PIETRO RIGGIO, DA AGENTE PENITENZIARIO A MAFIOSO …
- IL SUO RUOLO E QUEL PIZZINO DI PROVENZANO
- Mafia, l’ultima verità sulla strage di Capaci: “Un ex poliziotto mise l’esplosivo sotto l’autostrada”
- Chi é l’ex poliziotto accusato da Riggio
5.2.2021 Riggio è peggio di Scarantino “Il collaboratore di giustizia Pietro Riggio, ex agente della penitenziaria, è peggio di Vincenzo Scarantino, peggio di Massimo Ciancimino. Altro che nuovo Buscetta, caso mai il nuovo Elio Ciolini, il noto depistatore”. Lo ha sostenuto l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile, oggi nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, al processo col rito abbreviato a carico di Nino Madonia, accusato del duplice omicidio aggravato del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto 1989. Il legale si è concentrato sui contributi resi dai collaboratori di giustizia e segnalandone l’attendibilità, eccetto uno, appunto Pietro Riggio. Infine l’avvocato Repici ha sottolineato come “Vincenzo Agostino e Augusta Schiera, genitori del poliziotto assassinato, siano stati costretti dalle inerzie dello Stato a farsi monumento nella ricerca di verità e di giustizia, divenendo un punto di riferimento per l’intera Nazione. La condanna di Antonino Madonia rappresenterà anche l’esito di una lotta lunga quasi trentadue anni, ricordata dalle parole iscritte sulla tomba di Augusta Schiera, morta il 28 febbraio 2019”. In chiusura il legale di parte civile ha chiesto la trasmissione alla procura degli atti relativi alla posizione di Cosimo Rizzuto, padre dell’imputato (nel processo ordinario) Francesco Paolo Rizzuto, per concorso nel favoreggiamento compiuto dal figlio su sua istigazione, come risulta dalle intercettazioni effettuate nel 2018 dalla Dia di Palermo. Il processo è stato rinviato al 26 febbraio per l’arringa dei legali di Nino Madonia che proseguiranno anche il 5 marzo. 16:28 (AGI) – Palermo, 5 feb 2021
I depistaggi di apparati dello Stato nell’omicidio di Nino Agostino e sua moglie. Sono quelli descritti da l’avvocato Fabio Repici nel corso della lunga arringa di parte civile al processo col rito abbreviato nei confronti di Nino Madonia, accusato del duplice omicidio aggravato del poliziotto e di Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto 1998. “Il collaboratore di giustizia Pietro Riggio, ex agente della penitenziaria, è peggio di Vincenzo Scarantino, peggio di Massimo Ciancimino”.
“Nino Agostino e Ida Castelluccio sono andati consapevolmente incontro alla morte, perché avevano capito di essere diventati preda di quella ‘profanissima trinità’ della quale Nino Madonia e Gaetano Scotto erano espressione diretta: la stabile alleanza, risalente all’inizio degli anni Settanta, fra Cosa Nostra, eversione neofascista ed esponenti della polizia e del Sisde”. Lo ha detto oggi a Palermo l’avvocato Fabio Repici, nel corso della lunga arringa di parte civile al processo col rito abbreviato nei confronti di Nino Madonia, accusato del duplice omicidio aggravato del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto 1998.
Dello stesso reato è accusato anche il boss Gaetano Scotto, per il quale si sta ancora svolgendo l’udienza preliminare assieme a Francesco Paolo Rizzuto che è invece accusato di favoreggiamento.
Parlando per oltre tre ore, l’avvocato Repici, che rappresenta il papà e la sorella del poliziotto (la mamma Augusta è deceduta), ha proseguito: “Nino Madonia, della “profanissima trinità” è stato esponente apicale, fin dalle bombe da lui collocate contro sedi istituzionali su richiesta dei servizi segreti nel capodanno 1971, proseguendo con l’omicidio da lui eseguito di Piersanti Mattarella, come come attestato da una sentenza della corte di assise di appello di Palermo sui delitti politici; e del professore Bosio, del giudice Rocco Chinnici, nella strage di via Pipitone Federico, di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, nella strage di Pizzolungo e nell’attentato all’Addaura. Non a caso, fu proprio Giovanni Falcone, col quale il poliziotto Agostino aveva riservati contatti – ha aggiunto – nei mesi precedenti al delitto, fu il primo a capire cosa ci fosse dietro l’uccisione del poliziotto e della sua giovanissima moglie”.
Secondo il legale di parte civile, “c’è la prova che l’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è stato ideato ed eseguito in sintonia dal ristretto direttorio di Cosa Nostra e da apparati istituzionali. Nino Madonia, il vero ministro della guerra e ministro di polizia di Cosa Nostra, il più pericoloso esponente della storia della mafia siciliana – ha spiegato – secondo le parole di Totò Riina intercettate nel 2013, è responsabile sia come ideatore del delitto sia come esecutore materiale. Si trattava infatti di un delitto che per la sua delicatezza imponeva il suo intervento, perché il poliziotto Agostino era un pericolo sia per i latitanti di Cosa Nostra nella sua attività di ricerca sia per le relazioni fra il mandamento mafioso di Resuttana e esponenti della polizia di Stato e del Sisde, che Agostino intendeva denunciare”.
“Purtroppo i depistaggi compiuti fin da subito sono stati determinati proprio dalla necessità di far scomparire dallo scenario l’intervento di uomini della Polizia e del Sisde, come Giovanni Aiello, e degli uomini d’onore più legati agli apparati, come Nino Madonia e Gaetano Scotto”, ha detto Repici.
Secondo il legale di parte civile, “c’è la prova che l’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è stato ideato ed eseguito in sintonia dal ristretto direttorio di Cosa Nostra e da apparati istituzionali. Nino Madonia, il vero ministro della guerra e ministro di polizia di Cosa Nostra, il più pericoloso esponente della storia della mafia siciliana – ha spiegato – secondo le parole di Totò Riina intercettate nel 2013, è responsabile sia come ideatore del delitto sia come esecutore materiale. Si trattava infatti di un delitto che per la sua delicatezza imponeva il suo intervento, perché il poliziotto Agostino era un pericolo sia per i latitanti di Cosa Nostra nella sua attivita’ di ricerca sia per le relazioni fra il mandamento mafioso di Resuttana e esponenti della polizia di Stato e del Sisde, che Agostino intendeva denunciare”.
Nel corso del suo intervento davanti al gup Alfredo Montalto, Repici ha lungamente affrontato il capitolo dei depistaggi alle indagini e alle figure in campo: “È certo che Giovanni Aiello (faccia da mostro, ndr) ha operato per anni in connubio con organizzazioni mafiose e in primis con il mandamento di Resuttana. Allo stesso tempo è stato provato che Aiello era stato legato a Bruno Contrada, fin dai tempi in cui prestava servizio alla Squadra mobile di Palermo negli anni Settanta. Da una intercettazione di un altro poliziotto in rapporti fiduciari con Bruno Contrada, Francesco Belcamino, si è appreso che la morte di Aiello nell’estate 2017 fu considerata un’evenienza positiva e pure che se costretto avrebbe parlato coi magistrati “scoperchiando il calderone”, sui fatti dei decenni passati”.
Ha detto ancora Repici: “Il collaboratore di giustizia Pietro Riggio, ex agente della penitenziaria, è peggio di Vincenzo Scarantino, peggio di Massimo Ciancimino. Altro che nuovo Buscetta, caso mai il nuovo Elio Ciolini, il noto depistatore”. Il legale si è concentrato sui contributi resi dai collaboratori di giustizia e segnalandone l’attendibilità, eccetto uno, appunto Pietro Riggio.
Infine l’avvocato Repici ha sottolineato come “Vincenzo Agostino e Augusta Schiera, genitori del poliziotto assassinato, siano stati costretti dalle inerzie dello Stato a farsi monumento nella ricerca di verità e di giustizia, divenendo un punto di riferimento per l’intera Nazione. La condanna di Antonino Madonia rappresenterà anche l’esito di una lotta lunga quasi trentadue anni, ricordata dalle parole iscritte sulla tomba di Augusta Schiera, morta il 28 febbraio 2019″.
In chiusura il legale di parte civile ha chiesto la trasmissione alla procura degli atti relativi alla posizione di Cosimo Rizzuto, padre dell’imputato (nel processo ordinario) Francesco Paolo Rizzuto, per concorso nel favoreggiamento compiuto dal figlio su sua istigazione, come risulta dalle intercettazioni effettuate nel 2018 dalla Dia di Palermo. Il processo è stato rinviato al 26 febbraio per l’arringa dei legali di Nino Madonia che proseguiranno anche il 5 marzo. AGI 5.2.2021
Il pentito Riggio parla . Ma di che cosa? . Sarà Pietro Riggio il “pentito di Stato” che alcuni magistrati, ma non solo, auspicavano per la ricerca della verità relativa alla trattativa Stato -mafia ? L’EX AGENTE PENITENZIARIO. Il suo curriculum potrebbe portare in questa direzione (pentimento di Stato). Riggio fu arruolato nel luglio del 1990 e destituito con decreto del Dap del 2 agosto del 2001, con efficacia retroattiva al 10 novembre 1998. Data nella quale fu arrestato da parte dei carabinieri di Caltanissetta nell’operazione “Grande Oriente”. In seguito a questo arresto è stato detenuto a Santa Maria Capua Vetere, dal 10 novembre 1998 al 7 aprile 2000.
Una volta scarcerato dalla struttura militare, nella quale era detenuto perchè appartenente alla polizia penitenziaria, fu sottoposto agli arresti domiciliari dal 7 aprile 2000 al 27 settembre 2000 ed ancora in detenzione domiciliare dal 12 dicembre 2001 al 30 ottobre 2001. In questo caso è stato accertato, i riscontri sono arrivati dalle indagini svolte dalla dottoressa Giustolisi della squadra mobile di Caltanissetta (mandato ricevuto dalla Corte per effettuare i riscontri su quanto Riggio stava dichiarando), che avesse un’autorizzazione a uscire da casa dalle ore 9 alle ore 11.
Ed è proprio in questo periodo, maggio del 2000, che entra a far parte formalmente della famiglia mafiosa di Caltanissetta occupandosi delle estorsioni.
Il suo è un ruolo marginale anche perché, come lui stesso ha raccontato nei vari procedimenti che lo vedono coinvolto, non essere mai stato oggetto del rito di affiliazione, la famosa “punciuta”. Riggio fu poi arrestato nel 2004 nell’ambito dell’indagine “Bobcat Itaca”.
Subì quindi un altro periodo di detenzione presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere dal maggio 2004 al marzo 2008. Fu poi colpito nuovamente da un fermo di polizia giudiziaria nel luglio del 2008 ed è questa la data dalla quale decide di collaborare con la giustizia.
Perché non decise, visto il suo ruolo secondario, di collaborare subito? L’ha spiegato lo stesso Pietro Riggio: si è sentito pronto nel parlarne dopo aver finalmente assistito alla sentenza di primo grado sulla trattativa.
E, da quel momento, Riggio di cose ne ha raccontate sino a garantirsi il premio come migliore Deep Throat, proveniente dagli ambienti mafiosi.
La quantità di argomenti toccati dalle sue dichiarazioni, di fatto, snaturano l’impianto originale accusatorio sulla trattativa, perché non sarebbero stati infedeli solo gli ex Ros finiti sotto processo, ma anche la Dia e non solo.
Alcune delle dichiarazioni hanno riguardato anche la strage di Capaci, perché, a quanto da lui dichiarato, la sua organizzazione avrebbe visto in primo piano anche i servizi segreti libici e che non sarebbe stato Giovanni Brusca a premere il telecomando che ha innescato il tritolo, ma questo concorderebbe con la tesi di “etero direzione” già indicato dal dottor Di Matteo.
Dalle sue rivelazioni sembrerebbe che il telecomando sia stato premuto da poliziotti che collaboravano con i servizi segreti.
La verità, in questo momento, è che i riscontri non ci sono e che, soprattutto, molti cominciano a chiedersi come un semplice “soldato” addetto alle estorsioni possa essere stato il destinatario di tante e tali confidenze, in un apparato in cui il segreto ha sempre riguardato non solo il rapporto con i semplici soldati ma anche con gli uomini d’onore.
Secondo il Riggio a organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati i servizi segreti libici il cui commando era composto da una donna, dal suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso e da un non meglio identificato Nasser, che sembra essere un medico ed ex pugile egiziano.
L’altro nuovo elemento introdotto da Riggio è che la Dia lo avrebbe utilizzato per far finta di catturare l’ex boss dei boss Bernardo Provenzano.
L’organizzatore di tutto ciò sarebbe stato un certo zio Tony, che secondo Riggio fa di nome Antonio Miceli, che lavorava per la Cia.
Tramite gli accertamenti eseguiti dalla squadra mobile di Caltanissetta si è scoperto che esiste ma il suo nome non risulta essere Antonio Miceli ma Antonio Mazzei.
Un ex delinquente di bassa lega che era stato effettivamente convocato dalla Dia perché, secondo le risultanze, sia lui che lo stesso Peluso, l’ex poliziotto che Pietro Riggio ha conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e che gli avrebbe rivelato le indicibili verità di cui oggi parla, avrebbero detto di essere in grado di poter arrivare alla cattura di Provenzano.
In questo caso il riscontro fu immediato e fu lo stesso colonnello Pellegrini della Dia che constatò che si trattava di truffaldini e millantatori.
Pietro Riggio risulta essere stato un confidente e avrebbe fornito elementi utili ai carabinieri ad individuare una talpa all’interno della Procura di Caltanissetta. Non solo.
Avrebbe anche aiutato a capire le dinamiche di Cosa nostra nissena e dato informazioni su tentativi di estorsione nel territorio.
Proprio su questo, il prossimo 11 gennaio saranno sentiti al processo i due colonnelli della Dia, Angiolo Pellegrino e Alberto Tersigni, che avevano gestito Riggio e appurato le millanterie di Peluso e del napoletano “zio Tony”.
Da un lato, quindi, Pietro Riggio, un uomo al soldo della compagine mafiosa e dall’altro un ex poliziotto, Peluso, che parla con tutti e che si vanta di far parte di qualcosa di più grosso. Riggio, in realtà, non fa altro che rivelare alle autorità tutto ciò che Peluso gli ha raccontato, molto spesso condito con dettagli errati.
Di fatto il Peluso, a proposito delle lettere criptate che mandava a Riggio, ha dovuto ammettere che parlava di traffico di droga per poter racimolare qualche soldo insieme. Ma, ancora una volta, questa potrebbe essere una delle tante finte verità che affollano il processo. Il sospetto è che l’ultima parte del processo sulla trattativa si stia concentrando su qualcosa che non esiste. O meglio, millantato.
Come si legge nell’informativa della Dia di Palermo, una fonte rivela ai carabinieri che “non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di Cosa nostra, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola”.
La fonte, inoltre, dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di “tale Peluso Giovanni, ex poliziotto, che proprio in questi giorni avrebbe preso la dimora a Catania presso persone compiacenti e si sarebbe recato più di una volta a Palermo, servendosi di mezzi pubblici”.
Potrebbe essere questo il contesto in Peluso ha parlato a Riggio di un attentato ai danni del l’ex giudice Leonardo Guarnotta? Non è certo. Fatto importante è che, sin dalla prima informativa, si evince che Peluso avesse come precedenti penali lo sfruttamento della prostituzione e la truffa.
Questo ultimo reato è stato un campanello d’allarme per Grasso, tant’è vero che, come si evince dalla lettura dell’informativa, ha concordato l’avvio delle indagini preventive “con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte”.
Al termine delle indagini questo dubbio è stato confermato. Si legge che “il linguaggio criptato di talune conversazioni telefoniche, il ricorso a millanterie e frasi di convenienza, nonché i suoi trascorsi, lascerebbero propendere per il coinvolgimento del Peluso in attività illecite di tipo truffaldino, i cui elementi, tuttavia, non è dato comprendere”. Peluso è quindi risultato essere il tipico millantatore per trarre profitto economico personale.
È possibile che Pietro Riggio abbia davvero preso per vero tutto ciò che Peluso e compagni gli hanno prospettato e raccontato
Il suo racconto è comunque pieno d’incongruenze e, alla fine, qualcosa non torna. Come nel caso del suo racconto relativo all’incontro con Giovanni Aiello, il famigerato “faccia da mostro”, che arrivò con una Bmw alla cui guida ci sarebbe stata una donna, Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Peluso.
Riggio racconta che la Castro sarebbe scesa dalla macchina e che indossava pantaloni mimetici. La Castro, fervente seguace del defunto guru indiano Sai Baba, dice però tutt’altro durante il suo interrogatorio. Come, ad esempio, che non si trattava di una Bmw ma di una Lancia Delta e che non sarebbe mai scesa da quella macchina oltre ad indossare abiti normali. Pietro Riggio ricorda il numero di targa di quella Bmw grazie, probabilmente, a un’eccezionale memoria fotografica a distanza di decenni. La squadra mobile ha eseguito gli accertamenti e che ha scoperto che la targa esiste, ma si tratta di quella un trattore. Il proprietario, su cui la squadra mobile ha preso informazioni, svolge una semplice attività di autotrasportatore e ha accertato che non ha mai subito un furto, smarrito e nemmeno prestato a qualcuno la sua targa. Si tratta di una persona che non ha nulla a che fare con tutti questi personaggi, ma è un semplice cittadino che fa il suo lavoro. Non si può però escludere che Riggio si sia confuso e avrà invertito qualche numero. Ma, tra i suoi e i racconti di Peluso, è difficile districare la matassa che risulta essere, più che veritiera e verificabile, ingarbugliata. Vi ricordate Il primo gioco che tutti abbiamo fatto sulla Settimana Enigmistica che si chiamava “unire i puntini”? Al processo sulla trattativa i puntini non si uniscono. Udienza dopo udienza è sempre più lecito chiedersi cosa possa avere a che fare tutto questo con la trattativa Stato-mafia o con le stragi di Capaci e Via D’Amelio dove persero la vita Falcone e Borsellino e le loro scorte. Purtroppo la storia, anche non recente dell’Italia, ci ha dimostrato che il passo tra “entità superiori” e “amici della domenica”, è davvero breve. E infine, ancora una volta, “Cui prodest?” (a chi giova?) WORDNEWS 20.12.2020 Roberto Greco
Processo Stato-mafia, Tirrito: “Riggio squarcia il velo. Anche gli intoccabili tremano, finalmente” “Finalmente è possibile chiamare in causa, con lo strumento giudiziario, anche i cosiddetti intoccabili, sistemati nei posti chiave dello Stato e collusi con la malavita” Lo ha detto davanti ai giudici in udienza, lo ha ribadito di fronte alle telecamere di Atlantide (La7): “Sono stato minacciato da appartenenti allo Stato, non alla mafia. Chi mi ha minacciato ha una divisa e appartiene allo Stato” . Queste parole di Pietro Riggio, ex agente di polizia penitenziaria e collaboratore di Giustizia dal 2008 – afferma Maricetta Tirrito, portavoce del Cogi, Comitato dei Collaboratori di Giustizia – in tempi normali, avrebbero riempito le pagine di tutti i giornali, mentre oggi, voglio sperare sia per l’attenzione tutta rivolta al Covid, questa fortissima accusa passa inosservata. Eppure è un fatto che, dopo depistaggi e processi infiniti, oggi sembra arrivato il momento il cui viene squarciato il velo della complicità dello Stato, o meglio di pezzi delle Istituzioni conniventi, con la mafia; scenari che finalmente oggi si possono capire e raccontare, che stranamente non trovano spazio sui grandi giornali. La deposizione di cui parliamo è dell’11 ottobre 2020, dunque aggiornatissima. E 5 diverse procure (Caltanissetta, Palermo, Firenze, Reggio Calabria, Catania) stanno utilizzando le sue dichiarazioni; interventi in aula che letteralmente stravolgono processi incardinati da anni. E’ sempre più evidente che l’utilizzo dei collaboratori di Giustizia resta un punto focale, forse l’unico vero spiraglio che abbiamo nella vecchia e nella nuova mafia per cercare di capire quale sia l’evoluzione del pensiero mafioso e avere un’arma concreta per contrastarlo. Questo episodio rafforza anche la linea per cui i Collaboratori e le loro famiglie vanno tutelati, in quanto unici nel poter dare indicazioni agli inquirenti per orientarsi nel torbido mondo della malavita organizzata e delle connivenze che riesce a creare. Finalmente è possibile parlare apertamente di pezzi deviati dello Stato, di incontri con boss mafiosi, di pressioni e intimidazioni, di argomenti fino a poco tempo fa innominabili. E finalmente è possibile chiamare in causa, con lo strumento giudiziario, anche i cosiddetti intoccabili, sistemati nei posti chiave dello Stato e collusi con la malavita. Il prossimo passo è non fermarsi”. 19 Novembre 2020 IL FARO
Stato-mafia, Giustolisi conferma: ”Riggio collaborava con la Dia”. La Procura generale chiede audizione di Pellegrini, Terzigni e Guarnotta. “Nel compendio della documentazione acquista presso la Dia di Palermo abbiamo trovato delle relazioni di servizio (in tutto 58, ndr) redatte dal colonnello Tersigni e dal colonnello Pellegrini, in epoca in cui entrambi si trovavano alla Dia di Palermo. Relazioni che vanno dal 4 maggio 2002 al 30 marzo 2004, in cui Riggio è indicato con il nome in codice Ugo”. E’ ricominciato da qui l’esame nel processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia della dirigente della Squadra mobile di Caltanissetta, Marzia Giustolisi, da un paio d’anni impegnata nelle indagini e negli accertamenti a riscontro delle dichiaraizoni del collaboratore di giustizia nisseno Pietro Riggio.
Quest’ultimo, ascoltato nei mesi scorsi dalla Corte d’assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), ha indubbiamente riacceso l’attenzione sul procedimento che vede imputati congiuntamente i mafiosi, ex politici, e ex rappresentanti delle istituzioni, indicando il nome ed il cognome di possibili soggetti esterni che potrebbero aver avuto un ruolo nella strage di Capaci, ma ha anche parlato del possibile ruolo di Marcello Dell’Utri come colui che “suggerisce la creazione del nuovo partito e indica quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”; della creazione di una squadretta per arrivare all’arresto di Bernardo Provenzano; di un progetto di attentato al giudice Guarnotta; di quello che ha saputo sulla morte di Luigi Ilardo e Antonino Gioé.
La funzionaria ha confermato che, dopo le dichiarazioni del pentito, sono stati ascoltati dalla Dda nissena sia Tersigni che l’ex capo centra della Dia di Palermo, Pellegrini e che quest’ultimo ha anche consegnato una nota, datata 18 gennaio 2001, in cui “metteva a parte i propri superiori dell’imminente attivazione di intercettazioni preventive a carico di Giovanni Peluso. Una necessità legata ad accadimenti di eventi gravi che si sarebbero dovuti verificare nella città di Palermo”.
Nello specifico in quella nota si parla di “non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di Cosa nostra, che potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante nel Capoluogo dell’Isola, che potrebbero servirsi per le attività connesse di suddetto attentato di tale Peluso Giovanni”.
Riggio riferì agli inquirenti che il progetto di attentato che si prevedeva in quell’epoca era quello al giudice Leonardo Guarnotta, ex membro dello storico pool di Palermo, ma anche giudice del Processo per concorso esterno contro Marcello Dell’Utri.
Le intercettazioni furono attivate dal 21 febbraio 2001 all’11 maggio dello stesso anno, senza però che fosse accertato nulla.
Miceli? No Mazzei
Nel suo flusso di coscienza Riggio aveva anche raccontato di un incontro che ebbe alla Dia di Roma, nel periodo della sua prima detenzione, in presenza dello stesso pellegrini e di un tale “Zio Tony”. “Dal carteggio acquisito – ha spiegato la Giustolisi rispondendo alle domande dei sostituti Pg Fici e Barbiera – quel trasferimento vi è stato il 7 luglio 1999 ed abbiamo verificato che il soggetto che il collaboratore ha indicato con il cognome di Miceli in realtà è un soggetto con il cognome assonante: Antonio Mazzei. Soggetto con diversi pregiudizi di polizia. Non è appartenenete alle forze dell’ordine e dal 2000 risulta impiegato all’azienda Servizi igiene ambientali di Napoli”.
Alla richiesta di approfondimenti sulle modalità di individuazione del soggetto la dirigente della Mobile ha spiegato che è proprio questo il soggetto che, come dichiarò Riggio, fu fermato unitamente all’ex poliziotto Giuseppe Leonardo Porto alla frontiera di Ponte Chiasso. “Il Mazzei – ha aggiunto – è stato escusso a Sit dalla Dda di Caltanissetta e ha confermato”. Ugualmente confermato che questo Mazzei aveva “un rapporto di collaborazione esterna” con i Servizi di sicurezza.
Tra le verifiche svolte dalla Squadra mobile anche il dato che nel dicembre del 2000 furono fermati congiuntamente Giovanni Peluso e Pietro Riggio. Una verifica volta a dimostrare che Peluso, in quell’anno, fosse presente nel territorio di Caltanissetta.
Per quanto concerne la collaborazione del pentito nisseno in qualità di confidente dei carabinieri Tersigni, Pellegrini e prima ancora Tricarico, si è dato atto che lo stesso aveva fornito elementi sull’assetto di Cosa nostra nissena; notizie relative alla presenza di una talpa all’intermo degli uffici giudiziari nisseni; e alcune estorsioni che si dovevano svolgere o che si erano svolte sui territori nisseni.
Altri accertamenti hanno riguardato la presenza a Villalba di Vincenzo Ferrara, ovvero l’uomo indicato da Riggio come colui che gli rilasciò una serie di confidenze sulla strategia stragista e Marcello Dell’Utri.
Rispetto a quanto detto da Riggio questi non sarebbe una figura di spicco all’interno dell’organizzazione criminale nissena e sicuramente non è cognato del boss Piddu Madonia. “Abbiamo accertato che Riggio prestò servizio a Villalba dal 15 giugno 1993 al 28 febbraio 1996. E che anche Ferrara, oggi detenuto, si trovava lì per scontare un definitivo pena per associazione a delinquere finalizzata alle estorsioni. Il cognato di Ferrara, in realtà, si chiama Giovanni Alaimo e questi è cugino di primo grado di Piddu Madonia”. Per quanto riguarda la verifica sul tentativo di suicidio di Ferrara in carcere non è stato possibile compiere particolari accertamenti in quanto la casa mandamentale di Villalba è chiusa e gran parte dei documenti ad essa riferiti sono andati distrutti per un allagamento dei locali di archivio della casa circondariale di Caltanissetta. Tuttavia, “rispetto al racconto del Riggio sul tentativo di Suicidio – ha detto la Giustolisi – abbiamo rinvenuto la lettera, sequestrata e già agli atti dell’operazione Grande Oriente, e la busta nella perquisizione avvenuta a casa della madre di Riggio, strappata e ricomposta con lo scotch”.
Una volta conclusa la deposizione la Procura generale ha chiesto l’acquisizione di una serie di documenti inerenti gli accertamenti su Riggio. Al contempo ha chiesto alla Corte di poter ampliare l’istruttoria con l’escussione di Pellegrini, Tersigni ed il giudice Guarnotta.
“Il dato certo incontestabile – ha detto Fici – è che il Riggio Pietro è stato condotto dal carcere di Santa Maria Capua Vetere a Roma, presso gli uffici della Dia. Qui è entrato in contatto con il colonnello Pellegrini e con lo zio Toni, identificato con tale Mazzei. Riggio riferisce che il Porto gli preannunciava che lì avrebbe incontrato un soggetto con un anello che avrebbe fatto da garante rispetto al funzionario della Dia. E sull’anello è rimasto, a giudizio dell’ufficio, è rimasto riscontrato dall’ufficio, dalle dichiarazioni di Mazzei e del colonnello Pellegrini. Ugualmente è riscontrato che Riggio è stato confidente della Dia di Palermo. Secondo la prospettazzione del Riggio la sua affiliazione nell’ambito di Cosa nostra nissena è stata sollecitata dagli organi investigativi che, attraverso la sua affiliazione presso il tessuto criminale di Cosa nostra a Caltanissetta, avrebbero potuto acquisire notizie significative per poter pervenire alla cattura del più noto latitante all’epoca, il capo indiscusso di Cosa nostra, Bernardo Provenzano. A fronte di 58 relazioni riservate che documentano che lo stesso era un confidente dei carabinieri e che per dieci anni resta in carcere e non fa nulla per riferire certe circostanze, e che non è stato rinvenuto alcunché riguardo ai 18 mesi che hanno preceduto l’avvio degli appunti riservati di Tersigni io credo che dobbiamo capire in quei 18 mesi cosa ha riferito e se sono vere le circostanze dallo stesso riferite. Alla stregua di queste considerazioni, che si poggiano sul contenuto dichiarativo riferito dal Riggio, dalle investigazioni per come riferite dalla dottoressa Giustolisi e dalla documentazione ricevuta chiediamo che vengano escussi a dibattimento Tersigni, Pellegrini e il dottor Guarnotta. Per altre tre fonti dichiarativa, il collaboratore di giustizia Barbieri, Porto e Peluso, in un ottica di riduzione dei tempi chiediamo la produzione dei verbali degli interrogatori, dei confronti di Porto e Peluso con il Riggio”. Al termine dell’udienza la Procura generale ha depositato, a disposizione delle parti, i verbali di sommarie informazioni con le dichiarazioni rese da Tersigni e Guarnotta, in cui non mancano anche degli omissis. “… Negli anni 2000-2001 presiedevo il collegio che giudicava Marcello Dell’Utri a Palermo. Al tempo non ebbi alcuna notizia di un progetto di attentato ai miei danni”, ha dichiarato Guarnotta ai pm nisseni. Anche Tersigni – dal 2000 al 2016 alla Dia di Palermo – sentito dai pm nisseni nel novembre 2018, ha messo ha confermato alcuni elementi: “Pellegrino avvicinò Riggio con l’obiettivo di catturare Provenzano… può darsi che abbia parlato anche di attentati nei confronti di magistrati ma non ne ho ricordo. In ogni caso delle sue confidenze furono redatte annotazioni di servizio”. Il processo è stato rinviato al prossimo18 dicembre quando le difese dovranno interloquire sulla richiesta. Aaron Pettinari 14 Dicembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA
Pietro Riggio ha raccontato di aver incontrato Giovanni Aiello in Bmw e di ricordarne la targa, ma è stato accertato che era quella di un trattore. Pietro Riggio è forse il “pentito di Stato” che alcuni magistrati auspicavano per la ricerca sulla verità relativa alla presunta trattativa Stato-mafia. D’altronde è stato un agente penitenziario, prima di diventare un mafioso più o meno di rango. Di fatto è diventato organico a Cosa nostra nel maggio del duemila occupandosi delle estorsioni. Ha svolto tale mansione subito dopo aver finito di espiare la pena per favoreggiamento aggravato. Poi viene arrestato nuovamente nel 2004 per 416 bis e finisce di scontare la pena nel 2008. Ma nello stesso anno viene di nuovo arrestato.
Ha iniziato a parlare dopo la sentenza di primo grado Ed è lì che decide di diventare collaboratore di giustizia. Attenzione, le “verità” sulla grande organizzazione Dia – servizi segreti deviati libici, italiani – Cia verrà da lui rivelata soltanto nel 2018. Il motivo? Lo ha detto Pietro Riggio stesso: si è sentito pronto nel parlarne dopo aver finalmente assistito alla sentenza di primo grado sulla trattativa. E di cose ne ha dette. Così tante che snatura, di fatto, l’impianto originale accusatorio sulla trattativa, perché non sarebbero stati infedeli solo gli ex Ros, ma anche la Dia e non solo. Due sono le novità che arrivano in corso d’opera. Punto uno. A premere il telecomando che ha azionato il tritolo a Capaci non sarebbe stato Giovanni Brusca, ma i poliziotti che collaboravano con i servizi segreti.
I servizi segreti libici avrebbero organizzato l’attentato di Capaci Ad organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati addirittura i servizi segreti libici composti da una donna, il suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso facente parte del complotto e un certo Nasser, che sarebbe un medico ed ex pugile egiziano. Punto due. La Dia avrebbe utilizzato lo stesso Pietro Riggio per far finta di catturare l’ex boss dei boss Bernardo Provenzano. Il tutto sarebbe stato organizzato da un certo zio Tony, che secondo Riggio fa di nome Antonio Miceli. E attenzione, questo zio Tony avrebbe lavorato per la Cia. In realtà, tramite accertamenti da parte della squadra mobile di Caltanissetta si è scoperto che esiste, ma si chiama Antonio Mazzei. Un ex delinquente di bassa lega che effettivamente era stato convocato dalla Dia perché – secondo i carabinieri stessi-, sia lui che lo stesso Peluso (colui che ha conosciuto Pietro Riggio nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e che gli avrebbe rivelato indicibili verità), avrebbero detto di essere in grado di poter arrivare alla cattura di Provenzano. Lo stesso colonnello Pellegrini della Dia ha poi constatato che erano dei truffaldini e millantatori. Riggio però, effettivamente, era un confidente e avrebbe infatti fornito elementi utili ai carabinieri ad individuare una talpa all’interno della Procura di Caltanissetta, ma avrebbe anche aiutato a capire le dinamiche di Cosa nostra nissena e dato informazioni su tentativi di estorsione nel territorio.
L’11 gennaio prossimo saranno ascoltati i due colonnelli della Dia Intanto, l’11 gennaio saranno sentiti al processo trattativa proprio i due colonnelli della Dia, Angiolo Pellegrino e Alberto Tersigni, che avevano gestito Riggio e appurato le millanterie di Peluso e del napoletano “zio Tony”. Abbiamo, quindi, da una parte Riggio che era effettivamente organico alla mafia, dall’altra l’ex poliziotto Peluso che parla con tutti, si vanta di far parte di qualcosa di più grosso. Riggio non fa altro che rivelare alle autorità tutto ciò che Peluso gli ha raccontato. Durante il confronto tra i due, di fronte all’evidenzia delle lettere criptate che lui mandava a Riggio quando era in carcere, ha dovuto ammettere che parlava di traffico di droga per racimolare qualche soldo insieme. Oppure, cosa che non dice, può aver parlato di come catturare Provenzano? Il problema è che, per ora, del loro contenuto non è dato sapere. Il sospetto è che l’ultima parte del processo sulla trattativa si stia concentrando su qualcosa che non esiste. O meglio, millantato. L’ultima domanda rivolta a Peluso da parte del procuratore Gabriele Paci di Caltanissetta potrebbe proprio far pensare a questo: «Allora, mettiamola così, perché vorremmo capire una cosa: lei può essere un uomo oscuro dei Servizi Segreti deviati e può essere un millantatore, togliamo l’idea che lei sia un uomo dei Servizi Segreti deviati, siccome c’era… non so quanto c’era di taglia su Provenzano, può aver raccontato qualche stupidaggine?». In effetti all’epoca girava una taglia milionaria per la cattura del latitante. Il sospetto però diventa quasi una certezza quando si leggono le risultanze delle indagini preventive fatte nei confronti di Peluso su richiesta della procura di Palermo guidata da Pietro Grasso. Parliamo del 2001. Come si legge nell’informativa della Dia di Palermo, una fonte rivela ai carabinieri che «non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di “Cosa Nostra”, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola». La fonte dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di «tale Peluso Giovanni, ex poliziotto, che proprio in questi giorni avrebbe preso la dimora a Catania presso persone compiacenti e si sarebbe recato più di una volta a Palermo, servendosi di mezzi pubblici». Forse è in quel contesto che Peluso avrebbe detto a Riggio l’intenzione di uccidere l’ex giudice Leonardo Guarnotta?
I precedenti penali per sfruttamento della prostituzione e truffa Attenzione, fin dalla prima informativa si evince che Peluso aveva come precedenti penali lo sfruttamento della prostituzione e truffa. Quest’ultimo reato è stato per Grasso un campanello d’allarme, tant’è vero – come si legge nell’informativa – che ha concordato l’avvio delle indagini preventive «con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte». Ebbene, alla fine le indagini hanno confermato questo dubbio. Si legge che «il linguaggio criptato di talune conversazioni telefoniche, il ricorso a millanterie e frasi di convenienza, nonché i suoi trascorsi, lascerebbero propendere per il coinvolgimento del Peluso in attività illecite di tipo truffaldino, i cui elementi, tuttavia, non è dato comprendere». Fine delle indagini. Peluso è risultato il tipico millantatore per trarre profitto. D’altronde non sarebbe né il primo, né tantomeno l’ultimo. Recentemente è stato arrestato un collaboratore dei servizi segreti che millantava conoscenze per truffare un imprenditore.
La targa della Bmw di “faccia di mostro” ricordata da Riggio era quella di un trattore Ma Pietro Riggio? Forse ha davvero preso per vero tutto ciò che Peluso e compagni gli hanno prospettato? Qualcosa però non torna nemmeno nei suoi racconti. Ma, per ora, vale la pena raccontare il fatto che avrebbe incontrato Giovanni Aiello, il famigerato “faccia da mostro”, in Bmw. Alla guida una donna che sarebbe poi Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Peluso. Riggio dice pure che questa donna sarebbe scesa dalla macchina e che portava pantaloni mimetici. La Castro, fervente seguace del defunto guru indiano Sai Baba, dice però tutt’altro durante il suo interrogatorio. Ad esempio che non era una Bmw ma una Lancia Delta, che in realtà non sarebbe mai scesa da quella macchina e che indossava abiti normali. Qual è la verità? Pietro Riggio però si ricorda il numero di targa. Una memoria fotografica a distanza di decenni. La squadra mobile ha fatto degli accertamenti. La targa esiste, ma è di un trattore. Il proprietario svolge una semplice attività di autotrasportatore e hanno accertato che non ha mai subito un furto, smarrito o prestato a qualcuno la sua targa. Non ha nulla a che fare con tutti questi personaggi, ma è un semplice cittadino che fa il suo lavoro. Probabilmente Riggio si è confuso e avrà scambiato qualche numero. Tra lui e i racconti di Peluso, è difficile districarsi. I puntini non si uniscono. Più si va avanti e più viene da chiedersi cosa possa avere a che faretutto questo con la presunta trattativa Stato-mafia o le stragi di Capaci e Via D’Amelio dove persero la vita Falcone e Borsellino. Dalle presunte entità a una sorta di “compagni di merende”, il passo è davvero breve. IL DUBBIO 18.12.2020
Lo Stato-mafia secondo Riggio: la Cia, i libici, la Dia, passando per il Sappe. Nel processo di Appello su Stato-mafia concluso oggi il controesame da parte di Basilio Milio e Francesco Romito, difensori degli ufficiali Ros. Se si dovesse prendere alla lettera la testimonianza del collaboratore di giustizia Pietro Riggio, un ex agente penitenziario che è poi diventato un mafioso di rango, Cosa nostra non è in realtà com’è stata dipinta da Giovanni Falcone. Il controesame a Riggio da parte dell’avvocato Basilio Milio e Francesco Romito, difensori dei Ros nel processo d’Appello Stato-mafia si è concluso oggi. La mafia non solo ha ricoperto un ruolo secondario, ma addirittura è stata presa anche per i fondelli dai poliziotti e servizi segreti perfino internazionali. Il telecomando che ha azionato il tritolo a Capaci non sarebbe stato premuto da Giovanni Brusca. O meglio, quest’ultimo lo ha premuto credendo che l’esplosione sia stata merito suo, mentre invece a premere il pulsante vero sarebbero stati i poliziotti che collaboravano con i servizi. Quindi Brusca, ma addirittura Totò Riina che fino agli ultimi giorni della sua vita (pensiamo alle intercettazioni ambientali al 41 bis) ha miserabilmente osannato le sue gesta relative agli attentati di Capaci e via D’Amelio, sarebbero stati dei poveri ingenui.
Tutto gestito da “zio Toni”. Ma non c’entrano solo i carabinieri e servizi italiani. A organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati addirittura i servizi segreti libici composti da una donna misteriosa, il suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso facente parte del complotto e un certo Nasser, un ex pugile egiziano ma che era al servizio di Gheddafi. Attenzione, sempre secondo Pietro Riggio, tutti loro (poliziotti, carabinieri della Dia e servizi libici) sarebbero stati gestiti da un certo “zio Toni”, che di nome fa Antonio Miceli, il quale però era al servizio della Cia. Sono sempre loro, in questo caso specifico la Dia, a chiedere a Riggio di fare una sorta di agente sotto copertura all’interno della mafia. Lo scopo? Reperire notizie per catturare Bernardo Provenzano. Anzi no. Riggio – come si evince dall’interrogatorio del 2018 davanti al procuratore di Caltanissetta Gabriele Paci e a quello di Firenze – percepisce un “doppio gioco” e dice di aver capito che la Dia in realtà lo usava per non catturare Provenzano. Qualcuno gli fece anche capire che era in pericolo. Ma non si capisce bene il perché. Ed è il procuratore Paci a farglielo presente con domande serrate e precise, visto che troppe cose da lui raccontante non sembrerebbero avere un filo logico. Dopo un botta e risposta per capire la logica, a pagina 88 del verbale dell’interrogatorio Paci gli chiede testualmente: «Riggio scusi, lei mi deve spiegare il senso di questa frase perché non ha senso: “tu sei un uomo morto, io t’ho salvato perché non hai capito che i carabinieri vogliono acquisire notizie ognuno dai referenti che hanno per non farlo prendere, per non prenderlo”. Allora io veramente non ne esco fuori, noi non ne usciamo fuori. È come dire: “tu stai facendo una cosa inoffensiva, che Provenzano lo sa perché sa che si parla con i carabinieri, gli va bene che li date le notizie. Queste notizie questi non le utilizzano perché non lo vogliono prendere, però io ti ho salvato in vita”. Non fila».
Un’incredibile memoria fotografica La narrazione prosegue, ma – almeno da quello che si evince dal verbale – si fa sempre più fatica a comprenderla. Riggio parla di tutto, dice anche di aver incontrato il poliziotto “faccia di mostro”, ovvero quello che poi lo ha riconosciuto come tale dopo aver visto le foto sui giornali. Si ricorda che lui (si faceva chiamare Filippo) era su una Bmw, accompagnato da una misteriosa donna con la mimetica. Riggio si ricorda il numero di targa a distanza di decenni. Il pm Paci gli chiede come fa a ricordarselo senza aver segnato il numero su un foglietto, e lui risponde che ha una memoria fotografica. Sempre Paci gli fa notare che tante cose che dice (apprese dal poliziotto Peluso, il presunto 007 conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere) sono notizie già uscite fuori, compresa la storia della famosa telefonata dell’onorevole Rudy Maira fatta alla mafia per avvisare che Falcone sarebbe atterrato a Capaci. Da sottolineare che ci fu un processo e fu assolto, quindi innocente. Una storia, quindi, non vera. Riggio però risponde di non aver appreso della telefonata sui giornali, ma solo da Peluso. Quest’ultimo, ricordiamo, sempre secondo il pentito sarebbe il poliziotto al servizio del Sismi che avrebbe non solo azionato il telecomando per l’attentato di Capaci, ma anche organizzato un attentato – fortunatamente mai arrivato a compimento – negli anni 2000 contro il giudice Guarnotta. Il pentito ha parlato pure del caso di Antonello Montante, anche questa notizia già conosciuta.
Riina, Brusca e co.? Degli ingenui… L’ex poliziotto penitenziario poi passato alla mafia, sembra che conosca tanti segreti. Una narrazione che però – se presa alla lettera – potrebbe far percepire che la mafia sia stata quasi ingenua, come se alla fine fosse tutto organizzato dalle altre “entità”. Riggio lo hanno voluto sentire come testimone durante il processo Capaci bis proprio gli avvocati degli imputati mafiosi. E hanno tutte le ragioni per averlo fatto: se la mafia ha ricoperto un ruolo secondario, o addirittura nemmeno ha azionato il telecomando che ha creato la terribile esplosione, la loro posizione si sarebbe dovuta affievolire. Ma fortunatamente non è stato così e il 21 luglio scorso sono stati confermati gli ergastoli per tutti e quattro i boss. Vale la pena riportare un altro racconto, questa volta delle carceri, quando Riggio faceva l’agente di custodia. Dice di aver fatto parte del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria di cui il segretario era (ed è tuttora) Donato Capece. Il pentito, sempre nel verbale del 2018, per spiegare i presunti favori che Forza Italia avrebbe fatto alla mafia, aggiunge questo dettaglio: «La segreteria si trova, per capirci, sopra il bar Mandara a Roma, vicino piazzale Clodio, perché qui ho avuto modo di verificare dove la politica si incontrava con le richieste della mafia perché Capece in contatto con dei personaggi politici che allora facevano parte, diciamo dell’entourage di Forza Italia, cominciò a battersi per la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara». Ora il Sappe, a parere di chi scrive, ha tanti difetti proprio perché cavalca il populismo penale. Che abbia addirittura indirettamente favorito la mafia non è lontanamente immaginabile. Un po’ tutti i sindacati, per tutelare la qualità di vita lavorativa dei loro iscritti, hanno chiesto la chiusura di questi famigerati penitenziari. Carceri delle torture fortunatamente chiuse nel 1998 tramite decreto, ma non per merito di Forza Italia che nemmeno era al governo. Così come il discorso del non rinnovo automatico del 41 bis per circa 300 soggetti, di cui solo una minima parte erano mafiosi. Lo fece Giovanni Conso, ministro della Giustizia del governo di centrosinistra e per rispettare il dettame della Consulta. All’epoca, anno 1993, Forza Italia ancora non era nata. Anche la tesi della trattativa, d’altronde, non la inserisce in quel contesto. Tanta, troppa confusione sotto il cielo. Ma ci penseranno i giudici a valutare la sua attendibilità. Pietro Riggio, ricordiamo, è sentito come testimone al processo d’appello sulla trattativa Stato mafia. In quell’occasione ha aggiunto qualcosa in più: sarebbe stato Marcello Dell’Utri a dettare alla mafia i luoghi dove compiere gli attentati. Un Totò Riina ridotto a fare lo scendiletto dei politici e servizi? Se così fosse, allora è tutta da rifare l’analisi sulla natura della mafia, a partire da ciò che si evince dal libro “Cose di Cosa Nostra” scritto a quattro mani da Marcelle Padovani e Falcone. In realtà quest’ultimo l’aveva capita molto bene la mafia e i suoi interessi affaristico-politici, per questo era stato trucidato con una quantità impressionante di tritolo tanto da squarciare l’autostrada. Stessa sorte, 57 giorni dopo, a Paolo Borsellino. Nel frattempo oggi si è concluso il controesame a Riggio da parte dell’avvocato Basilio Milio e Francesco Romito, difensori dei Ros nel processo d’Appello Stato-mafia. 26 Oct 2020 IL DUBBIO Damiano Aliprandi
Ingroia: ”Pietro Riggio? Sensazione sia il pentito di Stato che cercavamo” L’ex pm mette però in guardia: “Magistrati dovranno avere massimo rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni”“La sensazione è che Pietro Riggio sia proprio quel pentito di Stato di cui si parlava nelle indagini del processo Trattativa Stato-mafia quando si diceva che avevamo bisogno di un pentito di stato che ci raccontasse cosa è successo dall’interno di esso”. A dirlo, intervistato da Vox Italia Tv, è l’avvocato Antonio Ingroia, già procuratore aggiunto di Palermo e “padre” dell’inchiesta “Sistemi criminali”, confluita poi nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. L’ex magistrato ha risposto ad alcune domande su Pietro Riggio, ex agente di polizia penitenziaria poi affiliato in Cosa Nostra e oggi collaboratore di giustizia, che soprattutto negli ultimi mesi sta rilasciando importanti dichiarazioni in merito alla stagione stragista dei primi anni ’90 e agli omicidi eccellenti del secolo scorso. Le sue dichiarazioni sono state raccolte da ben 4 procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze e Reggio Calabria) ma in tanti si interrogano sull’attendibilità di Riggio. E Antonio Ingroia non è da meno anche se, ha affermato, “le sue dichiarazioni hanno una serie di riscontri formidabili in tutte le ricostruzioni degli ultimi anni alle quali ho contribuito anche io fino a dieci anni fa sulle stragi, sui mandanti esterni e sugli omicidi eccellenti”. Secondo Antonio Ingroia, Pietro Riggio “non è un pentito di Stato di primissimo rango però è un pezzo dello Stato che racconta, soprattutto dentro una componente fondamentale che è quella del circuito carcerario, quei retroscena spesso rimasti dei buchi neri”. E, a detta di Ingroia, una delle sue chiavi di lettura che ad esempio corroborerebbero con i sospetti emersi dall’inchiesta sulla Trattativa riguarda “la vicenda di Antonino Gioè che è in sintonia con quella che intuivamo ma non avevamo le prove per affermarlo”.
I dubbi di Borsellino Sempre parlando del pentito Riggio è stato decisamente più cauto Salvatore Borsellino, fondatore del Movimento delle Agende Rosse e fratello del giudice Paolo, anche lui intervenuto in diretta su Vox Italia Tv. “Non posso entrare nel merito delle rivelazioni di questo nuovo collaboratore di giustizia, ma ho una sensazione che ci sia qualcosa che non mi quadri nei tempi e nei riscontri che è indispensabile che ci siano”, ha affermato Borsellino. “Non basta che Riggio dica qualcosa, servono riscontri possibilmente anche da altri collaboratori. Riggio parla del relato non parla di sue esperienze dirette e questo mi lascia molto perplesso”, ha aggiunto. “L’unica mia speranza è che ci sono più procure che si avvarranno delle sue dichiarazioni e quindi ci sono meno rischi che avvenga ciò che è avvenuto nel Borsellino 1 e nel Borsellino 2, ovvero che ci sia una procura che avalli per due volte un depistaggio come il caso Vincenzo Scarantino. Non vorrei che anche in qualche maniera dietro le rivelazioni di questo pentito ci sia qualche depistaggio anche in questo caso ma di un altro livello. Non sono un addetto ai lavori ma ci sono cose che non mi quadrano nelle sue rivelazioni – ha ribadito – cose su cui bisogna andare più a fondo e cercare riscontri”.
Raccogliere e approfondire E i riscontri pare, ci sono, almeno per il momento. Ne ha elencati alcuni Aaron Pettinari, capo redattore di ANTIMAFIADuemila anche lui intervenuto nella trasmissione. Pettinari ha riportato alcuni elementi importanti relativi alle dichiarazioni di Riggio rilasciate in aula a Palermo alla quale il giornalista ha presenziato qualche giorno fa. “Lunedì doveva essere sentita Marzia Giustolisi, dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta che si è occupata degli accertamenti al dichiarato di Riggio”, ha detto Pettinari. “Ma è stata interrotta su richiesta delle difese perché volevano avere la certezza che le domande vertessero solo sugli atti non omissati. Fatto sta che quelle poche dichiarazioni che sono state fatte comunque una prima base di riscontro ad alcuni elementi che Riggio aveva riportato ce l’hanno”. Ad esempio, ha spiegato il giornalista, “sulle lettere criptiche che Riggio si sarebbe scambiato con altri soggetti appartenenti alla polizia e poi immischiati nei servizi segreti sono state riscontrate e decifrate dalla Squadra Mobile a detta di Marzia Giustolisi”. E ancora “la descrizione che fa Riggio sulla morte di Antonino Gioè– ha affermato Pettinari – coincide clamorosamente con alcuni passaggi. Infatti si fa riferimento a un metodo in cui intervenivano queste ‘squadre della morte’ all’interno delle carceri italiane e si fa riferimento anche ai colpi dati al costato di Gioè”. Il boss di Altofonte, ha ricordato il capo redattore di ANTIMAFIADuemila, “venne ritrovato con qualche costola fratturata e c’erano i segni della corda che non coincidevano con l’impiccagione. Riggio poi dice anche che Marcello Dell’Utri è stato colui che ha dato indicazione dei luoghi da colpire del 1993 e sappiamo in questo momento che la procura di Firenze ha aperto un fascicolo su Marcello Dell’Utri e sull’ex presidente Silvio Berlusconi in qualità di mandanti”.
“Ovviamente – ha concluso il suo intervento Pettinari – non ci si deve sbilanciare troppo e non si deve cadere in depistaggi come avvenuto con Vincenzo Scarantino, ma deve essere preso tutto. Bisogna approfondire perché ci sono elementi sicuramente importanti che rappresentano grosse novità e che possono dare una spinta alle indagini. “Mettendo in fila i pezzi – ha concluso Pettinari – penso si potrà comprendere quanto è vero questo dichiarato”.
“O grande pentito o grande depistatore” Sulla questione, dopo aver ascoltato gli interventi degli altri ospiti, ha poi ripreso parola Antonio Ingroia sottolineando che “siamo di fronte a una vicenda molto grossa e rilevante”. “Riggio non è un chiacchierone. O è un collaboratore serio, e quindi può dare una spinta alle indagini sulle stragi come si aspettava da anni, oppure anche lui è un depistatore costruito a tavolino”, ha sentenziato. “Non c’è una via di mezzo o siamo in presenza di un collaboratore di giustizia di grandissimo rilievo che può svoltare le indagini o siamo in presenza di un’altra operazione di depistaggio che irrompe in una fase delicatissima dove la verità sta prendendo strada e dove, ricordiamo, abbiamo in appello il processo Trattativa e quindi questo nuovo apporto dichiarativo potrebbe portare degli scossoni a favore o contro il procedimento”. “I magistrati dovranno avere massimo rigore nella valutazione di queste dichiarazioni e vano mantenuti accessi i riflettori”.
Non è detta l’ultima parola Antonio Ingroiaha poi risposto a una domanda sullo status del raggiungimento della verità in merito alle stragi.“Più ci si allontana dai fatti più è difficile recuperare il tempo perduto”, ha detto Ingroia. “I riscontri diventano più difficili e non si possono più requisire, ad esempio, i tabulati del tempo. Tutto diventa più difficile anche perché ci sono stati depistaggi. Però è anche vero che a distanza di decenni si è comunque potuto scoprire la verità, come nel caso De Mauro o nel caso Rostagno (proprio oggi la Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo per il mandante Vincenzo Virga, ndr). Penso che ancora possiamo scoprire la verità, mi auguro che tutte le procure competenti stiano facendo la loro parte e anche la procura Nazionale Antimafia. In questo senso, mi consenta di dire, un contributo prezioso in più per fare dei passi avanti sarebbe potuto arrivare da Nino Di Matteo se non fosse stato estromesso dal pool stragi. Così non è stato ma non disperiamo”, ha concluso. Karim El Sadi 27 Novembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA
Stato-mafia, lettere criptiche e servizi: primi riscontri su Riggio e difese chiedono di conoscere tutti gli atti. La dirigente della Squadra mobile di Caltanissetta deporrà il 14 dicembre Non si può certo dire che non abbiano fatto rumore le dichiarazioni del collaboratore di giustizia nisseno Pietro Riggio al processo Stato-mafia e non solo per l’approfondimento a lui dedicato dalla trasmissione Atlantide, condotta da Andrea Purgatori. In due deposizioni di fronte alla Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), non ha affrontato solo l’argomento delle confidenze raccolte sulla strage di Capaci, indicando il nome ed il cognome di possibili soggetti esterni che potrebbero aver avuto un ruolo nel delitto, ma ha anche parlato del possibile ruolo di Marcello Dell’Utri come colui che “suggerisce la creazione del nuovo partito e indica quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”; della creazione di una squadretta per arrivare all’arresto di Bernardo Provenzano; di un progetto di attentato al giudice Guarnotta; di quello che ha saputo sulla morte di Luigi Ilardo e Antonino Gioé. Elementi che, di fatto, muovono l’interesse di più Procure. Nel processo di Palermo, nei mesi scorsi, sono state depositate dalle parti i verbali non omissati degli interrogatori svolti il 7 ed il 26 giugno 2018. Assieme ad essi gli esiti degli accertamenti svolti dalla Squadra mobile di Caltanissetta. Proprio in merito a ciò, per chiarire quali siano stati i riscontri accertati rispetto alle dichiarazioni del pentito, oggi era stata chiamata a deporre Marzia Giustolisi, dirigente della Squadra mobile nissena, ma l’esame si è dovuto interrompere dopo la richiesta delle difese (su tutte quella dell’ex senatore Marcello Dell’Utri) di avere la certezza che le domande vertano solo sugli atti non omissati. Fino a quel momento la Giustolisi aveva confermato la comune detenzione, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, tra lo stesso pentito nisseno e i due soggetti, Giovanni Peluso e Giuseppe Leonardo Porto, entrambi appartenenti alla Polizia di Stato e poi destituiti dal Capo della Polizia. Soggetti entrambi indicati da Riggio come appartenenti ai Servizi e membri della squadra che si sarebbe dovuta occupare dell’arresto di Provenzano. In particolare è stato confermato che gli stessi sono stati scarcerati prima di Riggio e, soprattutto, che Porto, pur “non avendo mai percepito emolumenti dalla Presidenza del consiglio dei ministri” era “un collaboratore esterno dei Servizi”.
Messaggi cifrati Tra gli accertamenti effettuati di cui si è dato atto vi è anche il rinvenimento, durante una perquisizione disposta dalla Dda nissena presso la casa della madre di Riggio, avvenute il 29 giugno 2018 ed il 3 luglio 2018, “di numerosa corrispondenza intercorsa tra Riggio, il Porto, il Peluso e Pasquale De Nicola, altro dei soggetti detenuto con lui presso Santa Maria Capua Vetere”. “Posso dire – ha detto la Giustolisi – che queste missive erano caratterizzate dall’utilizzo di un nome in codice da parte di tutti e quattro. Il Porto si firmava ‘Elliot’, il Peluso ‘Giaguaro’; De Nicola ‘El Tano’. Riggio ne utilizzava tre, per lo più ‘Cobra’, ‘Pedro’ o ‘Gabriel’. Non abbiamo mai trovato la firma di Peluso, piuttosto che di Porto, di De Nicola o lo stesso Riggio o altro. Il linguaggio era criptico e veniva utilizzato un alfabeto creato da loro stessi, anch’esso criptato. Veniva utilizzato per indicare o dei cognomi o le località. Questo alfabeto siamo riusciti a decriptarlo perché tra le tante missive sequestrate ve ne era una, tutta scritta in codice però il Riggio aveva annotato su ogni lettera la corrispondente vocale o consonante dell’alfabeto”. Rispondendo alle domande del sostituto procuratore generale Giuseppe Fici (presente in aula assieme al collega Sergio Barbiera), la Giustolisi ha spiegato che la Squadra mobile nissena non ha compiuto accertamenti su tutto il dichiarato. All’elenco mancano le confidenze che Riggio avrebbe ricevuto in carcere da Del Vecchio e Barrella sulla vicenda Mezzojuso e la mancata cattura di Provenzano, il possesso di un telefono da parte di Riina in carcere nel 1993 e la morte in carcere di Gioé. Spunti investigativi ovviamente di competenza di altre Procure rispetto a quella di Caltanissetta che aveva disposto le prime deleghe di indagine. Diversamente sono stati compiuti accertamenti sul “rapporto di collaborazione instaurato da Riggio con la Dia in epoca successiva all’aprile 2000 (“Il rapporto era esistente tra Pellegrini, Tersigni, Terrazzano e il Riggio, indicato come fonte, nome in codice ‘Ugo’”) e sono stati individuati anche quelli che furono i soggetti con cui Riggio interloquì a Roma nei locali della Dia. Accanto a Pellegrini, disse Riggio, vi era un tale “Zio Tony”. La Dia, ha detto la teste prima che la deposizione fosse rinviata al prossimo 14 dicembre, lo ha individuato in Antonio Mazzei.
La deposizione della Calandrino In precedenza a salire sul pretorio è stata la dottoressa Cinzia Calandrino, oggi provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia e nel 1993 coordinatore dei servizi della segreteria generale presso il Dap. Rispetto a quanto disse alla Procura generale il 28 ottobre 2019 oggi in aula ha detto di ricordare di aver visto la nota riguardante la segnalazione Sisde che segnalava che Riina, con l’ausilio di alcuni agenti penitenziari, avesse a disposizione un telefonino per parlare con l’esterno. “Ricordo questa nota che secondo me aveva una particolare urgenza – ha detto – In assenza del vice capo (al tempo Di Maggio) mi resi conto che era una nota che doveva essere lavorata ed informai l’allora direttore generale dei detenuti, il consigliere Filippo Bucalo”. Spiegando il motivo per cui ha ricordato il dettaglio in un primo momento ha ribadito di “ricordare che ci fosse la nota, ma non il contenuto esatto”.
Rispetto a quanto testimoniato dall’ex funzionario Dap Calabria, rispetto ad una relazione scritta sulla vicenda in cui si lamentava che la nota non fu trasmessa all’ufficio detenuti, la dottoressa Calandrino ha ribadito di “non ricordare assolutamente nulla”. E alla domanda se di quella nota parlò anche con Di Maggio la teste ha risposto in maniera affermativa per poi precisare che “si tratta di una deduzione logica, perché io ho il dovere di dire a lui tutto. Ritengo di averlo fatto e di non aver avuto rimbrotti. Non ricordo una reazione particolare del consigliere Di Maggio”. Aaron Pettinari 23 Novembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA
La Squadra Mobile di Caltanissetta lavora da più di due anni alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio, ex agente della Polizia penitenziaria, e ha trovato diversi riscontri alle rivelazioni fatte nel processo sulla presunta trattativa Statomafia, in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo. Lo ha detto ieri la dott. Marzia Giustolisi, dirigente della Mobile nissena, citata dai sostituti procuratori generali Sergio Barbiera e Giuseppe Fici. Dal capo della Mobile la conferma che non solo sono stati trovati riscontri a periodi di codetenzione di Riggio con altri appartenenti alle forze dell’ordine mentre erano reclusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma anche materiale cartaceo della corrispondenza dello stesso Riggio con Giovanni Peluso, l’ex agente della Polizia di Stato poi destituito e che il Ministero ha indicato come collaboratore esterno dei servizi segreti. Era stato proprio Riggio a parlare di Peluso come appartenente ai servizi deviati e del suo presunto coinvolgimento nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. Risultano, ancora, dagli accertamenti espletati dalla Squadra Mobile nissena, contatti di Pietro Riggio, con la Dia di Palermo, e in particolare con il colonnello Pellegrini e il tenente colonnello Tersigni nel 2000. Riggio ha spiegato in due udienze del processo (all’epoca, ha riferito la dott. Giustolisi aveva il nome in codice “Ugo”) avrebbe dovuto far parte di una “squadra” di infiltrati per arrivare alla cattura del latitante Bernardo Provenzano: era l’anno 2000 e il boss corleonese era ancora uccel di bosco. La dott. Giustolisi ha aggiunto che Riggio ha fatto ritrovare in casa della madre, tra il 29 giugno e il 3 luglio 2018, una fitta corrispondenza epistolare tra lo stesso ex agente penitenziario e alcuni appartenenti alla Polizia di Stato e ai Carabinieri che aveva conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua Venere durante i due periodi di reclusione, tra il 1998 e il 2000 e il 2004 e il 2008. Nelle lettere Riggio, Peluso, Porto e De Nicola, non si firmavano con i loro nomi e cognomi, ma usavano pseudonimi: Pietro Riggio utilizzava tra nomi falsi, Cobra, Pedro e Gabriel – ha detto la dott. Giustolisi. Per il capo della Mobile, il linguaggio utilizzato nelle lettere era criptato per indicare cognomi o località, ma è stato decriptato. Altri riscontri trovati, alle dichiarazioni di Riggio, riguardano il progetto di attentato al giudice Leonardo Guarnotta, la individuazione di altri soggetti che il pentito di Resuttano ha indicato come appartenenti ai servizi segreti e il servizio nel carcere di Villalba dove Riggio ebbe un colloquio con il cognato del boss Madonia, Ferrara. L’esame della dott. Giustolisi proseguirà il prossimo mese. La Sicilia | Mar, 24/11/2020
Il pentito: «Il generale Niglio fu ucciso». E la Dda riapre il caso: si indaga sull’incidente Clamorose rivelazioni di Pietro Riggio: «Stava approfondendo i rapporti fra esponenti dell’Arma e politici». Il ricordo dell’ufficiale che lasciò il segno a Reggio Calabria «Il generale Gennario Niglio fu ucciso». Sono parole prorompenti quelle pronunciate dal collaboratore di giustizia siciliano Pietro Riggio ai pm di Caltanissetta. Secondo il pentito, dunque, l’ufficiale dell’Arma morto a causa di un incidente stradale il 9 maggio del 2004 e molto amato in Calabria, in realtà non morì per un mero sinistro stradale lungo l’autostrada Catania-Palermo, ma per una strategia omicida ben pianificata. Pietro Riggio, come riporta Repubblica, ha riferito ai pm di aver appreso da Giovanni Peluso, in passato agente di polizia in odore di servizi segreti deviati che «il generale dei carabinieri, Gennaro Niglio, morto in un incidente stradale, in realtà era stato ucciso. Era un uomo rigoroso, Niglio. Stava accertando i rapporti opachi tra alcuni appartenenti all’Arma e personaggi politici».
Sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, che sta fornendo elementi assai interessanti anche in merito ad altre vicende oscure degli anni ’90, i pubblici ministeri hanno dato incarico alla Squadra mobile nissena, diretta da Marzia Giustolisi, di tornare ad indagare sulle circostanze in cui avvenne l’incidente.
Le precedenti dichiarazioni Già in precedenza, in medico napoletano, impegnato nella battaglia contro l’inquinamento in Campania, aveva espresso le proprie riserve in merito all’incidente occorso a Niglio: «Sono stato avvisato dal boss Carmine Schiavone di stare particolarmente attento ad incidenti stradali come già capitato ad un altro mio referente ed amico: Gennaro Niglio». Di recente, poi, Nicolò Gebbia, durante il processo per la trattativa Stato-mafia, disse che aver individuato l’infermiere che curava Provenzano e di aver lasciato un appunto a Niglio.
Chi era Gennaro Niglio Nacque ad Ercolano nel 1949. Frequentò la famosa scuola militare di Napoli “Nunziatella” e l’Accademia Militare di Modena e si laureò in Giurisprudenza e Scienze della Sicurezza. Dopo aver acquisito la prima carica di tenente, fu destinato alla Scuola Sottoufficiali di Velletri ed alla Legione di Catanzaro. Successivamente fu a capo della sezione criminalità organizzata del Reparto Operativo di Roma e poi dei Comandi Provinciali di Napoli, Caserta e Reggio Calabria sotto la nuova carica di Tenente Colonnello e Colonnello. Da rimarcare come, nel 1977, Niglio ingaggiò un conflitto a fuoco con Giuseppe Cosimo Ruga. L’ufficiale era all’epoca al comando della Compagnia di Roccella Jonica.
I fatti di Gioiosa «Diventò punto di riferimento e simbolo della popolazione locale e delle proprie istituzioni, basti solo raccontare questo episodio, per dimostrare il coraggio e il ruolo che il Cap. Niglio aveva nei confronti dei cittadini calabresi. L’episodio – si legge nelle cronache dell’Arma – si verificò a Gioiosa, alla morte del boss locale, avvenuta in un conflitto a fuoco con i carabinieri, il clan impose il lutto cittadino in città, impedendo di tenere il mercatino domenicale, bloccando tutte le strade di accesso al paese sotto la minaccia delle armi, un amico del Capitano Niglio lo chiamò esponendogli la situazione che si era creata, egli arrivò a Gioiosa facendo riaprire i negozi dimostrando che in quella parte della Calabria c’era lo Stato che comandava e lui era lì per rappresentarlo». 26 novembre 2020 La CNews
GIOVANNI FALCONE, C’È UNA NUOVA TESTIMONE: “IL MIO EX ERA A CAPACI PER CONTO DEL SISDE. NEL FINE SETTIMANA DELLA STRAGE SPARÌ DA CASA” A parlare coi pm di Caltanissetta la fidanzata di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto ed ex 007 indagato per la strage del 23 maggio del 1992,. Ad accusarlo è stato il pentito Riggio.
Tra i misteri della strage di Capaci spunta un nuovo superteste. Si tratta di una donna che ha raccontato cosa ha sentito dal suo ex fidanzato. “Nel 1997, passando dall’autostrada, mi fece vedere il punto esatto dell’esplosione mi spiegò che si era trovato lì perché aveva fatto dei rilievi per conto del Sisde, dopo la strage“, ha messo a verbale la donna, che è la fidanzata di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto ed ex 007 indagato per la strage di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre uomini della scorta. “Quel fine settimana me lo ricordo, sparì il venerdì e tornò il lunedì pomeriggio a casa”, ha spiegato la donna, come riporta l’edizione locale di Repubblica. Il 23 maggio del 1992, giorno della strage di Capaci, era infatti un sabato.
Da più di un anno e mezzo la procura di Caltanissetta indaga su Peluso con l’accusa di aver ricoperto il ruolo di “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”.Un passato in servizio a Napoli e Roma, è finito sotto inchiesta dopo le dichiarazioni del pentito Pietro Riggio. “Un ex poliziotto mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage Falcone – raccontò il collaboratore di giustizia – si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skateboard”. Frasi smentite durante un confronto col pentito dallo stesso Peluso. Riggio collabora dal 2009, ma ha fatto il nome di Peluso solo molti anni dopo. “Fino ad oggi – ha spiegato – avevo avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma, adesso, credo che sia venuto il momento di parlare”.
Adesso ad accusare Peluso arrivano le parole della sua ex compagna, messe a verbaledavanti al procuratore aggiunto Gabriele Paci, e ai sostituti Pasquale Pacifico e Matteo Campagnaro. La donna parla anche di uno strano incontro avvenuto sull’autostrada Palermo- Catania, allo svincolo di Resuttano. “Mi fece accostare sul sedile posteriore entrò un amico di Giovanni, che aveva lavorato nella polizia. Aveva un cicatrice sulla guancia, l’ho riconosciuto di recente in foto, anche se è di molto invecchiato rispetto ad allora”. Quella foto restituiva l’immagine di Giovanni Aiello, un altro ex poliziotto accusato di essere “faccia da mostro”,cioè il killer col tesserino dei servizi in tasca al servizio di Cosa nostra negli anni delle stragi. “Il mio ex lo chiamava Filippo, mi diceva che era soggetto legato ad ambienti mafiosi, in un’occasione mi disse che era protetto dalla famiglia mafiosa di Provenzano, mentre le altre famiglie lo volevano ammazzare, ma non mi ha mai spiegato il motivo”. Aiello è morto nel 2013 su una spiaggia della Calabria: su di lui indagavano diverse procure. IL FATTO QUOTIDIANO 22 ottobre 2020
Mafia: pentito Riggio, ‘nel ’99 mi fu chiesto di far parte di task force per arresto Provenzano’ Caltanissetta, 29 nov.2019 (Adnkronos) – “Nel 1999 mi venne chiesto di far parte di una task force per la cattura di Bernardo Provenzano. Me ne parlarono Giovanni Peluso e Giuseppe Porto”. A dirlo, collegato in videoconferenza, è il pentito di mafia Pietro Riggio, deponendo al processo ‘Capaci bis’ di Caltanissetta. “Al momento della mia collaborazione quando mi trovai a Santa maria Capua a Vetere, dopo cinque giorni, venni ascoltato dal Gip”. Dopo alcuni mesi “si cominciò ad attivare una attività per la cattura di Provenzano” che all’epoca era ancora latitante. “Questi contati avvengono tra me e Giovanni Peluso” un ex poliziotto “e Giovanni Porto”. Quindi, secondo Riggio all’interno dello stesso carcere, “fu creato un progetto di fare una specie di task force, su proposta di Peluso” per “giungere alla cattura di Provenzano e quindi dare tutte quelle che erano le indicazioni di mia conoscenza affinché ciò avvenisse”. Ma di più non vuole aggiungere “perché ci sono indagini in corso”. E racconta: “Io fui prelevati dal carcere militare nel luglio 1999 e questo rapporto fu istituzionalizzato”. “Fui prelevata da una macchina blindata bianca e accompagnato a Roma presso gli uffici della Dia. Lì conobbi un colonnello dei carabinieri, Angiolo Pellegrini, e un altro soggetto, che ho conosciuto come zio Tony, Antonio Miceli”. “Il contenuto del colloquio è avvenuto su insistenza di realizzare una squadra per catturare Provenzano – dice Riggio – L’altro fungeva da garante fra quello che avevamo discusso con Peluso e faceva da collante all’esterno. Io manifestai la mia disponibilità anche perché ne avevamo parlato ampiamento in carcere”. Riggio fu scarcerato nell’aprile del 2000 “e cominciarono i contatti con il colonnello Pellegrini”. “Ero libero di muovermi e durante questo periodo mi sono visto sia con Porto che con Peluso. L’oggetto di questo incontri era proprio la preparazione di un piano per arrivare alla cattura di Provenzano”.
STRAGI, UNA SUPERTESTIMONE PARLA CON I PM. “SO CHE IL MIO EX ERA A CAPACI“E’ stata la compagna dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato dopo le dichiarazioni del pentito Pietro Riggio. “Diceva di essere un agente dei servizi segreti e incontrava Faccia da mostro”
C’è una super testimone nelle ultime indagini sulle bombe del 1992. È stata la compagna dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, attualmente indagato per la strage Falcone dopo essere stato chiamato in causa dal pentito Pietro Riggio. La donna ha raccontato ai pubblici ministeri di Caltanissetta che il compagno diceva di lavorare per i servizi segreti, ogni tanto partiva, nei giorni dell’attentato di Capaci andò via da Roma per un viaggio in Sicilia: «Nel 1997, passando dall’autostrada, mi fece vedere il punto esatto dell’esplosione – ha messo a verbale la testimone – mi spiegò che si era trovato lì perché aveva fatto dei rilievi per conto del Sisde, dopo la strage». Poi, ha aggiunto: «Quel fine settimana me lo ricordo, sparì il venerdì e tornò il lunedì pomeriggio a casa». Nel racconto della donna, che è stata ascoltata dal procuratore aggiunto Gabriele Paci, dai sostituti Pasquale Pacifico e Matteo Campagnaro, ci sono tutti i misteri di Giovanni Peluso che assieme a Riggio, ex agente della polizia penitenziaria ed ex mafioso, avrebbe fatto parte di una struttura non ben identificata dei Servizi per la ricerca dei latitanti. È stato Riggio, che collabora dal 2009, a chiamare in causa Peluso: «Fino ad oggi avevo avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia – ha spiegato – Ma, adesso, credo che sia venuto il momento di parlare». E ha raccontato una confidenza che gli avrebbe fatto Peluso: «Mi fece capire di aver partecipato alla fase esecutiva delle strage Falcone, si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo». I pm hanno disposto un confronto fra i due, l’ex poliziotto respinge le accuse. Ma, ora, è l’ex compagna a gettare su di lui più di un’ombra. La testimone ha parlato pure di un misterioso incontro sulla Palermo-Catania, allo svincolo di Resuttano: «Mi fece accostare – ha raccontato – sul sedile posteriore entrò un amico di Giovanni, che aveva lavorato nella polizia. Aveva un cicatrice sulla guancia, l’ho riconosciuto di recente in foto, anche se è di molto invecchiato rispetto ad allora». È la foto di Giovanni Aiello, l’uomo accusato di essere “faccia da mostro”, il killer di Stato al servizio della mafia, è morto nel 2017. «Il mio ex lo chiamava Filippo, mi diceva che era soggetto legato ad ambienti mafiosi, in un’occasione mi disse che era protetto dalla famiglia mafiosa di Provenzano, mentre le altre famiglie lo volevano ammazzare, ma non mi ha mai spiegato il motivo». Sono tutte dichiarazioni che i magistrati stanno passando al setaccio in cerca di riscontri, al lavoro c’è la squadra mobile nissena diretta da Marzia Giustolisi, che in questi ultimi mesi ha già depositato al palazzo di giustizia alcune corpose informative. «Le indagini sulle stragi del 1992 vanno avanti», ha detto ieri il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava dopo la sentenza della Corte d’assise che ha condannato all’ergastolo il superlatitante Matteo Messina Denaro per le stragi Falcone e Borsellino. «Quello che ha ottenuto la Dda nissena è un risultato straordinario. Grazie a un metodo investigativo che ha messo insieme 22 anni di indagini: siamo andati a rispolverare i nostri archivi, abbiamo ripreso i verbali dei collaboratori di giustizia, analizzato nuovamente i reperti ritrovati dove sono avvenute le stragi e ascoltato vecchie intercettazioni. Le indagini sulle bombe del 1992, per far luce su altri buchi neri, non si fermano – ha ribadito Lia Sava – e proseguono sotto l’importante coordinamento della direzione nazionale antimafia». Di Riggio si stanno occupando i magistrati del pool costituto dal procuratore Cafiero De Raho e la procura generale di Palermo, che segue l’inchiesta sul delitto Agostino e il processo d’appello per la “Trattativa Stato-mafia”. Salvo Palazzolo La Repubblica 22.10.2020
CAPACI, L’EX-007 ACCUSATO DAL PENTITO: NON C’ERO, ERO A UN CORSO ALL’ISTITUTO SUPERIORE DI POLIZIA «Sono indagato e non parlo ma voglio solo dire una cosa: io non c’entro niente con la strage di Capaci. Quel giorno mi trovavo a fare un corso di soprintendente all’Istituto superiore di Polizia». Sono queste le uniche parole pronunciate da Giovanni Peluso, l’ex-poliziotto ed ex-007 indagato per la strage di Capaci, nel processo d’appello che si celebra all’aula bunker del carcere di Caltanissetta. Dopo la breve dichiarazione spontanea, Peluso ha risposto a un legale che gli chiedeva se ha denunciato per calunnia il pentito Pietro Riggio, che lo accusa della strage di Capaci. Ma Peluso ha risposto di no. E, subito dopo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Così come aveva annunciato al suo arrivo in aula. L’ex-poliziotto ed ex 007 indagato per la strage di Capaci, si è presentato questa mattina all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta nel processo cosiddetto Capaci-bis, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta aveva disposto l’accompagnamento coattivo di Peluso poiché nella scorsa udienza non si era presentato in aula. E non aveva inviato alcuna giustificazione per l’impedimento. Oggi, invece, l’ex-007 si è presentato in aula accompagnato dal suo legale. Ma ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Tuttavia, di fronte alle eccezioni sollevate dalla difesa, la Corte, presieduta da Andreina Occhipinti, ha deciso di riunirsi in Camera di consiglio. Cinque gli imputati del processo d’appello: Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Quanto a Giovanni Peluso, l’ex-sovrintendente di polizia con un passato in servizio a Napoli e Roma, è stato indagato per la strage di Capaci e per associazione mafiosa in seguito alle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio.
Secondo l’accusa della Procura di Caltanissetta il campano Peluso avrebbe ricoperto il ruolo di «compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci». Peluso doveva essere sentito proprio in merito alle dichiarazioni fatte dal pentito Pietro Riggio. Il collaboratore ha raccontato ai pm che il poliziotto gli rivelò di aver preso parte alla strage di Capaci. «Un ex-poliziotto (Giovanni Peluso, ndr) mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage Falcone», raccontò Riggio. E aggiunse: «si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo. Operazione eseguita tramite l’utilizzo di skateboard». Ma Peluso nega: «quel giorno mi trovavo a fare un corso di soprintendente all’Istituto superiore di Polizia». 25 Febbraio 2010 di Roberto Frulli Secolo d’Italia
PROCESSO CAPACI BIS: LA TESTIMONIANZA DEL PENTITO RIGGIO SULLE OMBRE DELL”’ATTENTATUNI” di Karim El Sadi Per la prima volta in aula l’ex poliziotto riporta le parole di Giovanni Peluso: dalla volontà dei boss di uccidere Guarnotta fino alla 007 libica coinvolta nella strage “Perché non ho parlato finora? Non conoscevo il sistema, se lo avessi fatto sarei stato un uomo morto” E’ passato oltre un anno da quando il pentito Pietro Riggio ha parlato per la prima volta ai pm nisseni delle vicende misteriose che ruotano attorno alla strage di Capaci. Dichiarazioni le sue che pare stiano dando corpo a quelli che al momento i magistrati possono solo definire “sospetti” o “ipotesi”. Ieri il 54enne ex agente della polizia penitenziaria e mafioso del clan di Caltanissetta è stato sentito per la prima volta come testimone “de relato” al processo Capaci bis, nel quale sono imputati i boss Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta Riggio, collegato in video conferenza, ha avuto modo di riportare una per una tutte le delicate informazioni a lui snocciolate dall’ex collega poliziotto Giovanni Peluso, ora pure lui indagato per la strage anche smentisce categoricamente ogni coinvolgimento, nel periodo in cui erano entrambi al carcere di Santa Maria Capua Vetere.
A partire dalla mano che azionò il fatidico telecomando collegato ai 500kg di tritolo nascosti nel viadotto sotto l’autostrada Capaci-Palermo. Quella mano secondo il collaboratore, sempre in riferimento alle parole dell’ex poliziotto Peluso, non era della mafia, ma di sogetti esterni ad essa.
“Tu sei sicuro che a premere il telecomando della strage fu Brusca?’ – gli avrebbe domandato Peluso durante una conversazione – e ho dedotto che non avesse premuto Brusca, io mi sentii raggelare perché era una verità che si sapeva cioè che fosse stato Brusca e la mafia. In quel momento, invece, capii che oltre a loro c’erano altre persone che si erano interessate di questa situazione. Capii che mi trovavo in pericolo e che stavo giocando con un gioco più grande di me“. Poi ha aggiunto: “Sono deduzioni che ho fatto io dopo quanto mi disse Peluso“. Su questa linea, quella della possibile collaborazione di soggetti esterni a Cosa nostra nella strage che tolse la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta, il collaboratore di giustizia ha riferito del coinvolgimento di una “donna, sui 35-40 anni, appartenente ai servizi segreti libici”. “Mi ricordo che Peluso si accompagnava con una donna – ha aggiunto – mi disse che era una persona vicina ai servizi segreti libici” e ha ricordato di avere saputo che la compagna di Peluso “apparteneva ai servizi libici” così come “la suocera che svolgeva servizio all’ambasciata libica“. “C’era un collegamento di veridicità in quello che mi diceva”, ha sostenuto in aula il pentito. Collegamento di veridicità che potrebbe invece essere fatto per quanto concerne la presenza di tracce genetiche di Dna appartenenti a una donna rinvenute su alcuni reperti recuperati dalla polizia scientifica (un sacchetto di carta, una torcia elettrica, un tubetto di mastice marca Arexons e dei guanti di lattice) nei pressi del luogo dove avvenne “l’Attentatuni”. Misteri che si aggiungono a misteri.
lL giudice (oggi in pensione) Leonardo Guarnotta Guarnotta nel mirino di Cosa nostra In aula il collaboratore di giustizia Riggio ha riferito anche quanto apprese da Peluso nel 2000 sulla volontà di Cosa nostra di eliminare il giudice Leonardo Guarnotta, ex membro del pool antimafia di Antonino Caponnetto e all’epoca presidente della corte che stava giudicando il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. “Peluso – ha detto Riggio rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Petronio – voleva essere coadiuvato in un attentato nei confronti di un giudice palermitano, il dottore Guarnotta. Le ragioni non me le disse, se non l’esigenza di rifugiarsi dopo l’attentato. Aveva anche fatto uno schizzo sull’abitazione del giudice. Io quel giorno stesso riferii dell’attentato al colonnello della Dia“. Sul punto però rispetto al verbale reso ai pubblici ministeri, Riggio ha aggiustato un po’ il tiro, in quanto ai magistrati aveva detto: “Peluso mi disse che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incarico a uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato“. L’omissione risiederebbe quindi sul passaggio dei favori alla politica.Paura dei “pescecani” La mole di informazioni in possesso di Pietro Riggio, anche se dovranno passare al vaglio della magistratura, è indubbiamente considerevole sia per quantità che per importanza.
Per questo motivo c’è una domanda che da settimane, ovvero da quando il suo nome è andato alla ribalta, alberga nella mente dell’opinione pubblica e non solo: perché parlare solo ora?
“Non ho parlato prima della strage di Capaci perché, purtroppo, ho avuto modo di conoscere il sistema dall’interno e se io ne avessi parlato prima oggi sarei un uomo morto…“, ha spiegato l’ex poliziotto. “Quando ho redatto i verbali, in uno dei verbali, nell’ottobre 2008, ho citato un fatto ben preciso in cui ho fatto il nome del colonnello Pellegrini da lì è emerso uno spaccato”. “Non fu frutto di fantasia, io ho fatto ritrovare anche la corrispondenza epistolare con i soggetti nominati“, ha detto il collaboratore aggiungendo: “Io non faccio il bagno con i pescecani, altrimenti mi mangiano. Mentre se non ci sono i pescecani faccio il bagno, io lo dico con dati di fatto“. E poi ha citato il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel frattempo è deceduto, “che mi disse: ‘Stai attento a parlare e se lo devi fare, fallo solo con la Procura di Firenze’. Ecco perché quando decisi di parlare scrissi alla Procura di Firenze“. Amduemila 30 Novembre 2019
STRAGE DI CAPACI, IL PENTITO RIGGIO: “NON ERA SOLO MAFIA. NEL 2000 COSA NOSTRA VOLEVA UCCIDERE IL GIUDICE GUARNOTTA” Il pentito ha deposto in videoconferenza davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, raccontando un progetto di morte dei boss per il giudice che stava processando Dell’Utri Nel 2000 Cosa nostra “voleva uccidere il giudice Leonardo Guarnotta“. Cioè l’ex componente del pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che all’epoca era presidente della corte che stava giudicando Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. A sostenerlo è il pentito Pietro Riggio, un uomo che ha vissuto una doppia vita: agente della polizia penitenziaria di giorno, e mafioso del clan di Caltanissetta di notte. Reggio è il collaboratore che ha fatto finire sotto inchiesta l’ex poliziotto Giovanni Peluso, accusato di aver avuto un ruolo nella strage di Capaci. E proprio durante all’ultimo processo per l’eccidio del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, che Reggio ha deposto collegato in videoconferenza la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. Gli imputati al Capaci bis sono Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Il processo di primo grado si era concluso con quattro ergastoli e un’assoluzione. Vittorio Tutino venne assolto per non avere commesso il fatto. Madonia è considerato uno dei mandanti dell’attentato mentre gli altri avrebbero preso parte alla fase esecutiva. A permettere ai magistrati nisseni di poter riaprire un nuovo filone d’indagine, furono le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, insieme a quelle di Fabio Tranchina, che consentirono di fare emergere il ruolo della famiglia mafiosa di Brancaccio nella preparazione ed esecuzione dell’attentato. Le dichiarazioni del collaboratore sono tutte da verificare, mentre l’ex poliziotto si è più volte dichiarato innocente. Gli investigatori predicano “prudenza“, anche perché spesso si tratta di racconti de relato, riferiti spesso a confidenze che Reggio avrebbe avuto dallo stesso Peluso. Rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Petronio, Riggio racconta di un incontro con l’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato per la strage di Capaci, nel 2000. “Peluso – dice Riggio – voleva essere coadiuvato in un attentato nei confronti di un giudice palermitano, il dottore Guarnotta. Le ragioni non me le disse, se non l’esigenza di rifugiarsi dopo l’attentato. Aveva anche fatto uno schizzo sull’abitazione del giudice. Io quel giorno stesso riferii dell’attentato al colonnello della Dia”. Una dichiarazione leggermente diversa da quella messa a verbale davanti ai pm. Ai magisgtrati il pentito aveva detto: “Peluso mi disse che la nostra organizzazione aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incarico a uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato”. Parlando in aula, invece, non ha citato la parte sui ‘favori alla politica’. Guarnotta, oggi in pensione, in passato è stato un membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, Guarnotta ha istruito il Maxiprocesso di Palermo e per ultimo ha ricoperto l’incarico di Presidente del Tribunale. Nel 2000 era presidente della corte che stava processando Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. L’ex senatore di Forza Italia sarebbe stato condannato a nove anni in primo grado e poi a sette anni in via definitiva: pena che finirà di scontare tra pochi giorni. Riggio in aula ha raccontato anche altro. “Non ho parlato prima della strage di Capaci perché, purtroppo, ho avuto modo di conoscere il sistema dall’interno e se io ne avessi parlato prima oggi sarei un uomo morto…”, ha sostenuto, citando l’ex pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel frattempo è deceduto. “Chelazzi mi disse: ‘Stai attento a parlare e se lo devi fare, fallo solo con la procura di Firenze. Ecco perché quando decisi di parlare scrissi alla Procura di Firenze”. Il pentito ha raccontato quanto ha saputo dall’ex poliziotto Peluso. “Capii che oltre a Cosa nostra c’erano anche altre persone che si erano interessate alla strage di Capaci”, ha raccontato, sostenendo di aver sentito dall’ex poliziotto Peluso: “Tu sei sicuro che a premere il telecomando della strage fu Brusca?’. Da lì ho dedotto che non avesse premuto Brusca, io mi sentii raggelare perché era una verità che si sapeva cioè che fosse stato Brusca e la mafia. In quel momento, invece, capii che oltre a loro c’erano altre persone che si erano interessate di questa situazione. Capii che mi trovavo in pericolo e che stavo giocando con un gioco più grande di me”. Poi ha aggiunto: “Sono deduzioni che ho fatto io dopo quanto mi disse Peluso”. Tutte informazioni da vagliare. Soprattutto quando Riggio ha detto che un ruolo nella strage di Capaci sarebbe stato svolto anche da una “donna, sui 35-40 anni, appartenente ai servizi segreti libici” . “Mi ricordo che Peluso si accompagnava con una donna – continua – Mi disse che era una persona vicina ai servizi segreti libici” e ricorda di avere saputo che la compagna di Peluso “apparteneva ai servizi libici” e “anche la suocera che svolgeva servizio all’ambasciata libica”. “C’era un collegamento di veridicità in quello che mi diceva”. IL FATTO QUOTIDIANO 29 NOVEMBRE 2019
CAPACI, “PIETRO RIGGIO RACCONTA FALSITÀ” ottobre 26, 2019 L’ex poliziotto inteso il “turco”, ex sovrintendente della Polizia di Stato, è indagato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta per concorso in strage, l’attentato a Capaci contro il giudice Giovanni Falcone. E ciò perché il pentito nisseno di Resuttano, Pietro Riggio, lo ha indicato come colui che ha nascosto l’esplosivo sotto l’autostrada a Capaci e di essersi avvalso della complicità dei servizi segreti libici, in particolare di una donna. Ebbene, l’ex poliziotto conosciuto come il “turco”, è stato interrogato dai magistrati, e lui ha smentito così: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovrintendente di Polizia che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso. A Pietro Riggio l’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998. Dopo la scarcerazione lo stesso Riggio si era offerto di darmi un lavoro. Poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in automobile a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto. Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci, né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa strage”. L’ex poliziotto – che ha ammesso di essere stato soprannominato il “turco” durante la detenzione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è stato ristretto per rapina e sequestro di persona e poi è stato assolto – ha aggiunto: “Dopo la mia scarcerazione non ho mai intrattenuto corrispondenza con altri detenuti. Non sento Riggio da circa 20 anni e non sapevo che fosse divenuto collaboratore di giustizia. Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende. Non ho particolari conoscenze in materia di esplosivi” – ha concluso l’indagato. Nel frattempo emergono altri dettagli dai verbali degli interrogatori di Pietro Riggio. Il pentito ha rivelato ai magistrati anche di essere stato rimproverato dall’ex poliziotto il “turco” per la scelta di collaborare. E poi ha aggiunto: “Tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 non vi era un interesse ad arrestare Bernardo Provenzano. Nel 2000 Cosa nostra avrebbe voluto uccidere l’ex giudice istruttore Leonardo Guarnotta, oggi in pensione, in passato membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Uno di quelli che, insieme a Di Lello, Falcone e Borsellino, istruì il maxi processo. Ricordo che l’ex poliziotto il ‘turco’ venne a casa mia, siamo intorno al 2000, mi tranquillizzò dicendomi che sarei tornato in servizio, e che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Mi disse che era stato incaricato di uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un palazzo, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato. Ricordo che ci trovavamo in un bar di via Rosso di San Secondo, vicino a un giornalaio. Mentre parlavano fece anche uno schizzo che riproduceva la zona dove si trovava il palazzo. Con una scusa mi allontanai, dicendo che dovevo andare a prendere mio figlio e che sarei tornato da lì a poco”.ITALY FLASH
L’EX POLIZIOTTO INDAGATO PER LA STRAGE DI CAPACI: “NON C’ENTRO NULLA, IL PENTITO MENTE” L’ex sovrintendente è stato ascoltato dai pm di Caltanissetta nega ogni addebito: “Non so perché Pietro Riggio mi abbia tirato in ballo” “Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci, né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa”. A parlare è l’ex poliziotto accusato dal collaboratore di giustizia Pietro Riggio di avere preso parte alla strage di Capaci. E’ indagato per concorso in strage, come scrive l’AdnKronos. L’ex sovrintendente, che nel frattempo ha lasciato la Polizia di Stato, è stato sentito dai pm della Procura di Caltanissetta il 6 marzo scorso. Parla ai magistrati dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio. L’ex poliziotto in passato è stato arrestato per rapina e sequestro di persone. “Poi sono stato assolto”, dice lo stesso ai pm. Ammette anche di avere avuto il soprannome di “turco” – come lo ha ricordato il pentito che lo chiama in causa per Capaci – e questo, mentre si trovava nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Poi, l’ex poliziotto dice ancora ai pm di Caltanissetta: “Dopo la mia scarcerazione non ho mai intrattenuto corrispondenza con altri detenuti. Non sento Riggio da circa 20 anni e non sapevo che fosse divenuto collaboratore di giustizia”. “Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende”, spiega ancora l’ex poliziotto. E ribadisce ancora di “non avere particolari conoscenze in materia di esplosivi”. L’ex poliziotto continua: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovrintendente che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso”. L’ex sovrintendente, che nel frattempo ha lasciato la Polizia di Stato, ai magistrati ha detto questo ai magistrati dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio: “L’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998. Dopo la scarcerazione lo stesso si era offerto di darmi un lavoro poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in auto a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto”. GLOBALIST 24.10.2019
PENTITO RIGGIO, ‘PELUSO MI DISSE CHE NON FU BRUSCA A PREMERE IL TELECOMANDO A CAPACI’ Le parole durante il confronto con l’ex poliziotto indagato per la strage “Peluso mi disse: ‘Ma tu sei sicuro, credi ancora che il tasto del telecomando l’abbia premuto Brusca?’ Io rimasi spiazzato. ‘Mah – dissi -non lo so perché mi dice questo’. Però ho intuito subito, nell’immediatezza dei fatti, che sicuramente conosceva, sapeva qualche cosa, o diretta o de relato o non so come, che gli facesse affermare questa cosa che Brusca effettivamente non avesse premuto lui”. Sono le parole del pentito di mafia Pietro Riggio, nel corso del confronto con l’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato per la strage di Capaci, avvenuto il 7 marzo scorso. Il verbale è stato depositato oggi nel corso dell’udienza del processo ‘Capaci bis’ a Caltanissetta. “O era convinto che avesse premuto, diciamo, questo famoso timer per fare saltare in aria Falcone”, dice ancora il pentito Riggio.
PENTITO RIGGIO, ‘ESPLOSIVO DI CAPACI SISTEMATO CON GLI SKATEBOARD’ L’esplosivo della strage di Capaci sarebbe stato sistemato nel tunnel sotto l’autostrada con uno skateboard. A dirlo nel corso di un confronto è il pentito di mafia Pietro Riggio. Riferisce quanto gli sarebbe stato detto dall’ex poliziotto Giovanni Peluso, oggi indagato per la strage, nel corso di un confronto avvenuto lo scorso 7 marzo. Il verbale è stato depositato agli atti del processo ‘Capaci bis’ che si celebra davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. “E poi mi disse un altro aneddoto della situazione che riguardava il trasporto dell’esplosivo all’interno di questo tunnel, che era avvenuto con degli skateboard. Ricordo che le parole furono queste, trasporto dell’esplosivo all’interno del tunnel avvenuto con gli skateboard”, ha detto ancora RIGGIO nel corso del confronto con Peluso. AFFARI ITALIANI 19.11.2019
IL PENTITO: “PER CAPACI USATI ANCHE SERVIZI SEGRETI LIBICI” Per la strage di Capaci, che il 23 maggio del 1992 costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, sarebbero stati utilizzati anche i “servizi segreti libici”. La rivelazione, come apprende l’Adnkronos, arriva dal pentito di mafia Pietro Riggio, 54 anni, che ha parlato con i magistrati della Procura di Caltanissetta che indagano sulla strage di Capaci, così come sulla strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992. Riggio, il 7 giugno 2018, decise raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage Falcone. Verbali che ora sono finiti agli atti del processo Capaci-bis. Parlando di un ex poliziotto, di cui cita anche il nome, spiega: “Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei servizi segreti libici”. La frase venne poi raccontata a un altro codetenuto di Riggio, di cui fa il nome, e dice: “Glielo raccontai e questi mi disse che effettivamente il suocero” dell’ex poliziotto era un appartenente ai servizi segreti libici“. Sempre Riggio dice di avere appreso dal contenuto che “mi disse che” l’ex poliziotto “era al Sismi e che il suocero era nei servizi libici e che stava a Catania”. “Non si mostrò sorpreso quando gli dissi queste cose”, spiega Riggio. Lo stesso collaboratore di giustizia di Resuttano, nel nisseno, Pietro Riggio, ex agente della polizia penitenziaria, ha detto anche ai magistrati che un ex poliziotto avrebbe messo l’esplosivo sotto l’autostrada per preparare l’attentato di Capaci. I verbali del collaboratore sono stai depositati nel processo d’appello Capaci bis dove vengono processati 5 mafiosi accusati di aver partecipato alla strage. Nella strage di Capaci sarebbe stata in particolare coinvolta anche una “donna appartenente ai servizi segreti libici”. E sarebbe stato proprio l’ex poliziotto a dirgli che “per le operazioni particolari si avvaleva spesso di una donna che faceva parte dei servizi libici, anche lei coinvolta nella strage di Capaci”. Secondo quanto avrebbe appreso il pentito di mafia, “Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando“. Riggio racconta anche che l’ex poliziotto “frequentasse la Sicilia dagli anni ’90” ma “non mi ha mai detto espressamente che era presente alla strage di Capaci”. ADNKRONOS 24.10.2019
IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PIETRO RIGGIO: “LA MAFIA VOLEVA UCCIDERE ALFONSO CICERO” l’ex presidente Irsap, Alfonso Cicero La mafia voleva uccidere Alfonso Cicero: dava fastidio a Montante. Vincenzo Arnone aveva questa questione da risolvere e riferì a Riggio di parlarne con Carmelo Barbieri perché se necessario si poteva arrivare alla situazione più estrema, cioè uccidere Cicero. Questo quanto emerge dalle dichiarazioni rese da Pietro Riggio, ex uomo d’onore di Cosa nostra e adesso collaboratore di giustizia, che dopo l’operazione “Double Face” ha continuato a rendere dichiarazioni ai magistrati nisseni. Nel corso del processo che si celebra con il rito ordinario nei confronti di 17 imputati, sono stati acquisiti i verbali in cui sono contenute le dichiarazioni di Riggio. Uno di questi verbali porta la data successiva all’operazione condotta dalla Squadra Mobile dell’8 giugno 2018 e riguarda le dichiarazioni rese dal pentito di mafia al procuratore aggiunto Gabriele Paci. “C’era la necessità – afferma Riggio – di dare una lezione ad Alfonso Cicero, perché stava dando fastidio ad un amico nostro”. Riggio riferisce ai magistrati di un colloquio avuto con Vincenzo Arnone, capomafia all’epoca della famiglia di Serradifalco. “Gli chiesi chi fosse l’amico cui Cicero avrebbe recato nocumento ed Arnone glissò sul nome, dicendo che non era importante che io lo sapessi. A quel punto mi imputai, dicendomi che se voleva che io mi fidassi di lui non poteva tacere il nome della persona che a suo dire Cicero danneggiava. Mi disse che la persona era Montante, che Cicero osteggiava avversandolo nelle politiche industriali che quest’ultimo voleva attuare, senza però entrare nel dettaglio. A quel punto dissi ad Arnone che mi sarei dato da fare nel senso da lui indicatomi. Cicero peraltro mi era stato in passato descritto come una persona corretta, che non scendeva a compromessi”. “Parlai con Barbieri (Carmelo, ndr) riferendogli l’oggetto del colloquio avuto con Arnone. Lo incontrai a casa sua a Resuttano, una domenica, era il 6 luglio 2008. Barbieri mi disse che dovevo dare seguito alla richiesta di Arnone, perché ne avremmo avuto sicuramente un “ritorno”, sia io, per la mia nomina a rappresentante, che la nostra famiglia. Mi disse che se avessi avuto bisogno di qualcosa non avevo far altro che chiederglielo, la cosa mi lasciò di sasso perché compresi che intendeva con ciò dirmi che avremmo potuto arrivare alla situazione più estrema, cioè uccidere Cicero, in tal senso interpretai il suo mettersi a disposizione. Due giorni dopo, l’8 luglio 2008, venni arrestato e subito cominciai a collaborare. RADIO CL1 4.6.2019
STRAGE DI CAPACI: RIVELAZIONI E MISTERI DEL PENTITO DI MAFIA PIETRO RIGGIO Come si scrive l’agenzia Adnkronos, ci sarebbe l’ombra dei servizi segreti libici dietro la strage di Capaci. Gli occhi sono puntati su una 007 donna libica che avrebbe avuto un ruolo importante nella strage in cui furono uccisi, il 23 maggio 1992, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta. La rivelazione arriva, a sorpresa, dal pentito di mafia Pietro Riggio, 54 anni, una ex guardia penitenziaria, che ha parlato con i magistrati della Procura di Caltanissetta che indagano sulla strage di Capaci. Ma non è l’unica novità. Spunta anche un altro indagato per la strage. Il pentito Riggio, il 7 giugno 2018, decise di raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage Falcone. Verbali che ora sono finiti agli atti del processo Capaci-bis che vede alla sbarra cinque mafiosi. Parlando di un ex poliziotto, di cui cita anche nome e cognome, Riggio spiega: “Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei servizi segreti libici”. E parla di una “donna appartenente ai servizi segreti libici”. Sarebbe stato proprio l’ex poliziotto, a dire al collaboratore di giustizia che “per le operazioni particolari si avvaleva spesso di una donna che faceva parte dei servizi libici, anche lei coinvolta nella strage di Capaci”. Lo stesso collaboratore di giustizia di Resuttano, nel nisseno, Pietro Riggio, ha detto anche ai magistrati che un ex poliziotto avrebbe messo l’esplosivo sotto l’autostrada per preparare l’attentato di Capaci, il 23 maggio ’92. L’agente, nel frattempo, come apprende l’Adnkronos, è stato iscritto nel registro degli indagati per strage e associazione mafiosa. L’uomo, secondo l’accusa, avrebbe ricoperto il ruolo di “compartecipe e esecutore materiale della strage di Capaci”. Anche se il diretto interessato respinge con forza tutte le accuse: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovraintendente che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso”, ha detto lo scorso 6 marzo ai pm nisseni. Ha parlato in quella occasione anche dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio. “L’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998 – dice – Dopo la scarcerazione lo stesso si era offerto di darmi un lavoro poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in auto a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto”. E ribadisce: “Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci – dice – né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa”. “Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende”, spiega l’ex poliziotto. Parlando con i magistrati, il collaboratore Pietro Riggio ha invece riferito di avere appreso dall’ex agente altri particolari sulla strage mafiosa del 23 maggio 1992. Gli avrebbe detto, ad esempio, che “Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando” della strage di Capaci. Racconta anche che l’ex poliziotto, che secondo lui avrebbe avuto un ruolo nella strage “frequentasse la Sicilia dagli anni ’90” ma “non mi ha mai detto espressamente che era presente alla strage di Capaci”. Ma perché racconta tutti questi fatti, molto importanti, solo adesso, a tanti anni di distanza? Lo hanno chiesto gli stessi magistrati al collaboratore. Che ha risposto così: “Parlo solo ora perché a mio avviso i tempi oggi sono maturi perché si possano trattare certi argomenti senza rischiare la vita”. “Tanti segnali mi inducono a fare tale affermazione – dice il collaboratore – primo fra tutti la sentenza che ha chiuso il cosiddetto processo per la trattativa Stato-mafia”. Ma aggiunge: “Al tempo in cui ho inviato la lettera agli uffici tale sentenza non era stata ancora emessa”. “Ma ripeto – dice – dopo un lungo travaglio interiore, avevo da tempo maturato l’intenzione di parlare con il dottor Luciani (pm del processo per il depistaggio Borsellino ndr), per dirgli tutto ciò che avevo taciuto”. Il pentito ricorda ancora di avere saputo che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000, i Carabinieri “non avevano alcun interesse a catturare Bernardo Provenzano”, il capomafia corleonese arrestato poi nel 2006. Riggio racconta di essere stato “rimproverato” dallo stesso ex poliziotto. Che lo avrebbe rimproverato “per il fatto di avere collaborato con i Carabinieri” e gli dice: “Hai finito di cercare Provenzano?”, spiegandogli che “in realtà non hanno alcun interesse alla sua cattura” e “ammonendolo” sul fatto che “tale collaborazione avrebbe potuto costargli la vita”. Gli dice: “Se non c’ero io tu eri un uomo morto”. Ma non finiscono qui le rivelazioni di Pietro Riggio. E’ lui a raccontare ai pm di Caltanissetta che “nel 2000 Cosa nostra voleva uccidere l’ex giudice istruttore Leonardo Guarnotta”, oggi in pensione, in passato membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, Guarnotta ha istruito il Maxiprocesso di Palermo e per ultimo ha ricoperto l’incarico di Presidente del Tribunale. “Ricordo che venne a casa mia (l’ex poliziotto ndr) – racconta il pentito – siamo intorno al 2000, mi tranquillizzò dicendomi che sarei tornato in servizio che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incaricato a uccidere il giudice Guarnotta (Leonardo ndr) e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato”. Dopo la scarcerazione, l’ex poliziotto avrebbe reclutato il mafioso per fare parte di una non ben identificata struttura dei Servizi che si occupava della ricerca di latitanti. “Ricordo che ci trovavamo in un bar di via Rosso di san Secondo, vicino a un giornalaio. Mentre parlavano fece anche uno schizzo che riproduceva la zona dove si trovava il palazzo cui ho fatto cenno”, dice ancora il pentito Pietro Riggio. “Con una scusa mi allontanai, dicendo che dovevo andare a prendere mio figlio e che sarei tornato da lì a poco”. Poi Riggio avrebbe nuovamente incontrato l’ex poliziotto, che avrebbe avuto anche un ruolo nella strage di Capaci. “Incontrato nuovamente nel posto convenuto – dice – mi disse che il piano era già stato elaborato, io avrei avuto il compito di aspettarlo dopo il delitto nei pressi di un’area di sosta sita nelle vicinanze della Galleria Tre Monzelli, direzione Sud per accompagnarlo a Resuttano dove avrebbe trovato poi rifugio nella casa di campagna di mio padre che io gli avrei messo a disposizione”. Parla anche del boss mafioso Piddu Madonia secondo cui le stragi mafiose del 1992 furono “una grande minchiata”. “Dopo le stragi del 1992 – racconta il collaboratore di giustizia – andai a trovare Madonia (Piddu ndr) a Longare di Vicenza dove era latitante e gli portai 20 milioni di lire che avevo ricevuto”. Fu in quella occasione che il boss mafioso avrebbe parlato delle stragi mafiose. “In effetti – dice ancora il pentito – lui dopo tali eventi dovette lasciare Bagheria dove era stato per tanto tempo latitante e riparò in provincia di Vicenza. Quando mi recavo a trovarlo a Bagheria, circa una volta a settimana, in genere trovavo soggetti locali di cui non ricordo il nome”. Nuove rivelazioni, nuovi misteri che si aggiungono ai numerosi interrogativi sulla strage di Capaci . (AdnKronos) il sitodisicilia 24 ottobre 2019
a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF