28.12.2021 L’intervista a FIAMMETTA BORSELLINO – Video
25.9.2021 Stato mafia, la figlia di Borsellino: “Sotto accusa chi aiutò mio padre”. Difende i carabinieri, attacca i pm «In questi anni, a proposito del processo trattativa, non ho mai voluto esprimermi anche se ho sempre avuto molti dubbi e perplessità sulle accuse da parte della Procura. E devo dire che i miei sospetti sono stati confermati dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo». Lo ha affermato ieri, all’indomani della sentenza che ha assolto gli ufficiali del Ros dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, #FiammettaBorsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 da una Fiat 126 imbottita di tritolo in via D’Amelio a Palermo.
17.7.2021 – BORSELLINO: FIGLIA FIAMMETTA, NON SARÒ A PALERMO Nessuna polemica, lascio che siano altri a ricordare e riflettere , 17 LUG – “In questi giorni non sarò a Palermo”, dice Fiammetta Borsellinomentre si prepara a lasciare la città alla vigilia delle manifestazioni per la strage di via D’Amelio. “Lascio ora – aggiunge la figlia del magistrato ucciso 29 anni fa con la scorta – che siano gli altri, la gente e chiunque ne avverta il bisogno, a ricordare e a riflettere. Io lo faccio sempre incontrando i giovani e andando nelle scuole”. Non c’è un risvolto polemico nella decisione. I tre figli di Borsellino e, fino a quando era in vita, la moglie Agnese hanno sempre mantenuto un profilo riservato. E assicurato la loro presenza solo in alcune occasioni. (ANSA).
11.5.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO SI RACCONTA: “LA MIA VITA ALL’ASINARA E QUELLA FRASE DI FALCONE…”
L’intervista alla figlia del giudice ucciso dalla mafia Arriva puntualissima Fiammetta Borsellino per l’incontro “Orizzonti di giustizia” con gli studenti dell’istituto “Giacomo Perlasca” di Idro, Brescia. Tappa di un tour per educare e sensibilizzare i più giovani a una vera cultura della legalità. Fiammetta Borsellino ha rilasciato molte interviste e partecipato a diversi incontri pubblici. Continua la sua battaglia per la verità sulla strage di via Mariano D’Amelio a Palermo in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A farli saltare in aria furono i corleonesi di Salvatore Riina, persi nella strategia terroristica di attacco frontale alle Istituzioni repubblicane. Non c’è stato da allora film, sceneggiato televisivo o ricostruzione sceneggiata che non abbiano messo al centro della vicenda di Paolo Borsellino anche e soprattutto il rapporto umano con l’adorata figlia Fiammetta, che all’epoca della strage mafiosa aveva 19 anni, ultima di tre figli, nata dopo Lucia e Manfredi. Perché assieme all’impegno pubblico sul fronte anti-mafia c’è il rapporto privato e sempre speciale tra un padre e una figlia.
Signora Fiammetta, come ha vissuto il rapporto con suo padre? “Il rapporto con lui è sempre stato un rapporto normale, anche se so che può apparire strano da pensare e soprattutto da capire. Mio padre ha sempre cercato di impostare con noi figli un rapporto basato sull’ascolto, sul dialogo e sui valori dell’umiltà e del rispetto. Il rapporto con mio padre era come quello che hanno tutte le figlie con il loro genitore: negli anni dell’adolescenza l’ho stressato per avere il motorino – e sono riuscita ad averlo anche prima dei 14 anni – e per avere orari di uscita più “flessibili” rispetto a quelli che mi aveva dato. Prima che gli fosse assegnata la scorta (una realtà blindata per Paolo Borsellino già nel 1984, ndr) quando mi accompagnava a scuola scendevo sempre prima e non proprio vicino all’ingresso, perché mi vergognavo e la stessa cosa facevo quando magari rientravo la sera in compagnia di alcuni miei amici. I miei fidanzati, come capita spesso, ovviamente temevano già solo di incrociare lo sguardo di mio padre sotto casa. Ho vissuto in casa con lui 19 anni e devo dire che, nonostante le scorte le minacce e le pressioni, accanto a lui mi sono sempre sentita forte, non ho mai temuto per la mia vita. Ovvio che tutti noi in famiglia avessimo un po’ di paura, ma per superare quei momenti negativi mi facevo forza con una frase di Giovanni Falcone”.
Quale frase? “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.
Che percezione avevate del pericolo derivante dalle attività di suo padre? “Certo sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.
Dal 5 al 30 agosto 1985 Falcone e Borsellino furono portati coattivamente assieme alle famiglie sull’isola-penitenziario dell’Asinara perché suo padre e Falcone dovevano preparare la requisitoria per il maxi-processo a Cosa Nostra. Come avete vissuto quel periodo? “Sia mio padre che Giovanni Falcone hanno vissuto quel periodo attraversando stati d’animo diversi: eravamo lì perché loro dovevano istituire il maxi processo, il processo più grande realizzato in Italia sino ad allora e quindi c’era una mole di lavoro da fare che richiedeva un grandissimo impegno. I primi giorni in cui siamo arrivati all’Asinara attendevano ancora che arrivassero gli incartamenti e ricordo che si sentivano come dei leoni in gabbia, impotenti, sentivano di avere le mani legate senza poter far nulla, ma sono stati anche i giorni in cui si sono goduti una sorta di “vacanza obbligata”, forse almeno per qualche ora, da quello che era diventato il loro obiettivo primario. Quando arrivarono i faldoni invece si gettarono anima e corpo su quegli incartamenti e furono totalmente assorbiti da tutto ciò che comportarono. Per quanto riguarda noi familiari, sicuramente mia mamma, mio fratello Manfredi e mia sorella Lucia avranno avuto una percezione diversa rispetto a me che ero più piccola, ma ad ogni modo la percezione di pericolo si avvertiva. Il 6 agosto 1985 i corleonesi avevano ucciso a Palermo Ninni Cassarà, vicecapo della Squadra Mobile e capo della sezione investigativa. Più di un collaboratore prezioso per mio padre e per Falcone. Da quella tragedia in poi il loro lavoro all’Asinara proseguì con un altro ritmo”.
Rispetto ad altri familiari di vittime della mafia lei ha scelto una posizione più defilata e prova di impegno politico diretto. “Perché? Dopo la morte di mio padre abbiamo cercato di aggrapparci con le unghie e con i denti alla vita, nonostante fossimo devastati dal dolore. Io mi trovavo all’estero e il mio primo pensiero è stato quello di rientrare e condividere quel dolore con mia madre, con mia sorella Lucia e con mio fratello Manfredi. Non è stato affatto facile, eravamo ogni giorno esposti mediaticamente in maniera estrema, quando volevamo soltanto starcene in silenzio a elaborare il nostro lutto. È stato un processo lungo e faticoso che continua tutt’oggi, tra l’altro. Finiti gli studi, decisi di accettare di lavorare per il Dipartimento Servizi Sociali del Comune di Palermo, ricoprendo quel ruolo come figlia di vittima della mafia. In quel periodo desideravo una normale quotidianità, volevo che si spegnessero i riflettori sulla mia vita come “figlia di Paolo Borsellino” e volevo cercare di essere soltanto Fiammetta. Senza mai dimenticare gli insegnamenti e l’esempio di mio padre, ma cercando di tirarmi fuori da quell’onda d’urto che si è generata dopo la strage di via d’Amelio. Ho lavorato per il Comune di Palermo per 17 anni, ma poi mi sono resa conto che non era più quello che mi rendeva felice”.
E che ha fatto? “Ho deciso di lasciare il “posto fisso” e dedicarmi ad altro, soprattutto a testimoniare il valore della legalità agli studenti di scuole superiori. Finalmente in presenza, dopo il forzato distanziamento da coronavirus. La didattica a distanza è stata una mutilazione, seppur necessaria, per il mondo scolastico. La presenza, il faccia a faccia, è questo il modo migliore per trasmettere quegli ideali di giustizia e legalità che mi ha insegnato mio padre e che è fondamentale trasmettere ai più giovani per svolgere una vera azione contro tutte le mafie”.
La vicenda di Paolo Borsellino dal 23 maggio 1992, l’assassinio di Giovanni Falcone nella strage di Capaci, al 19 luglio 1992, strage di via D’Amelio, è ancora oggetto di indagini, inchieste e controverse polemiche. Ma è anche per gettare una luce sui misteri di quei 57 giorni che separarono il destino di due amici inseparabili nel lavoro e nella vita. La battaglia di Fiammetta Borsellino è per gettare una luce di verità su un passato che ancora oggi sparge i suoi veleni nelle Istituzioni dello Stato. Ma soprattutto per un futuro in cui l’abito mentale e la subcultura mafiose siano minoritarie e isolate. 11 Maggio 2021 – Simone Savoia Angela Amoroso IL GIORNALE
FIAMMETTA BORSELLINO A SPECIALE MAFIA
15.4.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO SCRIVE A DRAGHI: «RIAPRA LE SCUOLE, STIAMO PERDENDO I NOSTRI RAGAZZI» La lettera della figlia del giudice ucciso dalla mafia nel 1992 al presidente del Consiglio: “I giovani in strada prede della criminalità, anche Tar e Consiglio di Stato hanno detto che senza dati non si può prevedere solo la Dad”
di Fiammetta Borsellino
Scrivo questa lettera per esprimere il dolore di mamma e cittadina di questo Paese per il grave danno che la compressione del diritto allo studio provocata da una didattica a distanza, da troppo tempo prolungata, sta determinando nella salute psicofisica dei bambini, delle bambine, dei preadolescenti e adolescenti del nostro Paese.
ll sacrificio a cui li stiamo sottoponendo evolverà inevitabilmente, se non prontamente risolto con soluzioni adeguate, in danni irreparabili.
E’ oramai evidente come i ragazzi, ogni giorno di più, stiano perdendo entusiasmo e stimoli ma, soprattutto, il sentimento dell’amore verso ciò che studiano, perché imparare non vuol dire solo seguire dei programmi ministeriali ma anche crescere nella capacità di gestire relazioni, scambi, emozioni e ciò può avvenire principalmente a scuola.
Oggi la vita dei giovani si svolge principalmente dietro ad uno schermo che, al pari delle droghe e delle nuove dipendenze, provoca solo l’illusione di riempire le giornate caratterizzate invece da un vuoto assoluto. E’ importante difendersi dal virus ma è altrettanto importante è curare la salute dell’anima. Oggi i nostri bambini e ragazzi sono dei fiori che appassiscono ogni giorno di più, sepolti nelle loro stanze e noi adulti stiamo diventando i principali complici di tale situazione.
Stiamo insegnando ai nostri figli che in tempo di crisi la prima cosa ad essere sacrificata è l’istituzione della scuola, della cultura, ovvero di quei valori che mio padre ha sempre considerato come la prima vera forma di contrasto alle mafie e che sono gli unici capaci di togliere alle stesse il consenso giovanile di cui si nutrono.
Oggi, il perdurare della chiusura totale o parziale delle scuole di ogni ordine e grado, nonché la eliminazione pressoché totale dell’attività sportiva, musicale e teatrale, sta consegnando centinaia di ragazzi alla rete delle organizzazioni criminali.
Mi chiedo perché queste scelte si stiano portando avanti nonostante le recenti pronunce giurisdizionali del Tar vadano in una direzione completamente opposta, avendo accolto nel merito il ricorso di cittadini nei confronti dei Dpcm che disponevano la chiusura delle scuole. Il Tar, infatti, ha ribadito che la scuola non è un luogo privilegiato di contagio ma anzi, in caso di picchi di contagi, deve essere l’ultimo presidio a chiudere. Ha stabilito che l’uso prolungato della didattica a distanza è lesivo del diritto allo studio e del diritto alla salute, perché la scuola è salute che, ricordo, sono entrambi diritti costituzionalmente garantiti. Ha stabilito che le scuole di ogni ordine e grado devono rimanere aperte.
Oggi tutto questo viene ignorato.
La ripresa delle scuole fino alla prima media è un segnale importante da parte del Governo a tutela degli alunni e delle alunne, ma insufficiente per la salvaguardia del benessere psicofisico dei preadolescenti e dei ragazzi delle scuole superiori, moltissimi dei quali in didattica a distanza da oltre un anno con conseguenze disastrose, come confermato dall’Associazione degli ospedali pediatrici italiani e dalle Associazioni che tutelano infanzia e adolescenza.
Il nostro Paese continua non proteggere i suoi cittadini più piccoli e i suoi giovani privandoli del luogo privilegiato della loro crescita: la scuola.
E’ oramai evidente come la didattica a distanza sia uno strumento di insegnamento inefficace, svilente per gli insegnanti, discriminatorio per gli studenti provenienti da famiglie fragili e lesivo nei confronti degli alunni con disabilità o con difficoltà di apprendimento.
In ultimo, in molte Regioni si insiste a non bilanciare adeguatamente diritto alla salute e diritto allo studio con continui provvedimenti incongruenti di chiusura delle classi. In queste Regioni, specialmente nel Sud Italia, sono gli stessi Sindaci e Governatori a sbarrare i cancelli delle scuole persino a studenti disabili e con bisogni educativi speciali, attraverso ordinanze restrittive in palese contraddizione con le direttive nazionali.
L’Italia non è un paese per giovani e per famiglie se non riconosce che per tutti gli studenti, la scuola è salute, anche e soprattutto in tempo di pandemia. L’ESPRESSO
31.1.2021 DISTANZIATI E ABBANDONATI L’ESPRESSO
26.02.2021 Fiammetta Borsellino: ci hanno preso in giro FIAMMETTA BORSELLINO: “MIO PADRE LONTANO DA PREGIUDIZI RISPETTOSO DELLE GARANZIE” «Mio padre si è sempre battuto, senza doppi fini, per il riscatto dei palermitani e di tutti i siciliani», afferma Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992. Fiammetta Borsellino da anni si batte per conoscere la verità sulla morte di suo padre. Ci sono voluti ben quattro processi per arrivare a stabilire che le iniziali indagini furono condizionate dal più grande depistaggio che la storia giudiziaria italiana ricordi. In particolare, le dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, poste a fondamento dei processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, erano totalmente false.Sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, alle quali per anni i giudici hanno creduto, vennero infatti condannate all’ergastolo sette persone. Le false accuse sono state poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Fiammetta ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura e alla Procura generale della Cassazione di svolgere accertamenti su chi diede credito a Scarantino. Il pg della Cassazione Riccardo Fuzio aveva raccolto la testimonianza di Fiammetta e della sorella. Coinvolto nel Palamaragate e costretto alle dimissioni nell’estate del 2019, l’attività istruttoria è rimasta incompiuta.Fiammetta Borsellino, che tipo di magistrato era suo padre? Un magistrato apolitico, indipendente, rispettoso delle garanzie del cittadino, e soprattutto serio. Ha sempre agito tenendosi lontano da pregiudizi ideologici o visioni politiche della società.Oggi molti magistrati sono sempre in televisione… Mio padre non ha mai parlato delle sue indagini o scritto libri sulle sue indagini.
Per molti colleghi il suo stile è stato di esempio? Penso di si. Parlava spesso con i colleghi più giovani raccontandogli le difficoltà che si incontravano nell’interrogare il pentito di mafia, della complessità delle vicende narrate dal mafioso, delle loro strategie processuali, e soprattutto degli scenari squarciati dai pentiti con le loro dichiarazioni.
Può dirci come viveva il suo impegno antimafia? Il contrasto alla criminalità organizzata per mio padre non era solo un impegno straordinario ed eccezionale di un momento della vita o della carriera ma era una scelta di vita.
Suo padre aveva un alto senso dello Stato. Sì. Era la scelta della legalità ed era anche la consapevolezza di stare dalla parte della legge, delle Istituzioni, del cittadino.
Una scelta di democrazia. Di quella vera però, di quella che consente al cittadino di determinarsi davvero liberamente, senza il condizionamento dell’intimidazione, del bisogno e della minaccia. Una scelta di civiltà il cui fine era quello di una società migliore.
Rispettando, comunque, sempre i diritti e le garanzie di tutti. Esatto. Mio padre aveva la consapevolezza di dovere applicare sempre legge anche contrastando feroci organizzazioni criminali, tenendo bene a mente che il giudice “non lotta” contro nessuno.
E come uomo? Era ironico. Mai banale. E dotato di grande umanità.
Per cosa andrebbe ricordato suo padre? Mio padre va ricordato soprattutto per l’eredità morale e professionale che ha lasciato, per l’impegno profuso nell’istruzione del cosiddetto maxi processo di Palermo, per ciò che lo univa a Giovanni Falcone e per ciò che da lui lo distingueva.
Suo padre e Falcone hanno cambiato il modo di fare le indagini. E sempre cercando riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Il maxi processo veniva ritenuta opera gigantesca, elefantiaca che mai sarebbe giunta neppure alla soglia del dibattimento. Ed invece mio padre e Giovanni Falcone, assieme ad altri validissimi colleghi, non soltanto portarono il “loro” maxi processo a dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Palermo ma videro il loro impegno definitivamente consacrato nella sentenza della Cassazione del 1992.
Cosa è stato, allora, il maxi processo di Palermo? Ha costituito per il nostro Paese una svolta epocale sia sul piano giudiziario, avendo contribuito all’affermazione di una linea nuova e finalmente efficace nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa, sia sul piano politico avendo dato la prova e la misura dello sforzo della magistratura e delle Istituzioni nel contrasto alla criminalità organizzata senza incertezze o ambiguità.
Parliamo di pentiti. Il maxiprocesso di Palermo si basò in gran parte sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista rappresentò una scommessa vinta, nel senso che nessuno, tranne i magistrati che si spesero su questo fronte con mio padre e Giovanni Falcone in testa, credeva che all’interno di Cosa nostra potesse svilupparsi il fenomeno del pentitismo e che mafiosi di rango, “uomini d’onore” di primo livello, potessero collaborare con i giudici.
Fa riflettere che suo padre e Falcone furono attaccati in maniera violentissima da coloro che successivamente si proclamarono loro eredi. Nessuno può dimenticare gli attacchi a Falcone quando venne chiamato dal ministro Claudio Martelli a collaborare con lui al Ministero della Giustizia e si propose di creare la Direzione nazionale antimafia, per la cui guida era il candidato più accreditato. E non si possono dimenticare le polemiche che investirono mio padre poco tempo dopo la sua nomina a procuratore di Marsala.
Suo padre era iscritto a Magistratura Indipendente, la corrente di destra delle toghe. Cosa è stato l’associazionismo giudiziario? Mio padre ha vissuto l’associazionismo senza alcuna finalità carrieristica e non chiese mai di essere candidato al Csm. Se avesse accettato la candidatura sarebbe stato certamente eletto.
Adesso si fanno carte false per andare al Csm o per avere incarichi. Mio padre rimase coerente. Quando, dopo la morte di Falcone gli fu proposto di candidarsi per l’incarico di procuratore nazionale antimafia, rifiutò di farlo.
Una persona di altra epoca e con un stile difficilmente conciliabile con il “Sistema” descritto da Luca Palamara e fatto di magistrati chattatori. IL RIFORMISTA Paolo Comi – 26 Febbraio 2021
24.2.2021 – L’accusa di Fiammetta Borsellino: “Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato” «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992.
Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva.
I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip.
Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre.
Esatto.
Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa.
Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola.
L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza.
Non ha fiducia nei giudici? Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Ad esempio? In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura.
Perché non ha fiducia nel Csm? Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese.
Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.
Prova un po’ di amarezza? Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste
Vuole fare un nome? Nino Di Matteo.
Perché proprio lui? A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Che tipo era suo padre? Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi. Paolo Comi — 24 Febbraio 2021 – IL RIFORMISTA
24.02.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO: EREDI DI MIO PADRE? ADESSO BASTA! Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”. E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista). Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”. Un’inchiesta “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione. Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”. Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato. Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione. Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.
Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione? Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata dal gip alla vigilia di Ferragosto.
A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti? Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine. Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta. Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”. Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente: “A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso. Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”. C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo, riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina, dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili. Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito? Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.
Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere? Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire?
Stendiamo un velo…
Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri. Tutti eredi di Falcone e Borsellino? Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021
20.2.2021 “DEPISTAGGI E COMPLICITÀ DI MAGISTRATI E POLIZIOTTI HA IMPEDITO LA VERITÀ SULL’UCCISIONE DI MIO PADRE”, PARLA LA FIGLIA DI BORSELLINO “Il Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie. A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafia, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti vennero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione? Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre.
Cosa aveva evidenziato? Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non finire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.
Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre.
Risposta? Nessuna.
E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm.
Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio 2019.
Questo Csm? Si.
Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo.
Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché.
All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni.
Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.
Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei.
Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta.
Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992.
Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffiò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm.
Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr).
Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto.
A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione.
E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No.
Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado.
Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede.
Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni. IL RIFORMISTA
20.2.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO: “COSÌ MAGISTRATI E POLIZIOTTI HANNO IMPEDITO DI SAPERE PERCHÉ HANNO UCCISO MIO PADRE”La figlia del magistrato massacrato da Cosa Nostra racconta dei depistaggi, delle complicità, e delle mancate risposte da parte del Csm (e anche del Presidente Mattarella). Ora, dice, spero in Salvi” “l Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafi a a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie.
A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafi a, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti ven nero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione?Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre.
Cosa aveva evidenziato? Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non fi nire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.
Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre.
Risposta? Nessuna.
E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm.
Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio 2019
Questo Csm? Si.
Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo.
Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché.
All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni.
Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.
Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei.
Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta.
Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992.
Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffi ò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm. Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr).
Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto.
A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione.
E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No.
Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado.
Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede.
Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni. IL RIFORMISTA
25.2.2021 FIAMMETTA BORSELLINO, RAGIONE E SENTIMENTO. Era inevitabile. Prima o poi sarebbe dovuto accadere. L’evento scatenante, questa volta, è l’intervista rilasciata da Fiammetta Borsellino a “Il Riformista”.E così, come mi fu suggerito un po’ di tempo fa da un “amico”, la profezia si è avverata: a Palermo si muore spesso più per fuoco amico che non per fuoco nemico.Una volta si sarebbe detto “si alzano a destra e a manca voci di dissenso” mentre nella giornata di ieri abbiamo assistito all’esatto contrario, ossia “da destra e da manca” arrivava l’assordante rumore del silenzio. Nessun rilancio, nessuna citazione. Anche i “leoni da tastiera” hanno taciuto pubblicamente sui social, anche se non lo hanno fatto all’interno delle loro segretissime chat su Whatsapp o su equivalenti servizi di messaggistica istantanea. Si è alzato il velo silenzioso dello scandalo per le affermazioni della figlia del giudice Paolo Borsellino contenute nell’intervista rilasciata all’ottimo Paolo Comi che ha fatto il suo mestiere di giornalista, senza commentare e, soprattutto, senza anteporre il proprio pensiero personale alla voce di Fiammetta. Ma ciò non toglie che le sue parole siano state mal sopportate e abbiamo creato malumore e critiche ma non è politicamente corretto attaccarla pubblicamente.Poi, questa mattina, qualche voce si è sentita. Forse la notte ha portato (s)consiglio ed è partita la prima raffica di dissenso, un dissenso calibro 38 Special. Questa volta il fuoco amico nei confronti di Fiammetta Borsellino arriva dalla stampa, quella che da sempre è schierata in prima fila con i diversi movimenti antimafia.Ma cosa è successo? Ragione e sentimento, questo è successo. Fiammetta Borsellino ha commesso il reato di lesa maestà. Si è permessa, ancora una volta, di lanciare il suo monito e di puntare il dito nei confronti della magistratura, delle sue indagini e, in modo particolare, nei confronti del dottor Nino Di Matteo dichiarando: «A parte la vicenda del processo “Trattativa Stato-mafia” condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Di recente, la sentenza del “Borsellino Quater” ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. «Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò̀ per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», ha dichiarato Fiammetta Borsellino sulle colonne de “Il Riformista”. Ma se questo è veramente stato il possibile accelerante, come sostiene Fiammetta ma anche la sentenza del “Borsellino Quater”, della strage di via d’Amelio per eliminare il dottor Paolo Borsellino, perché non si è indagato? Semplice, molto semplice. Non si è indagato perché il dossier “mafia-appalti” è stato archiviato.
Ma facciamo ordine Parliamo del dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali.
Documento esplosivo? Se ripensiamo con lucidità ai contenuti del dossier in oggetto, possiamo pensare che fosse più confermativo che esplosivo. Molte delle grandi aziende citate nel dossier del Ros sono le stesse che comparivano nelle inchieste giornalistiche condotte negli anni ’70 da Mario Francese, quel cronista di razza che il 26 gennaio 1979 pagò con la vita la sua perspicacia e la sua capacità di analisi. Quelle grandi aziende che avevano interessi nella costruzione della diga Garcia, oggetto delle inchieste giornalistiche di Mario Francese.
Rimettiamo in ordine eventi e date. Il 16 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’«informativa mafia e appalti» relativa alla prima parte delle indagini. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici. Dopo la strage di Capaci il dottor Borsellino, che all’epoca della consegna del rapporto era procuratore capo a Marsala ma che dal marzo 1992 era di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto, decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato non solo da un incontro che il dottor Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, ma anche dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di “Mani Pulite”.
Elemento cardine è la riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive e per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti e racket delle estorsioni”. Nella riunione, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, due giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992. Ragione e sentimento. Omissioni, pezzi mancanti, discordanze. Dossier archiviati, vuoti di memoria ma, soprattutto, vergogna, tanta vergogna. GLI STATI GENERALI – ROBERTO GRECO
3.2.2021 – L’ira di Fiammetta: “Faranno i conti con la propria coscienza” Depistaggio via D’Amelio, il gip: “Anomalie su Scarantino, ma gli ex pm non fecero reati”. Le motivazioni del provvedimento che ha archiviato l’indagine sui magistrati Palma e Petralia. Il dolore della figlia del giudice ucciso in via D’Amelio. “Povera patria” “E’ tutto coerente – dice Fiammetta Borsellino – in linea col principio che ‘cane non mangia cane’. Chi ha lavorato male, permettendo che certe nefandezze accadessero, non farà i conti con la giustizia ma non potrà sfuggire ai conti con la propria coscienza”. La figlia di Paolo Borsellino è amareggiata per l’archiviazione dell’indagine sui due ex magistrati di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia che si occuparono di Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via D’Amelio. Fiammetta, che da anni si batte per la verità attorno al depistaggio nelle indagini, ha parole severe per i due magistrati che erano indagati per calunnia aggravata. E aggiunge: “L’epilogo di questa putrida vicenda è la storia dell’Italia: lo stivale dei maiali che affonda sempre di più nel fango come dice Battiato in “Povera Italia”, pensando a quei corpi a terra senza più calore”. Per il gip di Messina Simona Finoacchiaro “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”, ma non è stata “individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati oggi indagati che fosse volta a indurre consapevolmente Scarantino a rendere false dichiarazioni e a incolpare ingiustamente”. Per questa ragione è stata archiviata l’inchiesta nei confronti di Annamaria Palma (oggi avvocato generale a Palermo) e di Carmelo Petralia (procuratore aggiunto a Catania). Secondo il giudice Simona Finocchiaro, che in 23 pagine ha accolto la richiesta di archiviazione della procura, “non si ravvisa” neanche “l’utilità di ulteriori indagini”, perché “un eventuale approfondimento dibattimentale non consentirebbe l’esplorazione di alcun tema di indagine nuovo rispetto a quelli già ampiamente e approfonditamente analizzati nel corso degli anni e da ultimo con l’attività posta in essere dalla Procura di Messina”. Insomma, il depistaggio attorno alle indagini sulla strage di via D’Amelio è destinato a restare un altro mistero italiano. E restano sotto accusa solo due ispettori di polizia in pensione e un funzionario, Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e Mario Bò, accusati di essere stati gli esecutori degli ordini dell’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. “Possibile che hanno fatto tutto da soli?”, ha continuato a chiedersi in questi mesi Fiammetta Borsellino. Non si potrà più dare risposta a questa domanda. Il caso è archiviato. E continuiamo anche a non sapere chi ha rubato l’agenda rossa di Paolo Borsellino in via D’Amelio. “C’è uno stretto collegamento fra quel furto e il depistaggio”, hanno scritto i giudici del Borsellino Quater, ricordano le strane presenze di agenti segreti sul luogo della strage, come raccontato da due poliziotti delle Volanti, arrivati per primi dopo l’esplosione. I servizi segreti, quelli che l’allora procuratore capo di Caltanissetta Gianni Tinebra invitò a partecipare alle indagini sulla bomba di via D’Amelio. Salvo Palazzolo LA REPUBBLICA 3.2.2021