progressione di carriera… un giorno in più dopo essersi rifiutato di dire lui che cosa ha fatto con quella borsa che conteneva l’agenda rossa. Che contenesse l’agenda rossa, io ve lo segnalo, è un dato provato perché ce lo dicono le persone più vicine a Paolo Borsellino, che l’hanno visto partire. Come vedete ancora le fiamme non sono spente… si vede, si intravede la il dottor Ayala e secondo me si intravede al suo fianco il dottore Lo Forte… Presidente, lei avrà potuto verificare… Torna indietro di qualche passo… il dottor Ayala è quell’uomo con la camicia celeste, ecco, dove… torna un po’ indietro,… Come vede tra poco si vedrà un uomo accanto al Dottor Ayala, stanno guardando l’auto di Paolo Borsellino. Il colonnello Borghini rimane in zona. Tu… Li si può vedere quasi il punto del cratere dell’esplosione…. lì è Arcangioli. con una persona, gli dice qualcosa, non siamo riusciti ad individuare chi sia… Presidente, faccia caso la Corte a quale sia l’atteggiamento di Arcangioli. Ayala lo si vede anche muoversi in gruppo, altre persone pure, lui è una monade, è come se in quel luogo avesse una missione… abbiamo visto il dottor Ayala parlare al cellulare. Rileggetevi la deposizione del dottor Ayala che ricordava di non avere cellulare. Ne aveva uno, era intestato al figlio che si chiama Ayala Paolo, in tempo successivo con l’utenza in contatto con il dottor Maurizio Romano, di cui parlavo prima. Il dottor Maurizio Romano ha avuto contatti con Gaetano Scotto. Ayala al telefono, ci serve anche per valutare le dichiarazioni della moglie e di Felice Cavallaro, del quale naturalmente nessuno di voi ha visto il volto. Non è mai… non compare mai in nessuna ripresa, né al fianco di Giuseppe Ayala, né nelle vicinanze… Arcangioli incuriosito o comunque presta attenzione all’auto di Paolo Borsellino… Come vedete palesemente non svolge alcuna attività di cooperazione all’attività da apprestare nei luoghi, era un ufficiale del nucleo operativo di Palermo, è sempre lì, da solo, però é lì, in missione… ormai l’auto ha tutte e due le portiere spalancate… Non abbiamo notizie della borsa, potrebbe già essere stata prelevata… Arcangioli deponendo ha detto di non ricordare se Borghini ci fosse… sono insieme il capitano Arcangioli e il colonnello Borghini… sempre insieme… Borghini è una delle poche persone con cui Arcangioli parla, gli avrà detto di aver avuto in mano la borsa di Paolo Borsellino? Gli avrà raccontato l’uso che ne aveva fatto? Perché, Presidente, esattamente come nell’attività del Ros, se quella di Arcangioli fosse l’attività straordinaria nell’immediatezza, fatta di impulso, di un ufficiale dei carabinieri, naturalmente si fa una relazione di servizio, per forza di cose. Presidente, si va ad una macchina in mezzo alle fiamme si prende una borsa e ci si allontana… Abbiamo terminato, Presidente. (fine proiezione video). Poche nozioni su questo, perché era necessario mostrare alla corte, lo sentivo proprio necessario perché questo ci induce ad alcune riflessioni nella ricostruzione dei fatti. La prima nota di rilievo: Arcangioli arriva prestissimo in via d’Amelio abbiamo visto che è una delle prime persone, sapevamo già che il dottore Ayala era una delle prime persone. Il punto è che Arcangioli arriva prestissimo e sembra non aspettare altro che il momento in cui prelevare la borsa. Presidente, il funzionamento della mente umana, fuori dalla psicopatologia… e non risulta che il colonnello… che il capitano Arcangioli abbia avuto difetti di questo tipo, tanto che ha progredito la carriera, se non ricordo male finì pure al Quirinale per qualche tempo, tutti… Esplode Via D’Amelio, c’è un disastro, ci sono brandelli di cadaveri, pezzi di corpi che scivolano dai muri dei palazzi e a distanza di non più di 15-20 minuti un ufficiale dei carabinieri piomba, preleva la borsa di Paolo Borsellino dalla sua auto e si allontana. E da quella borsa poi viene a mancare l’agenda rossa di Paolo Borsellino, che aveva il contenuto che abbiamo detto. Immaginate cosa c’era scritto su Subranni, cosa c’era scritto su Contrada, cosa c’era scritto sul Viminale, cosa c’era scritto sulla trattativa. Immaginate, perché le frasi dette ad Agnese Borsellino sono quasi degli incidenti di percorso, in certi momenti non è riuscito a trattenersi, ha avuto il bisogno… e l’unica persona con la quale ha sentito di potersi confidare era sua moglie. Ora quello è un uomo che andato in missione perché Presidente, non si può dire altro o è pazzo o è uno che andato lì sapendo che c’era la borsa, e dopo l’esplosione la preleva. Noi sappiamo da un altro teste, il dottor Montalbano, che ìl, tra quelle persone, ma non ne conosciamo il volto e noi non siamo stati in grado di individuarlo, c’erano anche due poliziotti in borghese, uno dei quali non si capisce come mai fossi lì, perché in realtà era stato trasferito a Firenze molto punitivamente, perché sospettato di contiguità. Presidente, io, leggendo gli atti su questa vicenda e vedendo le immagini, mi è sembrato davvero di essere precipitato a quasi quarant’anni prima di quelle scene. Lei se la ricorda la guerra tra gruppi di carabinieri e gruppi di polizia intorno alla contiguità con il bandito Salvatore Giuliano? Presidente, l’agenda rossa di Paolo Borsellino non c’è più e non l’ha presa nè Salvino Madonia, né Vittorio Tutino, né Totò Riina, né Bernardo Provenzano, nessun mafioso del mondo, l’ha presa un uomo di Stato. Sembrerebbe una bestemmia ma in realtà è lì la bestemmia ed è veramente angosciante che da 24 anni e sei mesi questo Paese abbia potuto digerire questo fatto senza che dal Quirinale quotidianamente, il Presidente della Repubblica non vedesse come un insulto alla memoria di Paolo Borsellino ciò che accadde in quel momento sul suo cadavere. Muore un uomo, quell’uomo, e si sottrae il bagaglio delle sue conoscenze più importanti. Scompaiono. Presidente, ma abbiamo idea se quell’agenda non fosse stata trafugata e ci fossero stati magistrati e investigatori seri che ne avessero potuto fare uso, quali sarebbero state le conseguenze? La dobbiamo dare una risposta! Perché il fatto è accaduto, sembra una follia ma è accaduto. Perché, Presidente, lei è rimasto perplesso, io ho detto che sembra che ci sia stata una corsa sull’agenda rossa e quindi sulla borsa fra carabinieri e polizia perché, Presidente, noi sappiamo che anche la polizia ci ha messo del suo, perché non un testimone squalificato ma Lucia Borsellino, la figlia di Paolo, vi ha detto quale sia stata la reazione mostruosa di Arnaldo La Barbera, che non era il superiore di Arcangioli, era il capo della squadra mobile, il principe del depistaggio, qual è stata la reazione di Arnaldo La Barbera quando Lucia Borsellino ha avuto l’ardire… ma pensate, mettetevi nei panni della ragazza a cui è stato ucciso il padre in quel modo, che sa cos’era l’agenda rossa per suo padre e che la cerca, vuole sapere, “ma come è possibile?”, “che fine ha fatto?” e quella è la reazione del grande funzionario di polizia. Altra notazione, Presidente, perché veramente sembra… lo sappiamo che di questa storia ne abbiamo potuto parlare perché ogni tanto ci sono delle persone perbene, una si chiama… è un giornalista… si chiama Lorenzo Baldo e scrive per un giornale on-line che si chiama “Antimafia Duemila”. Apprende delle notizie e, anziché fare lo scoop, le riferisce all’autorità giudiziaria perché si cerchi l’agenda rossa. Ed è dall’anno 2005 che la stiamo cercando. Però qual è il punto? Non era un segreto il valore dell’agenda rossa, né che le persone più vicine a Paolo Borsellino ne lamentavano la sottrazione. Presidente, il 25 luglio 1992 tutta l’Italia apprende dalla voce di… dalle parole di Antonino Caponnetto che Agnese Borsellino denuncia pubblicamente, attraverso le sue parole, che è scomparsa l’agenda rossa di Paolo Borsellino. E, Presidente, lei lo sa, lo sa il processo, perché ce l’hanno detto Lucia e Manfredi Borsellino, che in quel momento Nino Caponnetto è in qualche modo il tutore morale della memoria di Paolo Borsellino e degli stretti congiunti di Paolo Borsellino. Viene lanciato pubblicamente (?). Presidente, mi chiedo, ma c’è un solo atto, uno, Uno!, di indagine, una delega, una relazione di servizio, qualunque cosa, fino all’anno 2005 che riguardi l’agenda rossa di Paolo Borsellino? No. No! Addirittura noi abbiamo sentito come testimone il fantasma Felice Cavallaro… non compare mai… che non si ricordava che ne aveva scritto pure lui. Presidente, una delle peggiori damnatio memoriae che io abbia mai visto. Una delle peggiori. Scompare il documento, nulla viene fatto, i carabinieri sicuramente se ne occupano, o meglio, non i carabinieri, non l’Arma dei carabinieri, almeno uno, un ufficiale dei carabinieri che in quel momento é in contatto con il comandante del gruppo dei carabinieri e si dirige lì. Noi non sappiamo… il capitano Arcangioli ha detto di avere controllato il contenuto. Certo, in effetti bisognava andare a cento metri di distanza per controllarne il contenuto e infatti ha fatto poi una relazione di servizio “nella borsa si è dato c’è questo, questo, questo e pure il crest dei carabinieri”. Però lui ha detto di avere controllato il contenuto. E perché? Sapeva dell’agenda rossa? Era quello che cercava e che magari ha trovato? Io segnalo, Presidente, che il capitano Arcangioli ha rinunciato alla prescrizione per quel reato. Egli è stato prosciolto con sentenza definitiva nel modo in cui possono diventare definitive e sentenze ex articolo 425 rinunciando alla prescrizione quindi quella sentenza può essere revocata. Ai sensi dell’articolo 436. La procura do per scontato che dopo queste illustrazioni riterrà che ci sono degli elementi nuovi che meritano una revoca di quella sentenza di proscioglimento. Aggiungo, non ha avuto alcuna sanzione disciplinare quell’uomo. E come mai? Vengono fatte queste cose senza sanzione disciplinare, la logica dà solo una risposta: era ciò che doveva fare. Non ce n’è altra. Oppure viviamo in piena anarchia. Altra riflessione, Presidente. Ma Ayala… sapete cosa ha raccontato: ad Ayala è passata tra le mani questa borsa e l’ha consegnata non si sa a chi. Prima era un uomo in divisa, e allora uno può pensare al colonnello Borghini, poi però forse era in borghese, però non gli pare che sia Arcangioli, a un certo punto la borsa passa di mano e pure viene sfiorata dal giornalista Felice Cavallaro, non si sa come, in una seduta medianica… non si sa come. Come compare Felice Cavallaro? Viene individuato Arcangioli, Arcangioli cita Ayala, poi Arcangioli viene spalleggiato da un altro testimone, il capitano Minicucci. Ayala non rimane solo, arriva un altro testimone di conserva, Felice Cavallaro, il quale quando ha saputo dell’esplosione ha temuto che fosse il suo amico Giuseppe Ayala la vittima. Telefona alla moglie di Ayala, noi sappiamo che la moglie di Ayala vede il marito in contemporanea con il fumo che sale oltre il palazzo, quindi è sicura che non era Ayala il destinatario dell’attentato. Quindi dobbiamo dare per scontato che tranquillizza l’amico Felice Cavallaro, “no non ti preoccupare, cioè non ti preoccupare, è un disastro ma Giuseppe è vivo”. In realtà poi Felice Cavallaro arriva in Via D’Amelio e, visto davanti a se Giuseppe Ayala, lo abbraccia commosso perché aveva temuto di averlo perso. E quella telefonata? E poi segnala ad Ayala “vai tuoi figli perché si è sparsa in giro la voce che sia stato tu la vittima, rassicurali, visto che sei senza telefonino e non li puoi avvertire”. E abbiamo visto come era senza telefonino. Abbiamo visto, Presidente, due cose: uno, aveva il telefonino, due, i telefonini in Via D’Amelio, subito dopo l’esplosione, funzionavano. Io mi sarei aspettato che, tanto più all’epoca, ci fosse in quel cataclisma come conseguenza anche che i telefoni mobili saltassero e anche quelli fissi ma lui lì aveva il telefono. Presidente, qui ci sono almeno tre falsi testimoni, almeno, e c’è un soggetto sul quale c’è un fosso della notizia di reato grande quanto una casa. Qual è la cosa strana, Presidente, che cosa dice Arcangioli? Dice “l’ho portata… mi sono diretto verso Via Autonomia Siciliana. Arrivato lì uno non sa che si aspetta… arrivato lì appresi che la competenza a svolgere l’indagine sarebbe stata del Ros”. Presidente, possiamo accettare cose del genere? È o non è questo un messaggio obliquo grande quanto una casa? Presidente, peraltro erano morti cinque poliziotti. Ma quale capitano dei carabinieri doveva credere ad una panzana così? Cioè vengono maciullati cinque poliziotti e le indagini le delegano al Ros? E poi le delega a chi? Paolo Borsellino non era fuori ruolo, era un magistrato di Palermo, lo sanno tutti che l’indagine la deve fare la procura di Caltanissetta e lui apprende alle 17:20 che la procura di Caltanissetta… oppure in via eccezionale per gli atti urgenti il Pm di Palermo… ha delegato il Ros? Presidente, però quella borsa a un certo punto compare dopo nella stanza di Arnaldo La Barbera, il quale si tiene la borsa di Paolo Borsellino lì senza ragione. Come un soprammobile. Presidente, ma è pensabile? Però allo stesso tempo reagisce come ha reagito contro Lucia Borsellino senza (tacere?). Vi è stato comunicato oggi del comunicato di Nino Caponnetto che lancia l’allarme ma la risposta ce l’ha già Arnaldo La Barbera: “l’agenda rossa non esiste più, è andato in fumo”. Noi abbiamo visto come era il contenuto della borsa. “E comunque che ci poteva essere in quell’agenda rossa?” Eh già che ci poteva essere? Sicuramente non i verbali di Scarantino, questo è sicuro. Perché altrimenti magari l’avrebbe trovata. Posso avere 10 minuti di pausa perché passo a questo punto ad altro. Avendo smontato lo schermo mi è venuta in mente un’ultima cosa che dovevo segnalare al riguardo del destino della borsa e soprattutto dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Cioè noi siamo certi… cioè, egli è certo, il dottor Ayala, di aver avuto un contatto con quella borsa. È altrettanto certo che la condotta testimoniale non è stata sicuramente commendevole. C’è un ultimo dato perché da quello che sappiamo dalle carte da quello che abbiamo visto non c’è proprio minimamente possibilità di sospettare che sia stato il dottor Ayala a trafugare la borsa… cioè, l’agenda. Non c’è nulla che lo lascia dire. Però c’è quella condotta testimoniale che francamente lascia sgomenti e allora io devo richiamare due dati, o meglio, sono tre: uno é quello di Gaspare Mutolo di ciò che riferisce a Paolo Borsellino, l’altro è quello che poi Mutolo riferisce del Dottor Ayala per averlo appreso da sodali circa condotte in qualche modo favoritrici della posizione di Giacomo Giuseppe Gambino, imputato del maxiprocesso, e Mutolo dice “io che rispetto a Giacomo Giuseppe Gambino ero niente mi fu chiesto o ricevetti la condanna a 22 anni, per Giacomo Giuseppe Gambino, che era il capo di San Lorenzo, furono chiesti 10 anni. E poi fa riferimento anche alla questione di soldi e di gioco. In realtà la stessa questione viene riferita all’autorità giudiziaria a proposito del Dottor Ayala da un altro autorevole dichiarante di Cosa Nostra, Giovanni Brusca. E noi abbiamo saputo dal Dottor Giovanni Tinebra, procuratore… quando è stato sentito qui, nelle condizioni in cui è stato sentito, una cosa se l’è ricordata, cioè che la procura di Caltanissetta aveva aperto un fascicolo, teneva aperto un fascicolo su Ayala riguardante quelle accuse. Questo per dire che ci sono degli elementi di fatto che ci inducono anche a riflettere sulla possibilità che il dottor Ayala sia stato libero o non libero, sotto ricatto, nell’esporre ciò che ha visto, perché è sicuro che ha visto, però non lo ha detto. Perché il dottor Ayala è colui che, a partire dal pentimento di Mutolo, rischia e sicuramente sia le cose di Mutolo che le cose di Brusca, dagli ambienti dell’investigazione erano risapute. E però poiché abbiamo concluso purtroppo con quelle immagini che destano sgomento ogni volta che le si rivede, e sempre così sarà, dobbiamo dire cosa avviene dopo la strage.
Avviene che vengono attivate le indagini… io molte cose non le ripeterò, Presidente, perché sono state spesso puntualmente riferite già dal Pubblico ministero. Noi sappiamo però di un dato già patologico fin da subito e cioè che il procuratore Tinebra, quel procuratore Tinebra, subito si avvale per le indagini del Sisde e di Contrada. Che non é proprio una cosa bella. Nel senso che Presidente, lo sa che non c’è mai stato ufficialmente una autorità giudiziaria che abbia delegato attività ai servizi segreti perché non si può fare peraltro. E però noi sappiamo che già addirittura il 20 luglio 1992 nel palazzo di giustizia in cui fino a due giorni prima operava Paolo Borsellino, il capo della procura che deve indagare sulla morte di Paolo Borsellino si incontra con Bruno Contrada per decidere le indagini. E le indagini prendono una piega. Sappiamo che partono dalle due intercettazioni di Pietrina Valenti, non lo ripeto, e si imbattono in Salvatore Candura.
Sappiamo degli estremi di reato per la violenza sessuale a carico di Candura e degli altri due e sappiamo anche del fermo, così definito, che il 4 settembre 1992, a proposito della rapina, Salvatore Candura ha dai carabinieri. Sappiamo che riceve un provvedimento restrittivo il 5 settembre del 92 da parte dell’autorità giudiziaria di Palermo, sulla scorta di quelle risultanze. Noi non abbiamo sentito magistrati palermitani che si siano occupati di quella vicenda, peró, (?) in modo nitido, quindi era superfluo… il dominus di quella vicenda, il dominus, è la Squadra mobile. E sostengono… hanno sostenuto che la ragione di impuntarsi su Candura è derivata dalle anomalie comportamentali del Candura sia il 5 settembre davanti ai poliziotti al commissariato Libertà sia il giorno prima dai carabinieri, che però ancora non si sa. Il 5 parla della Fiat 126 e poi c’è un dato che in realtà entra nel mondo il 6 settembre, una relazione di servizio dei carabinieri che il 6 settembre, dopo la lettura dei giornali, raccontano un fatto del 4, Presidente, sulla quale la attendibilità, la credibilità é peggio che sottoterra perché noi dovremmo pensare che davvero Salvatore Candura va in un moto di panico davanti ai carabinieri e dice “no, non c’entro, non sono stato, io non li ho uccisi io”. Non si trova al supermercato a parlare con delle cassiere, si trova a parlare con i carabinieri e nulla viene fatto? Siamo a Palermo nell’estate ’92. Niente. Dopodiché due giorni dopo, quando Candura è già nelle mani della polizia, di quei poliziotti, e secondo quei poliziotti ha già avuto un ulteriore moto di paura e di confidenza che lo avvicina a via d’Amelio, arriva la relazione di servizio dei carabinieri. Presidente, non ci si può credere. Non ci si può credere. È peggio delle dichiarazioni di Lo Giudice, molto peggio. Però non ho sentito nessuna riflessione sul punto, non ci si può credere che i carabinieri hanno nelle mani quell’uomo, che dice quelle cose, cioè parla di omicidi e lo lasciano andare! Ma non so, ci può credere solo che ci vuole credere. In realtà quel posticcio, quella posticcia relazione di servizio di due giorni dopo serve, maledettamente serve, perché è già partita l’operazione e infatti qual è la conseguenza? Sappiamo la nota del 9 settembre e Salvatore Candura parte per dove? In teoria a Palermo, penso già all’epoca ci fosse pure il carcere di Pagliarelli, sicuramente c’era l’Ucciardone, dove posti in cella immagino che ce ne fossero, no? No, non deve stare a Palermo e dove viene condotto? A Bergamo. Chi è quell’ineffabile funzionario di polizia che viene aggregato all’indagine su via d’Amelio per la Criminalpol? Al posto ad esempio del dottore Germanà? Vincenzo Ricciardi, capo della squadra mobile di… dove? Bergamo. Toh, il mondo è piccolo ed è tutto a Bergamo.
Presidente e giudici, fateci caso, per tutto l’avvio del depistaggio, della pista falsa, c’è un controllo delle persone e, mi si passi il termine, del territorio che mai Cosa nostra ha avuto in modo così ferreo, perché ognuno dei soggetti sensibili, nella mente di quegli investigatori, viene puntualmente collocato nel luogo giusto – evidentemente con il concorso di tutte le istituzioni che di fatto sono delegate – ma non solo nel luogo giusto ma anche col compagno giusto. Signor Presidente, ma ci pensiamo nell’estate-autunno 1992 a chi vengono delegati i ruoli importanti di indagine sulla strage di via d’Amelio? A un delinquente di Bergamo che si chiama Pichetti e a un delinquente di Venezia che si chiama Pipino. E glieli delega lo Stato, questo è il livello delle investigazioni, i grandi investigatori. E a che serve Pichetti accanto a Candura? A farlo confessare, Presidente, ricordiamoci Gulotta. Non è cambiato niente. Bisogna farli confessare e noi sappiamo, Presidente, perché voglio dire non è che… o da un lato o dall’altro, in certe cose il piede in due scarpe no. Quella tesi è falsa? Quella pista è falsa? Sì. Mi spiega perché il dottore La Barbera e il dottore Ricciardi hanno necessità di indurre Candura a confessare? Una pista, che se noi la vogliamo vedere ex ante… signor Presidente, signori giudici, abbiamo tutti una certa età che ci consente di ricordare le riflessioni che avevamo all’epoca su Cosa nostra. Ex ante c’era qualcuno che poteva dare un minimo di credibilità a quel Candura? Però bisogna farlo confessare. Viene portato a Belluno Luciano Valenti, ma Belluno non va bene, forse il capo della Squadra mobile è sbagliato, non lo so, e viene pure lui portato… dove? A Bergamo. Presidente, davvero, Bergamo sembra Alkamar. Perché devono confessare insieme. Il paradosso qual è? Che cosa esce da questo? Il paradosso è che dopo questa attività che, Presidente, è un’attività comunque palesemente depistante, nel senso che le confessioni non è che le si può forzare; uno fa le indagini, se quello è responsabile pure se non ha confessato lo condanni. Punto. Così funziona la legge. Cosa nostra sequestrava per fare confessare, non può essere in nessun modo… cioè se un Pubblico ministero dice che è una cosa normale che possa essere svolta questa attività, secondo me va cacciato dall’ordine giudiziario. Perché come si fa a dire che sia corretto che si prende un criminale, tal Pichetti, perché si induca quello a confessare? Il paradosso qual è, Presidente, perché veramente ognuna è più grossa dell’altra, che a confessare é quello che nella versione ufficiale non c’entra, cioè Valenti, perché lui deve confessare secondo Candura. E, Presidente, cominciano e il 19 settembre… è così perché la situazione è ancora… il materiale umano raccolto è quello che è e allora ci vuole un colloquio investigativo. Dove non arrivano Pipino e Pichetti interviene il colloquio investigativo. Il 19. Presidente, questa attività è volta in modo forzato ma frenetico perché bisogna prendere Scarantino. Che viene preso e il 26 settembre arriva la misura cautelare eseguita a carico di Vincenzo Scarantino.
Presidente, Scarantino era conosciuto come personaggio… per intenderci, qui nessuno santificherà Scarantino. Scarantino era un delinquente. Punto. Non aveva la divisa. Sono peggiori i delinquenti in divisa, però il dottore La Barbera conosceva già Scarantino e lo aveva già trattato, lo abbiamo provato. (?) Qual è uno dei depistaggi più vergognosi della storia palermitana? Del dottor Arnaldo la Barbera? Duplice omicidio Agostino-Castelluccio, 5 agosto 1989. Qui devo usare una espressione che fa venire l’ittero a qualcuno: il padre di quel poliziotto ha visto alcune persone e una di queste per la bruttezza gli è rimasta particolarmente impressa: “faccia da mostro”. Qualcuno vorrebbe che non si potesse parlare di questo argomento, mi vengono cattivi pensieri, il punto è che quando all’agosto 1990, quindi 23 mesi prima di via d’Amelio, viene convocato alla squadra mobile diretta da Arnaldo la Barbera il signor Vincenzo Agostino, fra le foto del l’album fotografico che gli viene esposto per riconoscere “faccia da mostro”? Ci sarà mica la foto di Giovanni Aiello? No, c’è la foto di chi? Di Vincenzo Scarantino. E che centrava? Presidente, ha presente come hanno costruito via D’Amelio? Guadagna, Guadagna, Guadagna. E che c’entrava la Guadagna a Villagrazia di Carini nel regno dei Madonia? E però spunta fuori la faccia di Scarantino che evidentemente… perché dobbiamo giustificare che evidentemente… peraltro, Presidente, la foto é là, non era propriamente mostruoso esteticamente Vincenzo Scarantino. Eppure evidentemente era già un jolly di riserva per le azioni di depistaggio da fare. Guardate, sull’omicidio di quel poliziotto e di sua moglie, che attendeva un bambino, a distanza di 14 giorni dal delitto ci fu un’informativa a firma di Arnaldo La Barbera che disse che era un omicidio passionale. Aveva scoperto tutto e cioè il mandante del delitto era una fidanzata che era stata lasciata anni prima, che era tanto delinquente che poi si era nel frattempo fidanzata con uno della Guardia di Finanza. E questo viene scritto da Arnaldo La Barbera. Quindi Scarantino ce l’avevano già in testa. Ora, Presidente, Scarantino ha dichiarato davanti a voi “il dottore Bò e il dottore La Barbera mi chiesero di assumermi la responsabilità anche dell’omicidio del poliziotto”. C’è stata una domanda a conclusione dell’esame di Scarantino del Pubblico ministero, che voleva sapere con chi ne avesse parlato Scarantino di questa vicenda… non so immaginando cosa… certo è che si sa al più con chi ne aveva parlato: con una giornalista che il giorno dell’esame di Scarantino, al momento in cui gli fu fatta di nuovo quella domanda, si allontanò dall’aula. Ma i dati documentali che attestano i contatti ci sono: il 26 settembre viene preso Scarantino. Scarantino sarebbe stato colui che ha ordinato il furto della Fiat 126 utilizzata per la strage. Presidente, Scarantino viene portato in carcere e dove viene portato? A Venezia. Qual era la città sostanzialmente di Arnaldo la Barbera? Venezia. Dove era stato dirigente della Squadra mobile? Venezia. Dove lavorava Arnaldo la Barbera quando era stato cooptato dal Sisde? a Venezia. Presidente, ne ho sentita una durante la discussione su La Barbera Arnaldo e il Sisde che davvero è intollerabile. E’ ovvio che nei servizi segreti civili o militari ci siano in regola carabinieri e poliziotti e finanzieri. Così è. Ovvio. Ma il punto non è da dove viene… per carità, meglio che uno venga dai carabinieri piuttosto che dal clan dell’Acquasanta come Gaetano Scotto, però il punto qui non è che La Barbera era entrato in ruolo nel Sisde. La Barbera faceva il dirigente della Squadra mobile, cioè la Barbera era un agente sotto doppia bandiera. Piuttosto che false flags, double flags. E in quel momento La Barbera rispondeva, Presidente, perché è un rilievo la cosa… perché il funzionario di polizia giudiziaria ai sensi dell’articolo 109 della Costituzione è funzionalmente dipendente dall’autorità giudiziaria. L’agente dei servizi di informazione e sicurezza no. Non si possono fare entrambe le cose. In quel momento La Barbera è un anfibio.
Scarantino viene portato là e chi gli viene messo come dama di compagnia? Un delinquente e confidente di La Barbera. Che viene attivato, anche lì, per farlo parlare. Perché non è che si possono fare le indagini, Presidente, mettiamoci anche… in quest’ottica andavano fatte le indagini, cioè si dovevano cercare elementi di prova a carico se si riteneva, di Scarantino, di Candura, di Valenti, ma in quale codice era scritto che le indagini andavano fatte pressando gli arrestati per farli parlare? Presidente, è un codice contra legem. Le indagini si fanno in altro modo. Quali sono… Presidente, ma ce la siamo posta questa domanda? Quali attività di indagine venivano fatte su Scarantino? Scarantino era un indagato. Non era reo confesso, dovevano cercare le prove. Quali sono state le ricerche della prova? Guantanamo. Queste sono state le ricerche della prova. Quale altra attività è stata fatta? Presidente, noi sappiamo che si entrava nelle carceri e si facevano colloqui investigativi, si attivavano delinquenti confidenti, ma l’unico fine era farli confessare. Presidente, io non a caso all’inizio dissi che il nostro sistema ripudia la prova legale. Le indagini devono essere secondo legge e, soprattutto, secondo lo spirito della nostra Costituzione. Non secondo il metodo tortura.
Candura ufficializza la sua definitiva collaborazione il 3 ottobre a Mantova e si assume la responsabilità di essere l’esecutore del furto su mandato di Scarantino, in un interrogatorio che già desta preoccupazioni, perché quando arriva il Pubblico ministero per interrogarlo scopre che Candura è nelle cure del dottor La Barbera e del Dottor Ricciardi da un bel po’. Presidente, non c’è nessuna, nessuna delle presunte fonti, per intenderci del Borsellino uno, che sia nata genuinamente. Non ce n’è una. L’abuso dello strumento del colloquio investigativo diventa una cosa mostruosa. Qui ci si è preoccupati di un colloquio investigativo del 14 dicembre 2012, io sto ancora aspettando valutazioni sui colloqui investigativi degli anni ’92, ’93, ’94. Si arriva a Busto Arsizio e arriva Andriotta e di nuovo lo Stato chi delega per la ricerca della verità su Via D’Amelio? Un altro delinquente. Questo addirittura già ergastolano in primo grado, quindi un fior di delinquente. Cioè, voi pensate cos’erano quegli anni, cos’è era stata Palermo nell’estate del ’92, cos’è l’Italia nella primavera-estate ’93 e questi fanno le indagini delegandole a dei criminali. Presidente, prima che dimentichi, sappiamo… abbiamo visto come è stato possibile fare l’attentato e sappiamo dalle sentenze dei vecchi processi, come sia stato possibile che in via d’Amelio quella fosse la condizione ordinaria, cioè che le macchine potessero stare lì in quel modo sotto l’abitazione nella quale dimorava la mamma di Paolo Borsellino. Il quale la domenica almeno di solito andava. Presidente, si potrebbe fare un trattato sul concorso di responsabilità per omissione rispetto al delitto con atti commissivi di altri. Lì. Sa qual è, Presidente? Ché su questo non viene svolta alcuna indagine, cioè in teoria ci poteva anche stare che quella situazione era stata lasciata lì apposta, non andava fatta una verifica? Sarebbe uscita una cosa significativa fosse stata fatta la verifica. Il questore di Palermo, cioè l’autorità in qualche modo da cui dipendeva, era il dottor Vito Plantone. È ben fisiologico che al Dottor Petralia, catanese arrivato alla procura di Caltanissetta, nulla dicesse, é ben fisiologico che al procuratore Tinebra nulla dicesse, che al dottore Vaccaro nulla dicesse, che al dottore Cardella nulla dicesse, che al dottor Giordano nulla dicesse, non so se me ne stavo scordando qualcuno, certo è che un magistrato della procura di Milano magari qualche cosa Vito Platone lo doveva dire. Perché è, Presidente, il rapporto della Criminalpol della Lombardia marzo 1981 e l’avvio della grande istruttoria che porta al blitz San Valentino, ci sono le telefonate, prova della contiguità del dottor Vito Platone con gente del giro Monti-Virgilio. Il Blitz San Valentino. E però nessuno se l’è ricordato.
Dicevo che c’è la stagione di caccia a Scarantino. Scarantino passa da Busto Arsizio e Andriotta si adopera… l’unica attività che aveva raggiunto un risultato nel maggio ’93 era la individuazione dell’intercettazione abusiva dell’utenza Fiore-Borsellino. E, Presidente, e qui ho sentito cose sorprendenti sul punto, poi ci tornerò, però intanto mi si lasci dire una cosa: che è un fatto che avviene il riconoscimento e la ricognizione da parte di Cecilia Fiore e del fidanzato di Pietro Scotto. E la consulenza tecnica sulla difettosità delle line. Questa parte, per questo dicevo, Presidente, che le sentenze non è che vanno cestinate in blocco, ci sono alcuni pezzi che si possono salvare. Che servono. Borsellino uno, primo grado, sulla intercettazione abusiva, che peraltro è quella che per prima se ne occupa, perché quella che si occupa della posizione di Pietro Scotto in via diretta… e ho sentito qui delle cose che in realtà sono un po’ dissonanti rispetto alla ricostruzione dei fatti. Perché si è detto: ma il 14 luglio ’92 in quel palazzo c’è stato ufficialmente un intervento di due impiegati Sielte e quindi è chiaro che non erano Pietro Scotto e Brusca ma erano quei due. Però Presidente, la sentenza ci dà conto di come risulti l’orario dell’intervento dei due ufficiali… dei due operai che intervengono ufficialmente, che è successivo alle 10:00 della mattina. Poiché noi sappiamo l’orario in cui Cecilia Fiore vede l’operaio della Sielte, l’orario è 8:30 circa, perché c’è il fidanzato che arriva per lo studio e c’è la ragazza che fa, credo, non so se fisioterapia o un’attività simile, che diventa anch’ella testimone. E poi c’è un’altra cosa: che i disturbi di quella linea telefonica in realtà sono stati plurimi e di vario tipo ed è vero che ci sono stati dei disturbi rilevati due mesi prima ma è anche vero che ci sono stati dei diversi disturbi rilevati solo nell’ultima settimana. E lì per quella vicenda viene arrestato Pietro Scotto e c’è lo scontro… vi è stato riferito dal teste Genchi Genchi, che aveva svolto quell’attività tra l’altro con il dottor Arnaldo la Barbera. Sul punto, signor Presidente, perché quando un dato è documentale, è stato riferito dal testimone Genchi, che dissociandosi da quella attività… dalla piega che aveva preso quella attività, ma spiega anche il motivo, dice: perché dobbiamo prenderlo se basta seguirlo e vediamo che fa al castello Utveggio?
Che non è quel luogo dell’altura delle barzellette, è il luogo che era stato segnalato da Paolo Borsellino a sua moglie ma è anche luogo di cui c’è certezza della frequentazione di furgoni della Sielte, che viene rilevata dal testimone Burriesci. Poi il Pm ha sottolineato che non era costante… e va bene, non si riunivano ogni giorno e va be’, pazienza, e che rilievo ha che non era costante? O ci andavano o non ci andavano. E poi, Presidente, le fonti che sono più che innumerevoli su Gaetano Scotto, i servizi e il castello Utveggio. È ufficiale, lo sapevamo che al castello Utveggio aveva sede un ente effettivamente operante, il Cerisdi, il centro di formazione per manager, centro della regione siciliana. C’era. Chi va a presiederlo appena lasciata la sedia di alto commissario antimafia? Il prefetto Pietro… devo stare attento perché lo confondo sempre con l’amministrativista… Pietro Verga non Pietro (?). Verga. Eh no, io lo confondo sempre con il testo sul quale studiavo… E ora, Presidente, è normale che… è normale che a presiedere il Cerisdi al castello Utveggio ci vada l’alto commissario antimafia? E che management deve uscire da lì? E che come segretario si porti uno del Sisde, l’ineffabile Coppolino? Alcuni si acquietano davanti a questi che sono dei dati ufficiali. Poi, per carità, c’è la nemesi delle storie, ché molti anni dopo presidente diventa il marito di una Pubblica ministero che indagava su Via D’Amelio, la dottoressa Palma, a scanso di equivoci, non voglio fare… il Dottor Elio Cardinale. Ma Scotto-Servizi-Castello Utveggio lo dicono in tanti, anche quel Vito Galatolo che non viene cestinato dal Pubblico ministero e che viene utilizzato giustamente sulla posizione di Vittorio Tutino. Vito Galatolo è credibile? Bene, ma allora forse non è tutta una balla d’altura quella del castello Utveggio e mi chiedo: ma perché il palazzo Graziano può essere un ottimo e perfino necessario punto di osservazione e non invece il castello Utveggio? Perché? Ontologicamente per quale ragione? Al di là delle, come dire, antipatie e intolleranze, perché? Noi conosciamo i dati, perfino conosciamo i dati della possibile operatività a distanza del telecomando e sappiamo qual è la distanza, perché ci si deve proprio prendere l’ittero invece e le cose non valutarle con serenità? Posto che una cosa è sicura. Il castello Utveggio non è un posto normale e ce l’ha detto Paolo Borsellino. E Paolo Borsellino quando dice di essere spiato, Presidente, ma che cosa vuole dire se non servizi? Naturalmente che deragliano dalla legalità, per carità. Ma quello vuole dire. Ora, chi nega questo bestemmia sulla memoria di Paolo Borsellino. Questa era l’unica altra attività, dopodiché viene mollata l’attività, appunto il castello Utveggio e un’eventuale possibilità di un coinvolgimento di Contrada. Presidente, parlerei troppo, Lascio perdere lo squarcio antropologico operativo. Contrada, Narracci, Zanaroli, Campesi, che peggio che “quattro uomini a zonzo” di Jerome Klapka Jerome. Perché, Presidente, quel Campisi dove ce lo ritroviamo? Questo per dire cosa era, cosa erano le istituzioni in quel momento, ce lo ritroviamo caposcorta, uno che non aveva fatto il servizio militare, vi ricordate? Ve lo ricordate? Ce lo ritroviamo caposcorta di chi? Ayala. Una persecuzione. E però Campisi è in rapporti con Zanaroli e Zanaroli é in rapporti con Narracci e Narracci é in rapporti con Contrada. E Contrada un minuto e 20 secondi dopo l’esplosione di via d’Amelio riceve la notizia dell’attentato. Ho illustrato quali sono le amplissime riflessioni che andavano fatte e che non sono state fatte da qualcuno.
Caccia a Scarantino, perché l’unica attività è quella, sembra, come se ci sia un toro da montare. Uno penserebbe Riina… che è stato arrestato ma i processi si fanno anche ai detenuti, Provenzano, Brusca, chissà quanti erano. No: Scarantino. Presidente, a pensarci ora è veramente infernale l’angoscia. E tanto fanno che Scarantino si pente. Ora Presidente, io poche parole ma le devo spendere su (?) perché una cosa va detta, non è stata colta l’enormità di questo fatto cioè: di quello squallido horror Truman show costruito con il depistaggio Scarantino chi è che squarcia il velo? Un mafioso. Si è svegliato un magistrato? No. Un poliziotto? No. I carabinieri? No. Un mafioso: Gaspare Spatuzza. Chi è che incrina… molti di voi l’avranno visto il film Truman show, alla fine la liberazione è proprio lo squarcio di quello scenario esistenziale, di quella scenografia esistenziale ed è lì la liberazione. Qui a squarciare il velo su quello obbrobrio è un mafioso, Gaspare Spatuzza. Sappiamo del colloquio investigativo e non ci torno… ho colto con un sorriso il fatto che il Pubblico ministero che si è opposto alla richiesta di acquisizione di quel colloquio investigativo perché era di Gaspare Spatuzza invece poi è corso dietro subito all’acquisizione di un altro con la investigativo, ma capisco. Nel ’98 già al Procuratore nazionale antimafia e a un suo sostituto ma è un colloquio investigativo, atto inutilizzabile. Spatuzza dice “guardate che avete preso fischi per fiaschi”. Ora, Presidente, per carità, atto inutilizzabile, però consapevolezza immediata perché Gaspare Spatuzza era Gaspare Spatuzza e Gaspare Spatuzza in quel momento era detenuto, già condannato in primo grado a Firenze quindi, come dire, con le stragi. E il dato viene inoculato nelle istituzioni. In quel momento il Procuratore nazionale antimafia non è un re Travicello, è un uomo forte, il dottor Vigna, E quindi è lui che sicuramente gestisce la vicenda, questo lo dico perché era presente anche un sostituto, il dottor Grasso, al quale però, perché tutto si può criticare tranne il principio di realtà, a giugno del ’98 uno di quelli che ha meriti nello squarcio del velo è il nuovo procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, l’ha riferito Spatuzza. E allora Presidente, questo velo viene squarciato dal mafioso Spatuzza e Spatuzza è stato oggetto di attentissima verifica e il Pubblico ministero in modo compiuto ha esposto i dati probatori per i quali, è vero, Spatuzza è attendibilissimo. E però il Pm deve avere dimenticato di leggere una cosa, che la dice proprio Spatuzza, perché dopo quel giro carcerario Enzo Scarantino viene portato a Pianosa. E che cosa dice Spatuzza l’11 giugno del 2013 alla Corte? Per averlo appreso non dal primo che passa, da Nicola di Trapani, cioè il cognato per intenderci dell’imputato Salvatore Madonia. Sono entrambi uomini d’onore: le applichiamo le regole, Presidente? Ciò che l’uomo d’onore Nicola di Trapani riferisce all’uomo d’onore Gaspare Spatuzza è vero. E cosa riferisce? Riferisce che Cosa nostra sapeva che lo Stato aveva torturato Scarantino per fargli dire il falso su via d’Amelio. Cioè la peggiore organizzazione criminale sapeva che lo Stato, quello per il quale avevano dato la vita sei persone il 19 luglio e tanti altri in altre occasioni, torturava Scarantino per farlo confessare; e aggiunge anche un’altra cosa che accadeva a Pianosa, Presidente, che ha un rilievo. Perché, Presidente, non tutte le parti civili sono uguali come non tutte le cose sono uguali non tutte le persone sono uguali.
Equiparare i due Gaetano, parti civili in questo processo, è un’altra bestemmia. Mettere sullo stesso piano Gaetano Murana e Gaetano Scotto è una bestemmia e che cosa dice Spatuzza? “A Tanino Murana gli raggiava il cuore”. Non c’è bisogno di tradurre. Gli raggiava il cuore. Presidente, fosse solo stato Spatuzza… perché per Tutino, per Madonia, il Pubblico ministero ha correttamente utilizzato Brusca. E che cosa ha detto Brusca? Lo stesso giorno fu e poi anche il giorno dopo: “Scarantino aveva subito pesanti torture a Pianosa, sapevo che era detenuto a Pianosa” ed a questo punto credo che l’ha detto… chi è la fonte? Nicola di Trapani. Quindi un riscontro iper riscontrato: la stessa fonte e quindi è certo due volte. “Sapevo che lo prendevano, lo volevano buttare dall’elicottero”. C’erano maltrattamenti forti, non è che solo per lui… ed effettivamente ieri l’avvocato Di Gregorio vi ha illustrato che sono state plurime le vittime nella nostra Guantanamo. Però le torture contro Scarantino avevano un dolo specifico, non era solo torturare il mafioso, era torturare il mafioso… mafioso, allora, torturare il detenuto perché Scarantino è sicuro che non è Cosa nostra, torturare Scarantino per farlo confessare, è sempre il chiodo fisso. L’obiettivo delle indagini qual era? La confessione. Presidente, ma l’abbiamo mai sentita una cosa del genere? Tutti gli sforzi a cosa erano mirati, pure quelli criminali? Perché questi sono sforzi criminali. A fare confessare Scarantino. Presidente, lì è lei che fa la domanda, correttamente, il tema è di rilevanza ovvia, è inutile… chiede le fonti a Brusca. E Brusca aggiunge che Nicola di Trapani gliel’aveva riferito nel ’94-’95 quando si trovavano liberi entrambi e ribadisce due volte e si trovavano tutti e due liberi. Giovanni Brusca venne arrestato da latitante il 20 maggio 1996, nel ’94-’95 parlavano di questo falso pentito… perché nel frattempo poi quello Stato il risultato l’aveva ottenuto. Missione compiuta: Scarantino ha confessato. Ora, Presidente, se uno si deve attenere a quei criteri di valutazione della prova, quello che non mi piace lo cestino quello che invece ritengo il top dell’attendibilità lo utilizzo tutto. Scarantino viene portato a confessare mediante tortura. Tortura! Ma si rende conto di cosa sentono i detenuti? Che una delle minacce fatte dallo Stato e mi vergogno un po’ ad utilizzare l’espressione utilizzata perché quello non era lo Stato erano dei banditi di Stato ma banditi. Minacciava Scarantino di tenerlo appeso dall’elicottero per farlo confessare. E lui confessa.
Quando confessa la prima volta? 24 giugno 1994. Dove? A Pianosa. Naturalmente, Presidente, il verbale di prima confessione è preceduto da un colloquio investigativo. Si può fare un interrogatorio senza il preventivo colloquio? No. Questo processo ci dice che no. Cioè ma si rende conto, Presidente, come è stato commentato Lo Giudice? E ci vuole il colloquio di Arnaldo la Barbera che definitivamente rimuove… non oso immaginare, Presidente, con quali mezzi, non lo voglio sapere… ma rimuove ogni ultima remora a Scarantino. Scarantino accetta di delinquere per lo Stato. 24 giugno 1994, nelle mani di Arnaldo la Barbera e chiamo subito chi? Il suo Pm di riferimento a Caltanissetta, la dottoressa Ilda Boccassini, che si reca a Pianosa e arriva anche il Pm dottor Petralia e c’è la prima confessione. Presidente, la seconda avviene il 29 giugno, questa avviene in Sicilia, presente il Procuratore capo, bisogna ufficializzare, poi vedremo perché, e qui, Presidente, esce fuori un dato inedito: i colloqui investigativi da che cosa vengono sostituiti? Dai sopralluoghi ectoplasmatici. Viene portato in Sicilia Scarantino perché deve fare dei sopralluoghi. Non si sa. Nessuno lo sa. Non c’è traccia, è come la relazione di servizio di Arcangioli, sarà nello stesso armadio. E il 29 continua la confessione. Ora Presidente, noi sappiamo che, vado a memoria, il 18 luglio del 1994 Scarantino, collaboratore di giustizia ha dato i suoi frutti, c’è la misura cautelare abbiamo pure avuto raccontato, non so se forse da Bò o da qualcuno degli ufficiali di polizia giudiziaria, l’attività di esecuzione di quell’ordinanza e sappiamo, perché ne ho fatta produzione io… non si sarà mai grati a Radio Radicale… la conferenza stampa che, a ulteriore bestemmia della memoria di Paolo Borsellino, il 19 luglio 1994 fanno Giovanni Tinebra, Ilda Boccassini e anche un muto Francesco Paolo Giordano. Ora, Presidente, io veramente a seguire le orme dichiarative e operative della dottoressa Ilda Boccassini in questo processo ho avuto un accesso di labirintite. Presidente, non si può, non si possono sentire certe cose. Dichiarazione dell’ultima deposizione di Ilda Boccassini in questa sede: “la prova della falsità di Vincenzo Scarantino è la sua stessa confessione”. Ve lo ricordate? L’ha detto lei. Non so se l’avete sentita, risentitevela quella conferenza stampa, dà i brividi. E cos’è, “il grande pentito Vincenzo Scarantino i grandi risultati che ci ha consentito…”, dicono Giovanni Tinebra e Ilda Boccassini, che en passant ringrazia anche l’operato di Francesco Di Maggio, che in quel momento è il vice capo del Dap. Presidente, un aspetto che non si è voluto in nessun modo verificare… in altra sede si è fatta verifica di cosa è stata l’attività del Dap dal giugno ’93, qui no. Però il Dap e i luoghi di detenzione hanno avuto un rilievo, Pianosa… cosa faceva la dirigenza del Dap, a parte autorizzare la giornalista Liana Milella a fare una visita abusiva a Pianosa – ne sorse un caso di Stato, autorizzata dal dottor Di Maggio – cosa faceva il Dap mentre a Pianosa Scarantino veniva torturato per essere portato alla confessione? Qual era l’attività di indagine svolta dalla procura? E c’è la conferenza stampa. E ci sono le parole di colei che poi nella storia passerà per il grande magistrato che ha scoperto l’inganno di Scarantino. Con chi aveva reso il primo verbale Scarantino? La cui confessione era la prova della falsità? Ilda Boccassini. Che è la stessa che arriva a dichiarare il falso sulla fuoriuscita di Genchi dal gruppo Falcone Borsellino. Sappiamo com’è andata: Genchi va via, abbandona per sua scelta e lo scrive Arnaldo la Barbera. E la Boccassini di La Barbera mai dirà che una sola parola è sbagliata. Presidente, mi permetto di osservare che fra le ultime attività istruttorie svolte, per eterogenesi dei fini su quella vicenda è intervenuta la parola finale di Lucia Borsellino, perché Lucia Borsellino fu testimone dei dialoghi fra il poliziotto Bartolo Iuppa e il dottor Gioacchino Genchi, sente le lamentele di Genchi su la Barbera e sente Genchi che racconta a Iuppa quando ha abbandonato La Barbera. E invece la dottoressa Boccassini a voi ha raccontato un’altra cosa che va contro un documento a sua firma, a firma doppia, sua e del Dottore Cardella, i quali ricevendo dopo l’emissione della misura cautelare… anzi no, del fermo fu in quell’occasione, nei confronti di Pietro Scotto, ricevono la nota di Genchi anzi di La Barbera che dice “Genchi ha abbandonato, non vuole più lavorare” e quelli si inalberano e scrivono e c’è il documento. Se non ci fosse stato il documento io sono sicuro ci sarebbe stato un processo a carico di Genchi. Attendo io un processo a carico della falsa testimone. Che dice “no, Genchi l’ho cacciato io”, invece lo scrive il 26 maggio 1993 che vuole spiegazioni. Ora, poiché le si richiede al dottor Tinebra perché vengano chieste a Dottor Arnaldo La Barbera, possiamo essere sicuri che la dottoressa Boccassini da Arnaldo la Barbera già le aveva avute le spiegazioni, ma l’atto è firmato anche dal dottor Cardella. Vuole spiegazioni di come si sia potuto permettere il dottore Genchi di abbandonare la riservatissima e importantissima attività delegatagli da questo ufficio. Ma come, se dice che l’ha cacciato lei? Il solito effetto dottor Jekyll e mister Hyde, doppia personalità. L’ha cacciato lei e però si lamenta che se ne è andato. A me ricorda certi racconti del mio paese di quando ero bambino, di quello che era fidanzato e lo sapeva solo lui. E però la doppia personalità il 19 luglio 1994 osanna al pentito Scarantino e al Dap. Osanna. Lamentazioni contro la libera stampa, che si è permessa di fare il suo lavoro… qualcuno aveva saputo che c’era il provvedimento e l’aveva scritto… ma i giornalisti a che servono in Italia se non… cioè, a che cosa dovrebbero servire, mettiamola in questi termini, se non a dare notizie? Eh no, perché così… qual è la doglianza… così hanno rischiato di porre nel nulla il risultato della collaborazione di Scarantino perché i provvedimenti restrittivi rischiavano di non essere eseguiti perché magari apprendendo dagli organi di informazione tutti si sarebbero dati alla latitanza compreso Gaetano Murana. Invece vengono tutti trovati nel letto la mattina.
Presidente, si badi bene, perché c’è il sopralluogo inesistente ma poi si ritorna a Pianosa e di nuovo i colloqui Presidente, ma che cosa potevano servire i colloqui di Vincenzo Scarantino per dieci giorni di seguito dal 4 luglio 1994? Se è quello ormai collaborava. E i colloqui prima servivano per pressarlo a collaborare, e ormai ha collaborato, Presidente, la vogliamo dare una risposta visto che il Pm ha disertato dal dare questa risposta? Ve la do io la risposta, l’unica, e non ce ne sono altre. Andava indottrinato. Perché voi l’avete visto Vincenzo Scarantino, avete idea cos’è fa recitare a Scarantino un copione? Quello è. E infatti Pianosa in quei giorni era presa d’assalto dai turisti del gruppo Falcone-Borsellino.
Presidente, segnalo una cosa sulla quale non ci si è molto immolati: nei verbali di dichiarazioni di confessioni… di presunte confessioni di Scarantino ci sono dei dati inediti ma corrispondenti al vero. Mi spiega ad esempio come Scarantino sapesse che Gaetano Scotto avesse una Peugeot 205, circolasse su una Peugeot 205? C’è nel verbale. Oppure, Presidente, c’è una cosa che non ha destato molto allarme ma a me ne desta tantissimo. Presidente, la Fiat 126 Scarantino a chi la consegna tra gli altri? Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia. Chi c’era nel garage di Via Villasevaglios secondo Spatuzza e quindi secondo la realtà? Ma non c’erano Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia? E Scarantino, posto che ormai, lo diciamo tutti, ha detto solo cose false, ma a Scarantino chi gliel’ha detto che Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia ricevettero da coloro che avevano rubato la Fiat 126 l’auto da imbottire? Mistero. Le capacità speculative di qualcuno sul punto sono venute meno immantinente. Presidente, e poi si arriva ad ottobre 1994, anzi no, si arriva a settembre, il 6 settembre 1994, c’è il famoso interrogatorio in un luogo anche quello significativo, perché non è che poteva essere in Puglia e nemmeno in Piemonte, doveva essere in Veneto vicino Venezia. Dolo. È il famoso verbale di Di Matteo, La Barbera, Cancemi presenti alla famosa riunione presso Calascibetta.
E la teoria, qui è curioso, perché i negazionisti del depistaggio hanno sostenuto “eh ma se erano La Barbera Ricciardi e Bò ad imboccare… e gli altri poliziotti a imboccare Scarantino, ma gli facevano mettere quei nomi?” Quindi poiché il delitto non è venuto bene… Ma si badi che questa è la teoria. Poiché il delitto non è venuto bene non l’hanno commesso La Barbera, Bò e gli altri. Non so come commentare il dato perché io ho ottenuto tempo fa la condanna del più alto magistrato del distretto di Messina e la tesi difensiva fu “eh non l’ha fatto lui perché che faceva un errore così clamoroso?” Ma così tutti si possono difendere. Pure Rina dice “guardate che io sono un criminale con i fiocchi, ma voi pensate che faccio un crimine e mi faccio scoprire?” Ma ci si può difendere così? O si può difendere terzi così? E però in quel giorno, anzi, in quella sera a Dolo accade qualcosa di strano, cioè lo ha riferito la dottoressa Palma e sul punto, Presidente, io non sono sospetto di pregiudiziali simpatie ma non c’è dubbio che c’è una che dice la verità e una che dice il falso e a dire la verità è la dottoressa Palma, non la dottoressa Boccassini. La dottoressa Boccassini, poiché lì le questioni cominciano a diventare imbrope, chiama il dottor La Barbera e il dottor La Barbera compare. Tesi della Dottoressa Boccassini: “ma siete pazzi? Andate allora a verificare se c’è il volo Palermo-Venezia di Arnaldo La Barbera”. Presidente, 6 settembre, siamo sicuri che lavorasse? Che fosse il servizio? Siamo sicuri di una cosa, perché ce lo dice la dottoressa Palma: che poi Boccassini e La Barbera si allontanano, mentre a tarda notte in albergo arrivano solo Palma e Petralia e la Boccassini da qualche parte sarà andata, con qualcuno si sarà allontanata e non c’è alcun dubbio che, di tutti i magistrati della procura, quella che aveva un rapporto fiduciario con il dottor Arnaldo La Barbera era la dottoressa Ilda Boccassini, questo è pacifico, l’ha detto forse persino lei. E non solo si dice “un errore così non l’avrebbero fatto”, si dice “ma coinvolgono tre pentiti importantissimi della procura di Palermo” che in realtà sono importantissimi a Caltanissetta per la strage di Capaci e uno lo sarebbe stato anche per la strage di via d’Amelio, Salvatore Cancemi. “Impossibile che siano stati gli investigatori”. Scarantino risponde con intelligentissima banalità: “ma lo posso sapere io perché mi hanno fatto fare quei nomi? Se io già non sapevo mettere in fila due parole in italiano, che ne so di La Barbera Gioacchino, Di Matteo Santo e Cancemi Salvatore? Presidente, ma pensiamoci magari si trova una qualche risposta; ad esempio una forse la troviamo, qual è il processo… perché Santino Di Matteo è il marito di Francesca Castellese, è vero, ricordate l’intercettazione che, vado a memoria, Presidente, 13 dicembre 1993, poco dopo il sequestro di Giuseppe Di Matteo, poco dopo i primi provvedimenti restrittivi emessi dall’autorità giudiziaria di Caltanissetta sulla strage di Capaci, sulla scorta delle dichiarazioni di Santino Di Matteo. Presidente, che cosa si dice in quella intercettazione… faccio un passo indietro. Presidente, perché anche lì io ho notato una grandissima scarsezza di capacità speculative sul fatto presupposto. Cioè, si pente Santino Di Matteo, vengono arrestati alcuni dei responsabili della strage di Capaci, viene sequestrato il figlio di Di Matteo. È ovvio che c’è un nesso di causa-effetto, questo manco a dirlo, ma come lo si spiega? Serve l’azione per far ritrattare Santino Di Matteo su Capaci. e’ questa la spiegazione ufficiale. Cioè, prendono il figlio come arma di ricatto, uno dei peggiori crimini che si possa fare, ricattare un genitore con la vita del figlio. Si prende in ostaggio il figlio per ricattare il padre e portarlo a ritrattare. Ma, Presidente, non saranno dei letterati gli uomini di Cosa nostra siciliana ma i consulenti legali ce li hanno. Presidente, quale sarebbe stato l’effetto se Santino Di Matteo avesse ritrattato? Tutti liberi? Oppure si poteva buttare la chiave per quelli che erano stati catturati sulle dichiarazioni di Di Matteo? È vero? Perché è ovvio, a quel punto qualunque tipo di ritrattazione sarebbe stata presa come un riscontro alla dichiarazione d’accusa. Processo finito, condanne indubitabili. Presidente, la cosa strana però è che quella conversazione, marito e moglie, Di Matteo e Castellese intercettati, non parlano di Capaci, no, parlano di via d’Amelio e della polizia infiltrata. Polizia proprio specificamente. Ecco ma se la tesi ufficiale è che sequestrano il figlio di Di Matteo per Capaci, a Di Matteo gli si consente di essere portato a Palermo, di incontrare la moglie con la quale erano separati… la moglie non aveva voluto sapere del pentimento del marito… si incontrano, Presidente, sono il padre e la madre di Giuseppe di Matteo e quindi di che cosa possono parlare se non di come salvare la vita al loro figlio? E’ vero? E illogico? È irragionevole? No. E di che cosa parlano? Di via D’Amelio e della polizia infiltrata. E poi, Presidente, marito moglie non diranno mai, mai, che cosa intendevano, perché qualcosa intendevano, lì ci sono due genitori disperati, non si mettono a raccontarsi barzellette, Presidente. E allora forse il sequestro di Di Matteo forse era per ottenere quel silenzio? Infatti cosa dice la Castellese? Che lui deve tacere, evidentemente avevano ragioni per capirlo, ma non su Capaci, cioè in quell’intercettazione la Castellese non gli dice… qualunque insulto, sceglietene uno a caso… “non dovevi parlare di Capaci”, no, gli dice “non devi parlare di via d’Amelio”, una cosa che non aveva fatto. Presidente, questi sono dati. Questi sono i dati, su questi ci vuole la speculazione. E allora magari una ragione sul perché bisognava mettere sotto scopa Santino di Matteo, o tentare di farlo, c’era.
Leggendo le cronache ne ho scoperta una per La Barbera pure, ultimamente extra processuale. Presidente, però scoprire che nel palazzo del covo di via Ughetti c’erano gli uomini del Sisde che controllavano gli investigatori della Dia che indagavano su Gioacchino La Barbera e Nino Gioè… non ci sono parole per commentare. Peraltro uno di quei due uomini del Sisde, nelle dichiarazioni rese dall’ispettore della Dia alla Corte d’assise di Palermo, é Nunzio Purpura, che puta caso compare… l’ho trovato io negli atti nelle immagini del fascicolo del pm in via d’Amelio il 19 luglio 1992. E Salvatore Cancemi è Salvatore Cancemi, che a settembre del 1994 aveva detto un decimo di quello che sapeva. Il punto è che poi a ottobre viene meno l’idea, la possibilità che era circolata… perché è circolato, Presidente, la convinzione che, per effetto di un qualche provvedimento normativo, si sarebbe arrivati a poter derogare al massimo di due anni nell’applicazione extra giudiziale. Così è, ci sono testimoni autorevolissimi che possono riferire. E però invece no, è a ottobre del 1994 scade l’applicazione extra distrettuale della dottoressa Ilda Boccassini e la dottoressa Ilda Boccassini, che è colei che ha cresciuto la prima fase del pentito Scarantino, scrive due documenti, o meglio, io sul punto ho qualche riserva, nel senso che c’è un documento con la sua sottoscrizione, c’è poi un altro documento che in questi uffici giudiziari non è stato trovato, è stato trovato a Palermo, però senza la firma degli asseriti firmatari, dottor Fausto Cardella, dottoressa Ilda Boccassini ed è il famoso memoriale, con tutte le contestazioni fatte su Scarantino, che se magari ci avesse pensato un po’ prima… le si giustifica tutte come se Scarantino fino al 6 giugno 1994 era un collaboratore di giustizia inappuntabile e i problemi sono dopo, dal 6 settembre.
Ora Presidente, la pubblica accusa ha detto che i pentiti dei processi Borsellino uno e bis, Scarantino, Andriotta e Candura, hanno ammesso il depistaggio solo quando sono stati messi con le spalle al muro. L’espressione si presta un po’ a ironia, nel senso che, visto quello che aveva passato Scarantino, tutto sommato essere messo con le spalle al muro è meglio che farsi una vacanza ai Caraibi. Però il dato non risponde al vero. E’ falso. Perché Vincenzo Scarantino aveva ritrattato, Presidente, aveva ritrattato tanto che gli era costato otto anni di detenzione, di reclusione. Aveva ritrattato ben prima di essere messo con le spalle al muro, anzi aveva tentato in tutti i modi di ritrattare, l’aveva fatto perfino alla televisione. Dice, con i magistrati non si può, con i poliziotti non si può, mi rivolgo a Italia Uno. Lo so, fa un po’ pensare, però… E c’è la ritrattazione televisiva che poi esattamente, Presidente, per carità non confondiamo il livello, diciamo, delle cose ma scompare pure quella. Come l’agenda rossa. Scompare la confessione di Scarantino come (?) italiani che comunque la sentirono poi alcuni la (?) perché comunque fu riportata il giorno dopo sui giornali. Nessuno doveva più sapere, nessuno doveva più avere la prova che Scarantino aveva telefonato al giornalista e gli aveva detto “sono tutte balle”. Ma si può? E poi il 15 settembre 1998, sulle rive del Lago di Como, diverse dal primo capitolo, cioè a Como, che cosa fa Scarantino? Prende la transenna, il… non mi viene il nome in questo momento… lo sposta, si rende visibile a tutti, si rivolge al Presidente e gli dice “Presidente, tutto quello che ho raccontato è falso”. Non aveva mai ritrattato? Ora per carità è davvero singolare che quella ritrattazione, Presidente, è costata una condanna definitiva passata in giudicato alla pena di otto anni di reclusione a carico di Scarantino, cioè ha preso Scarantino per quell’azione a titolo di calunnia quasi quanto aveva preso per la strage di via d’Amelio. Calunnia ai danni di chi? Udite udite, Andriotta, Arnaldo la Barbera e i magistrati, forse c’era anche il dottore Bò tra le persone offese. Presidente, ha idea del battage che si è fatto, giustamente, revisione revisione revisione per l’ingiusta condanna di via d’Amelio? Ma perché alla procura non è venuto in mente e al procuratore generale ora non viene in mente che forse quella sentenza meriterebbe la revisione? Forse. Allora è falso ciò che vi ha detto il Pm, non è vero che nessuno aveva ritrattato prima di essere messo con le spalle al muro. E’ vero per Andriotta e per Candura, per Scarantino è falso. Scarantino ci ha provato in tutti i modi. Ma addirittura innumerevoli volte veniva visto davanti… veniva preso davanti alle carceri, dove si presentava con tanto di bagaglio, dicendo “ho reso tutte dichiarazioni false, fatemi andare in carcere”. Non è ancora più di una confessione? E mi viene da pensare, paradossalmente, dopo tutto quello che aveva passato in carcere prima di confessare forse si sentiva più al sicuro in carcere? Pensava, forse tenendomi alla fune dell’elicottero mi salvo, fuori no. E, Presidente, come finisce la prima ritrattazione a mezzo televisivo? Finisce con il dottore Bò e l’ispettore Di Gangi che lo aggrediscono a casa sua e su questo non c’è dubbio.
Presidente, qual è la condizione che noi possiamo… come possiamo qualificare la condizione di Scarantino a San Bartolomeo a Mare, dove tra le altre cose viene aggredito perché ha confessato quello che non aveva mai voluto confessare? Vivono sotto sequestro, vivono privi della possibilità di autodeterminarsi, in una condizione di palese irregolarità, che poi è plasticamente dimostrata da dei documenti, Presidente, che quelli sono e sono dei dati insuperabili. Perché che a Scarantino venissero dati dei verbali con gli appunti della polizia, a lasciare altre ipotesi… ma mi si può dire che è attività giustificabile da parte della polizia? Cioè ma questi funzionari e questi sottufficiali… non so come si chiamano in un funzionari graduati, ispettori e sovrintendenti… ma che cosa avrebbero dovuto fare per essere perseguiti penalmente? Io non lo so davvero. Non lo so. Sappiamo che in corso di questo dibattimento, Arnaldo La Barbera era morto ormai da parecchio tempo e il dottor Ricciardi e il dottor Bò e il dottor Salvatore La Barbera erano indagati per concorso nella calunnia per la quale Scarantino al più era un articolo 48, Presidente. Vengono indagati e il tempo corre, molto, ben oltre il termine massimo. L’unico effetto di questo è che, convocati qui, si avvalgono della facoltà di non rispondere. Erano passati almeno quattro anni dall’iscrizione sul registro degli indagati, quindi almeno due anni erano trascorsi dal superamento del termine massimo delle indagini preliminari e pure gli si è lasciato, commodus discessus, di avvalersi della facoltà di non rispondere. Del resto, Presidente, siccome sono stati fatti certi commenti… ma in fase di indagine sono stati disposti confronti tra polizia e calunniatori asseriti, si avvalevano della facoltà di non rispondere quelli della polizia. Gli altri invece parlavano. E si arriva al luglio del 2015 e io leggo l’intervista dell’allora procuratore della Repubblica che dice “sì, su quel procedimento noi assumeremo le nostre determinazioni conclusive dell’indagini solo all’esito del giudizio di primo grado del Borsellino quater”. Anche evidentemente in esito alle decisioni della Corte. Poi accade, e ci sono persino parlamentari che fanno bene il loro lavoro, viene presentata un’interrogazione parlamentare e nel tempo di otto giorni, in periodo estivo, arriva la richiesta di archiviazione. Presidente, questo è il quadro della posizione di Scarantino. Io ne sto parlando perché il mio assistito è costituito parte civile anche contro Scarantino.
Presidente, si è voluto fare ironia sul gioco delle differenze della settimana enigmistica, ve lo propongo io un gioco: prendete la versione Spatuzza e prendete la versione Scarantino. Sembrano due film, uno un po’ più umoristico ma due film che raccontano storie similari, addirittura ci sono persino dei protagonisti uguali, Tinnirello e Tagliavia, li ho detti. C’è chi ruba, c’è chi dà il mandato di rubare la Fiat 126, c’è chi la consegna, c’è chi la deve imbottire di esplosivo e poi Scarantino non sa chi è che la porta a via d’Amelio. Ho riassunto in estrema sintesi e in modo corretto? Sì. Film Spatuzza: c’è chi dà mandato di rubare la Fiat 126… si tratta di soggetti di ben altro livello, per carità, Presidente, ma i ruoli del film sono gli stessi. C’è chi ruba la Fiat 126, c’è chi ruba le targhe – in realtà sono sempre gli stessi – e c’è chi consegna… mette a posto, a differenza della versione Scarantino, mette a posto la 126, la consegna perché venga imbottita di esplosivo e poi ce l’ultimo anello mancante. Non si sa chi, come e con che modalità esattamente la porta dall’ultimo riparo a via d’Amelio. È vero che sono due storie uguali? No. non è vero. Perché c’è una differenza, una sola. Presidente, ce n’è una sola. Punto. La differenza è un uomo nero. Perché, guardate, che via d’Amelio è stata una strage eseguita da Cosa nostra con intervento esterno, lo dice il pentito principe di questo processo, Gaspare Spatuzza, il quale quando porta la macchina in Via Villasevaglios chi trova nel garage? Renzino Tinnirello. Ma Renzino Tinnirello di lì a breve sarà in compagnia, come nel film Scarantino, di Francesco Tagliavia ma con loro c’è una terza persona che nel film Scarantino non c’è. La terza persona noi sappiamo A) che non è un uomo di Cosa nostra e questo è certo; B) è un esperto di esplosivo o è un soggetto che supervisiona l’imbottitura di esplosivo; C) lo possiamo dire Presidente, perché noi sappiamo che, con formula dubitativa, Gaspare Spatuzza riconobbe un funzionario del Sisde, quello, Lorenzo Narracci. Presidente, si badi, di Lorenzo Narracci non è mai comparsa una foto da nessuna parte. Cioè, non è che si può dire, Gaspare Spatuzza l’ha visto alla festa della polizia o nei ranghi della rivista del Sisde. No. Senza alcuna certezza dice “è possibile che l’uomo nero sia Lorenzo Narracci”. Lorenzo Narracci, per intenderci, è quello del gruppo che riceve dopo un minuto e venti secondi la telefonata “l’attentato è stato commesso”, ricordiamoci. Noi non è che sappiamo da dove è arrivata la telefonata, non lo sappiamo. Comunque sappiamo che quell’uomo nero è un uomo di Stato perché lo dice tra le righe, Presidente, lo dice Gaspare Spatuzza, dice: ‘non mi chiedete se è un poliziotto o uno dei servizi, non sono in grado di specificare’. Presidente, che cosa vuole dire? Si tratta di uno che supervisiona l’approntamento dell’esplosivo nella Fiat 126, non è che dice ‘io non so se fosse italiano o belga, non è che dice ‘io non so se fosse un salumiere o un architetto’ e poi accade anche un’altra cosa. Giusto in quel periodo a Spatuzza… perché, Presidente, l’attendibilissimo, veramente attendibilissimo Spatuzza, ricorderemo, ricorderete cosa patì da collaboratore di giustizia. Fu il primo, il primo!, al quale la Commissione centrale ex articolo 10 legge 82 del ’91 negò il programma di protezione. Ma ci pensate? Aveva squarciato, al posto dello Stato, il velo sul Truman show di Scarantino e lo Stato dichiara di non doverlo proteggere. E ha un senso questo o no? Non occorre richiamarsi al filosofo per dire che quel che è reale è razionale, si tratta di rapporti causa-effetto: ha detto qualcosa di indicibile, non lo proteggiamo. Mica è Scarantino, mica è Candura, mica è Andriotta. No, lui è l’iperattendibile Spatuzza. Ora, Presidente, la verità è una, come la lettera rubata è sotto gli occhi di tutti e nessuno la vede o nessuno la vuole vedere. C’è una sola differenza fra lo Scarantino show e la verità di Spatuzza e la differenza è la correità di apparati dello Stato nella strage di via d’Amelio. E’ la verità indicibile, che via d’Amelio è stata strage di Cosa nostra ma non solo di Cosa Nostra, anche di apparati dello Stato.
Quella è l’unica differenza e, Presidente, sa chi è che ci dà la prova di questo? Paradossalmente una delle parti civili, perché in questo processo che Gaetano Scotto sia un importantissimo uomo d’onore del mandamento più infiltrato dallo Stato, cioè il mandamento di Resuttana, come vice capo della famiglia dell’Acquasanta, il cui capo era in realtà un re Travicello, Gaetano Megna, e il capo era Gaetano Scotto, uomo di fiducia di Gaetano Fidanzati, riciclatore dei soldi in Svizzera di Gaetano Fidanzati… proprio di quei soldi, Presidente, Pizza Connection. Quale entità di Cosa nostra riguarda se non Resuttana e l’Acquasanta? Madonia, Galatolo e tutto il circuito estero e ora qual è il punto? Il punto è che Scarantino, dicendo cose false, nel senso che erano cose che egli non poteva sapere, noi sappiamo che Scarantino ha detto anche delle cose vere, per dire Tinnirello e Tagliavia anche ricevono la macchina, è vero, Presidente. C’è un aspetto… il reato di calunnia è un reato particolare ha delle caratteristiche significative che permettono di fare veramente riflessioni elevatissime. Io vorrei capire come si dovrebbe costruire la falsità, la consapevolezza di Scarantino nella falsità dell’incolpazione. Però poi vorrei capire anche come per alcuni versi si possa costruire la falsità dell’incolpazione, come si possa impostare, perché Presidente, se io accuso senza saperne nulla un tizio e poi quel tizio è responsabile del reato del quale io, a mio modo di vedere, falsamente lo accuso, non è calunnia, quindi perché ci sia la calunnia è anche necessaria la prova provata della falsità dell’addebito. E perché io vi dicevo che Gaetano Scotto è la cartina di tornasole per cui alla verità, cioè a Spatuzza, andava privilegiato lo Scarantino show? Come appare nel ‘film Scarantino’ Gaetano Scotto? Appare come il soggetto che, a bordo della Fiat 205, per due volte, anzi tre forse, viene visto al bar Badalamenti e gli vengono attribuite per via logica delle condotte operative; é un uomo di azione, di quelle azioni ma è un uomo di azione di Cosa nostra, anche per la strage di via d’Amelio. Ma, Presidente, nello scenario Scarantino c’è una sola, una!, virgola che riguarda rapporti esterni a Cosa nostra? C’è l’uomo nero? No. Gaetano Scotto non è l’anfibio che il processo ci ha consegnato, non è l’uomo di mafia e degli apparati deviati che il processo ci ha consegnato, no, è l’operatore di quella operazione. Sul punto, Presidente, ricordiamoci una cosa però: quando viene emessa la misura cautelare nei confronti di Gaetano Scotto, egli è già latitante. Sapete quanti giorni di carcere ingiusti ha patito Gaetano Scotto per l’ingiusta condanna di via D’Amelio? Zero. Giuro, zero. Vedete, quando è stata sospesa l’esecutività della sentenza di condanna per otto dei falsi condannati di via d’Amelio dalla Corte d’appello di Catania, Gaetano Scotto è rimasto in carcere. Lo ricordate che ogni tanto compariva dallo schermo? Sapete perché? Perché era ancora in esecuzione la pena definitiva che aveva ricevuto per traffico di droga sulla scorta della collaborazione con la giustizia di uno di quelli che a certuni fa venire l’ittero, Vito Lo Forte, e quindi Gaetano Scotto è latitante quando riceve quel provvedimento restrittivo e, aggiungo sul punto, richiamo la testimonianza del dottore di Matteo, non c’era alcun impulso, alcuna solerzia da parte della polizia, di quella polizia, a fare ricerche di Gaetano Scotto, il quale infatti viene arrestato nell’agosto 2001 per sbaglio dai carabinieri della stazione di Chiavari. Per sbaglio. Possiamo fare un po’ di riflessioni sul punto?
Poi qui i teoretici del negazionismo arrivano a dire “eh no, non dite che é il castello Utveggio, non dite che Gaetano Scotto sia legato ai servizi o che centri con via d’Amelio”. Ma perché non si può dire? Perché è un falso la intercettazione abusiva. Signor Presidente, fermo tutto quello che vi è stato già detto e che si sa e cioè che la strage andava fatta domenica, e noi lo sappiamo perché cosa viene detto a Spatuzza? Le targhe devono essere rubate il sabato sera, in modo che la denuncia arrivi il lunedì 20 e quindi evidentemente la strage domenica 19. Sappiamo anche però, Presidente, il nocciolo è lì, quando si poté apprendere che Paolo Borsellino sarebbe andato in via d’Amelio alle 17.00… c’è pure l’orario, Presidente, alle 17:00 del 19 luglio 1992? Nella ricostruzione del Pubblico ministero a mezzo di telefonata delle 8:00 o 8:30 della mattina di domenica 19 luglio sull’utenza Fiore-Borsellino. Noi sappiamo che la sera del sabato 18 solo in tarda serata Paolo Borsellino riesce a concordare con il cardiologo amico l’appuntamento per l’indomani. Bene noi sappiamo, o meglio, sappiamo, Presidente, Spatuzza e Tranchina tutto quello che sapevano, che ce l’hanno detto in modo genuino secondo me, questa è la mia valutazione, e (?), secondo me questa è la mia valutazione. Tranchina… allora, richiamo la corretta pensata del Pubblico ministero: è un’azione che viene fatta in compartimenti stagni, nessuno sa ciò che viene fatto da nessun altro, tranne chi tira i fili. E nell’operazione, quanto a Cosa nostra, i fili sono tirati da Giuseppe Graviano. Quindi Giuseppe Graviano distribuisce compiti ma sa solo lui.
Presidente, si dice che sia stato Giuseppe Graviano a premere il pulsante del telecomando, la prova ce la dà… non si dice proprio la prova, la certezza morale, mettiamo così, ce la dà Fabio Tranchina, perché Fabio Tranchina va due volte in via d’Amelio con Giuseppe Graviano facendogli da autista, e la prima volta Giuseppe Graviano gli chiede di trovare, in forma non controllabile, un appartamento da quelle parti. Non è che esattamente Tranchina dica “mi ha chiesto un appartamento dal quale si vedesse via d’Amelio n. 19”, no, e se per caso Tranchina gli prendeva un appartamento che aveva l’ingresso in via D’Amelio ma per caso sporgeva su via dell’Autonomia Siciliana e non si vedesse… e come ci combinavamo? Però dice questo. La seconda volta, ora Presidente, la strage di via d’Amelio per Cosa nostra è una cosa importante, per Giuseppe Graviano è una cosa importante e delicata, ha presente lo scrupolo messo da Gaspare Spatuzza nell’eseguire in modo maniacalmente esatto ogni atto? Noi sappiamo che Fabio Tranchina, perché ce lo racconta Fabio Tranchina, “la seconda volta Giuseppe Graviano mi chiese…” ora, Fabio Tranchina era l’autista di Giuseppe Graviano, quindi ogni giorno si vedeva, riceve l’incarico, la seconda volta passano di nuovo in via d’Amelio, fanno una seconda perlustrazione e Giuseppe Graviano, così, con nonchalance, gli chiede “ma com’è finita, l’hai trovato l’appartamento?” Presidente, io non ho dubbi che Tranchina abbia detto la verità, però questo vuol dire che Giuseppe Graviano per quell’appartamento non è che avesse chissà che passione, ha dato un incarico a Fabio Tranchina, ha fatto sapere a Fabio Tranchina che gli serviva un appartamento a lui, poi gli chiede se l’ha trovato, con una trascuratezza davvero sconvolgente alla luce di ciò per cui serviva l’appartamento secondo di ipotesi della procura, e quando quello gli dice “no, non l’ho trovato”, non è che la reazione di Giuseppe Graviano… eh Presidente, e lasciamo immaginare, né caldo né freddo, la reazione ‘vabbè non ti preoccupare cosa vuoi che sia’, “m’addubbu nu iardinu”. Mi accomodo nel giardino. Dietro il muretto. Ora, Presidente, voi avete visto: 25 metri, compartimenti stagni. E’ certo che Graviano dice quelle cose a Tranchina, è certo che fa intendere a Tranchina quelle cose, ma se non era Graviano ad usare il telecomando, che glielo diceva a Tranchina? Perché nelle speculazioni, nelle riflessioni si arriva a un punto e poi ci si ferma? Il pensiero dimezzato è un non pensiero.
E andiamo all’esecuzione della strage. L’agenda grigia di Paolo Borsellino e i fatti e le prove acquisite ci dicono che se uno avesse dovuto fare previsioni avrebbe detto che Paolo Borsellino, la mattina della domenica 19 luglio, uscito dalla messa, sarebbe passato da sua mamma. Questo è. Presidente, non una volta dal 23 maggio, non una volta Paolo Borsellino è andato di domenica pomeriggio, tranne quella fatale. Ora Presidente, ma chi è che ha inventato la teoria per cui l’intercettazione abusiva aveva un senso solo se serviva per preparare per tempo l’attentato? Da dove, da cosa viene questo pensiero malato? Perché è sicuro… il Pm ha detto: eh, se avessero fatto l’intercettazione abusiva la strage l’avrebbero organizzata in fretta e furia il sabato pomeriggio… ricordate, l’hanno detto. Ma se Giuseppe Graviano con scrupolo maniacale dice a Spatuzza, perché tutto deve funzionare come un orologio svizzero, quel giorno dice a Spatuzza tu le targhe le devi rubare sabato pomeriggio sera, perché così la denuncia del furto sarà fatta lunedì, è certo che la decisione è domenica 19 luglio al più l’alternativa è che per qualche evento imprevedibile quella domenica 19 luglio non sarebbe stata fatta. Ma no che la si doveva accelerare il sabato pomeriggio perché ricostruendo in modo erroneo le conversazioni è del tutto implausibile dire “ah no, Adele Borsellino aveva saputo dalla mamma che l’appuntamento era per quel sabato pomeriggio”, quando ancora Paolo Borsellino doveva parlare col dottore. Però andava fatta domenica e a cosa serviva l’intercettazione abusiva? A sapere quando arrivava Paolo Borsellino. Presidente, ci sono due fatti della storia criminale di Palermo che ci inducono a qualche riflessione. Uno e l’altra autobomba a Palermo Rocco Chinnici. Lì viene fatta in un momento canonico, perché è naturale che il dottore Chinnici la sera tornerà prima o poi a casa e per andare in ufficio parte la mattina non è che si scappa; l’altra non è una autobomba, Presidente, però è il caso di delitto ai danni di un soggetto del quale non si sa quando rientrerà a casa. Si chiama Ninni Cassarà. Due sono le possibilità, Presidente, a meno che non si ritenga che ci sia uno stazionamento permanente in pianta stabile nel luogo del delitto, le due possibilità sono o una captazione o una talpa. Per Ninni Cassarà fu una talpa, non una captazione, ma per Paolo Borsellino non poteva essere una talpa e allora nella prospettazione dell’accusa Giuseppe Graviano ‘s’addubba nu iardino’. Benissimo.
Presidente, posso fare una domanda io? Domenica 19 luglio a che ora arriva Giuseppe Graviano pronto col telecomando nel giardino? Da dove? È stato lì… cioè il giardino era un luogo visibile a tutti gli appartamenti dei palazzi da un lato e dall’altro, sappiamo Presidente, che c’erano stati allarmi, controlli, si ricorda? Per le ritenute estranee presenze in alcune occasioni nei dintorni di via d’Amelio. E come avviene? Giuseppe Graviano dalle 10.00 di mattina sta lì pronto? Oppure l’intercettazione abusiva effettivamente fatta ha fatto sapere loro che la macchina di Paolo Borsellino arriverà lì alle 17.00? E a che ora avviene l’esplosione? 16.58 e 20 secondi. Presidente, non è che i dati li si può utilizzare fino ad un certo punto, si fa la riflessione e poi la si lascia abortita, no. Ci si deve poi spiegare e questo, Presidente, è un buco nero nella ricostruzione dei fatti di questo processo. Ed è un buco nero perché la verità ce l’ha raccontata Gaspare Spatuzza: tutto ciò che dai livelli medi e persino medio-alti di Cosa nostra si poteva sapere, tutto sommato sì è saputo. Presidente, ma noi dobbiamo credere alla genuinità delle frasi di Giuseppe Graviano a Fabio Tranchina? No, è palese che no. La sua così, veramente, trascuratezza su quell’appartamento per il quale delega e la sua risposta pronta cioè, anzi, la reazione normale… logica vuole, sarebbe stata “e ora come facciamo? Ti avevo detto di cercare l’appartamento. Gaspare Spatuzza è così preciso, gli ho chiesto la 126, gliel’ho chiesta in un modo, gliel’ho chiesta in un posto, perfetto, tu invece il luogo decisivo”… no Presidente, non si può dire che tutto ha funzionato come un orologio svizzero e poi “m’addubbo nu iardinu”. No. Presidente, con il rischio della vita poi. E aggiungo: materialmente proprio io vorrei immaginarmi, vorrei mettermi nella mente dei Pubblici ministeri e immaginarmi la scena di Giuseppe Graviano che pigia il telecomando. Cosa fa, si e messo un banchetto sotto il muro, che è di due metri e Giuseppe Graviano è più basso di due metri, è alto più o meno come me, pensate voi. Non salta per vedere se arriva la macchina, mette un banchetto, si solleva in modo da vedere, con il rischio di essere visto magari da Vullo che va lì a fare l’inversione, vede che la macchina si avvicina e allora si abbassa per nascondersi e poi, al momento giusto, si abbassa per evitare l’onda d’urto, pigia il pulsante e spera che il muro tenga. No, Presidente, no. No. Questo è ai livelli dello Scarantino show. Presidente, io ho abusato forse della vostra pazienza.
Lo dicevo in premessa, Presidente, questo processo, e per questo io confido nella sapienza di chi scriverà la sentenza e quindi dei giudici togati in particolare, perché si è fatto un qualche piccolo passo avanti ma io non riesco ad essere sollevato. Ancora oggi a ventiquattro anni e mezzo la ricostruzione di come è andata la strage di via d’Amelio è un film che si perde nel momento clou. Sappiamo tutto delle premesse, Presidente, l’ultima scena, come fosse una dissolvenza di Eisenstein, è l’uomo nero e poi si chiude il sipario. Non sappiamo più che cosa accade dopo l’intervento dell’uomo nero. Non so come si possa essere rallegrati da questo, mi auguro che ci possa essere qualche ulteriore possibilità e che quella ulteriore possibilità, Presidente, lo ribadisco senza piaggeria, capiti con dei giudici come voi.
Sulla posizione di Tutino è corretta la ricostruzione fatta dal Pubblico ministero, che ha utilizzato delle fonti che avevano detto anche altro e però l’altro, poiché non riguardava Tutino, anzi addirittura riguardava Gaetano Scotto e Pietro Scotto, non è stato valorizzato. Le ha indicate correttamente, non ce ne sono altre, Presidente, di fonti su Tutino, sono solo quelle, che sono fonti che danno oltre ogni ragionevole dubbio la prova della responsabilità di Tutino come concorrente materiale delle azioni che hanno portato alla strage di via d’Amelio. Aggiungo che, paradossalmente, per puro paradosso, quasi persino Scarantino diventa un riscontro a carico di Tutino perché Tutino (ha la parte?) Scarantino nel film. E i soggetti che indica Scarantino come coloro che raccolgono il testimone sono gli stessi che raccolgono il testimone da Spatuzza e Tutino.
Rimane la domanda, qualcuno sapeva, magari gliel’ha detto l’uomo nero. Qualcuno sapeva e lì c’era uno che non era di Cosa nostra e questo che non era di Cosa nostra a qualcuno l’ha detto, perché è sicuro che lì, Presidente, quell’uomo nero non era il vertice della loggia del Grande Vecchio, era il partecipe di un’altra e diversa organizzazione, che in quel momento concorse con Cosa nostra; non era sicuramente una monade, era uno che operava anche per conto di altri. Forse è così che poi qualcosa è arrivato nei verbali di Scarantino, a pensarci bene.
Pulci. Presidente, io forse sono quello che per certi versi ha più conoscenza della sua figura nei diversi (punti?). Forse un po’ ha collaborato, per così dire, un po’ è colpa mia. Non nel come ha collaborato ma assistevo un soggetto che si era dichiarato collaboratore di giustizia, che si era dichiarato uomo di onore della famiglia di Sommatino. No, non lo era. Era lo Scarantino di turno. Qui il mandante di Scarantino era Pulci, il quale era condannato in primo grado per un omicidio commesso a Sommatino, me lo ricordo ancora a memoria, l’omicidio di Filippo Cianci, che era un sindaco, era un ex mafioso ma era stato pure sindaco a Sommatino, e il nuovo pentito, che era l’unico uomo d’onore di Cosa nostra di Sommatino, nella sua versione pentito scagiona guarda caso Pulci da quell’omicidio. L’unico uomo d’onore, omicidio di mafia, Pulci, reggente di non so che, comunque un uomo di rilievo di Cosa nostra a Sommatino, scagionato dall’unico pentito di Cosa nostra di Sommatino. Sembrava fatta, sennonché nell’estate del 1999, appena prima che arrivasse l’udienza di appello, a settembre il mio assistito riferisce all’autorità giudiziaria… perché nell’occasione ha un difensore che gli garantisce di poter confessare, di poter ritrattare, e non trova ostacoli a farlo e non subisce torture. E quando viene citato in rinnovazione istruttoria dalla difesa Pulci, in quel giudizio si presenta lì e, come Scarantino a Como, c’è la sorpresa e quello che doveva servire a scagionare Pulci ci dice “guardate che tutte quelle cose sono tutte false, me le ha fatte dire Pulci. Proprio per scagionarsi da questo omicidio”. La settimana dopo Pulci cominciò a collaborare imbastendo una partita, ahilui, impossibile con la procura di Caltanissetta in quel momento. Ci fu anche lì un memoriale e tante altre storie. Certo e quindi lo conosco bene. Presidente, lì quella su Murana, veramente grida vendetta. Non è in nessun modo, non può trovare in nessun modo giustificazioni. Perché a Murana si raggiava il cuore, ce l’avete la prova della falsità. Pulci poteva raccontare solo che si raggiava il cuore.
Andriotta. Presidente, Andriotta è uno che viene cooptato. È uno che si trova in carcere meritatamente e che viene arruolato dal puparo dello Scarantino show. Nel film c’è quel personaggio strepitoso, il regista, Andriotta ci sta, ma ci sta per convenienza, non ci sta per distruggersi la vita, ci sta per tentare di sfuggire ad un ergastolo già avuto in primo grado e per ottenere benefici, che parzialmente pure ottiene, tutto sommato. No, non ci sono, Presidente, possibili cause di giustificazione della condotta di Andriotta, non ci sono. Naturalmente anche su di lui ci saranno state pressioni, i colloqui sicuramente ci sono stati. Noi non sappiamo purtroppo… non erano registrati come quello di Lo Giudice, perché Presidente, avrei voluto che venissero letti i colloqui, avrei voluto… e avrà subito pressioni ed è facile, perché, Presidente, quella squadra di polizia fu in quegli anni una squadra a delinquere. Però Andriotta non merita giustificazione e, tutto sommato, su di lui è vero quel che ha detto il Pubblico ministero, ha confessato solo quando era ormai inutile la confessione, era superflua la confessione, perché se è falso lo Scarantino show Andriotta, che è l’istigatore sotto regia dello Scarantino show, è uno che ha calunniato.
Presidente, così passo a posizione di Scarantino. Scarantino è persona offesa per il capo di imputazione a carico di Andriotta. Ovviamente. Perché il primo calunniato da Andriotta è Scarantino. Non gli è stato spiegato che si poteva costituire parte civile lui e chiedere lui i soldi ad Andriotta, anziché ciò che era scelleratamente avvenuto all’esito della ritrattazione nel ’98 con Scarantino condannato al risarcimento in favore di Andriotta. Presidente, io solitamente cerco di condividere il più possibile, persino diciamo oltre ciò che sarebbe comunque dovuto, le scelte con i miei assistiti. Io sul punto non ho avuto bisogno di spiegare alcunché, perché l’ho sentito ancora oggi il mio assistito dire che è una vergogna che si possa chiedere la condanna di Scarantino. Scarantino è una vittima. E che Scarantino sia una vittima è un dato, Presidente, che… purtroppo non ha rilievo probatorio però è un fatto che è avvenuto in udienza, forse… no, non so se in questa aula… no, non era in quest’aula ma all’aula bunker. Perché, Presidente, Scarantino, che è il più reietto di tutti, a differenza di altri ha chiesto scusa. E proprio il giorno del suo esame chiese scusa a una delle parti civili, l’unica che era presente, Gaetano Murana, e la Corte sa perché lo riferì nell’occasione Murana attraverso la voce del suo difensore, che riferì le parole di Murana, Murana, sorprendendo persino per la statura morale, nell’occasione disse “No, pure tu sei una vittima”. Murana! Ora, Presidente, in realtà anche una persona di ben più alto e nobile rilievo per questo processo si è pronunciata, e voi ne avete prova, sulla posizione di Scarantino, perché io ho prodotto un libro che è stato acquisito con il consenso delle parti, affinché venisse utilizzato… perché non è che ci siano le possibili vie traverse, o c’è il consenso per l’utilizzabilità o non vale niente, è prova documentale, è stato pubblicato quel libro. No, c’è stato il consenso per l’utilizzabilità del contenuto di quel libro di Agnese Borsellino, curato dal giornalista Salvo Palazzolo. E in quel libro ci sono parole di Agnese Borsellino, proprio parole virgolettate di Agnese Borsellino, e in particolare le prime sono dedicate a Vincenzo Scarantino. Voi ce l’avete in atti. “Vincenzo, ti fa onore…” Agnese Borsellino, la moglie di Paolo Borsellino, riceve una lettera da Vincenzo Scarantino e gli risponde, con la stessa grandezza d’animo dimostrata quella mattina in ore antelucane del 19 luglio da Paolo Borsellino, che nel momento in cui non ha il tempo per nulla, manco per i suoi figli, gli viene il pensiero di scrivere agli studenti… alla professoressa alla quale non aveva neanche dato buca, ma c’era stato un equivoco che aveva fatto pensare ad una sua mancata voglia di andare a un incontro con gli studenti. Agnese Borsellino risponde a Scarantino e gli scrive così, comincia: “Vincenzo, ti fa onore che tu abbia avvertito il bisogno di farlo, il perdono è un sentimento che io accetto”. E poi aggiunge: “Dopo la strage di via d’Amelio quali sono le persone che ti hanno zittito e minacciato?” È Agnese Borsellino. Zittito e minacciato. Dopo la strage di via d’Amelio. A chi si riferisce Agnese Borsellino? Presidente, non mi si dica che si riferisce agli uomini di Cosa nostra perché sarebbe l’ulteriore bestemmia. E lo spiega, del resto: “Quali istituzioni avevano interesse a depistare le indagini? E secondo te perché? Aiuta chi ti ascolterà a conoscere la verità su questo drammatico depistaggio talmente grave…” Presidente, il depistaggio. “…talmente grave che i suoi autori meritano di essere puniti e smascherati quanto coloro che hanno armato la mano degli attentatori”. I depistatori, per Agnese Borsellino, sono pari a coloro che hanno assassinato suo marito.
Presidente, per Scarantino ha ragione il mio assistito, è una vergogna. Se l’articolo 54, con quelle prove… Presidente, Rosalia Basile forse è la più attendibile di tutti i testimoni che abbiamo sentito, ma Rosalia Basile ha il riscontro di Spatuzza e di Brusca. Proprio sull’articolo 54 quel riscontro è. Presidente, io concludo nell’interesse del fratello di Paolo Borsellino, concludo, come da comparsa conclusionale, e chiedo la condanna solo per quattro persone. Perché sarebbe davvero immorale, ha detto il mio assistito e io condivido in toto e sottoscrivo, chiedere la condanna di Vincenzo Scarantino. (13 gennaio 2017) Trascrizione a cura di Federica Fabbretti Tratto da: 19luglio1992.com
A cura di Claudio Ramaccini Direttore\Ufficio Stampa e Comunicazione Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco