REL

Il depistaggio su via D’Amelio, II parte

RELAZIONE


SOMMARIO

Questa inchiesta

War game

  • I depistaggi
  • Enna
  • “Fare in fretta”

Giammanco

Via D’Amelio, ore 16.58

  • Le falle sulla sicurezza
  • Quei signori in giacca e cravatta
  • L’agenda rossa

Il picciotto della Guadagna

  • Pipino
  • Pianosa
  • Spatuzza
  • Brusca
  • I Graviano

Il SISDE

appendice 1: Il dossier mafia-appalti

appendice 2: Il rapporto “Oceano”

appendice 3: I quattordici processi

Conclusioni


QUESTA INCHIESTA  A quasi trent’anni dalla stagione delle stragi (1992 – 1993) che hanno cambiato il volto dell’Italia, non esiste ancora una verità storica (né una verità giudiziaria) in grado di ricostruire compiutamente autori, moventi, mandanti e contesto storico in cui avvennero quegli spaventosi attentati, senza precedenti nel continente europeo dalla fine della guerra. Lo scopo della Commissione Antimafia dell’ARS è stato quello di indagare, già tre anni fa, su un tassello di questa matassa, il “depistaggio” sul delitto Borsellino, che – paradossalmente – appare essere oggi una delle poche certezze in mezzo a tanti misteri. Sia sul depistaggio che sulle stragi sono tutt’ora in corso processi a Caltanissetta, Palermo, Firenze e Reggio Calabria. Il tema impegna poi, da decenni, anche la Procura nazionale antimafia. Ma i dubbi restano, tutti:

  • Cosa Nostra agì da sola o – come appare assai più probabile – fu il braccio militare di altre “entità”?
  • C’era davvero il progetto per un nuovo assetto politico per il nostro paese su cui si sarebbero trovati in sintonia le mafie, gruppi di estrema destra e associazioni segrete come la P2?
  • Quale fu il ruolo dei servizi segreti?
  • Falcone e Borsellino furono uccisi – come intendono far credere le impalcature dei depistaggi – per semplice vendetta mafiosa, perché si occupavano dei denari di Cosa nostra o perché intralciarono quel progetto eversivo?
  • Quei delitti furono la reazione per quello che avevano scoperto o per quello che i due magistrati avrebbero potuto scoprire e fare?
  • Perché la magistratura ha lasciato cadere importanti spunti investigativi, ha dato credito a personaggi privi di alcuna credibilità, ha fondato inchieste durate anni sulla base di falsi visibili ad occhio nudo?
  • E il depistaggio su via D’Amelio è parte dello stesso progetto criminale che ha portato alla morte di Paolo Borsellino e di cinque agenti della sua scorta?

Concentrandosi su queste domande, la Commissione ha audito, in questa seconda tappa della propria indagine, molti dei protagonisti di quel periodo. Il focus, questa volta, è stato anzitutto il perimetro delle responsabilità istituzionali che hanno permesso, non solo in Sicilia, l’ignominia di quel depistaggio: chi non capì, chi non cercò, chi non disse, chi distolse lo sguardo, chi lavorò consapevolmente per la menzogna, chi cercò colpevolmente solo la propria carriera.

Emerge in conclusione, come nella prima indagine di questa Commissione, un reticolo di responsabilità forse penalmente non rilevanti ma tutte, a diverso titolo, determinanti nell’assecondare, proteggere, accompagnare quel furto di verità su via D’Amelio. E nel coprire, di fatto, mandanti e movente che una lettura facile e consolatoria (sostenuta per diciassette anni dalle verità “rivelate” da Scarantino) avrebbe voluto limitare all’interno di Cosa nostra. Solo una vendetta: come in un b-movie.

In questa seconda inchiesta, la Commissione Antimafia dell’Ars, durante quattro mesi d’indagine, ha collezionato 22 audizioni: il giornalista Enrico Deaglio; il giornalista Salvo Palazzolo; l’avvocato Valeria Maffei, legale di Gaspare Spatuzza; Vincenzo Pipino (che di Vincenzo Scarantino fu compagno di cella); la giornalista Stefania Limiti; l’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro; Gaetano Murana (uno degli innocenti accusati da Scarantino); l’attuale consigliere del C.S.M. Sebastiano Ardita; il sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Messina Felice Lima; l’ex magistrato Alberto Di Pisa; l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli; l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia; l’ex Ministro dell’Interno Vincenzo Scotti; l’ex agente della Polizia di Stato Antonio Vullo (unico superstite della strage di via D’Amelio); il giornalista Damiano Aliprandi; il giornalista Fabrizio Calvi; l’ispettore superiore della Polizia di Stato Giuseppe Garofalo; l’ex presidente del COPACO ed ex componente del CSM Massimo Brutti; gli ex direttori del carcere di Pianosa Vittorio Cerri e Vincenzo D’Andria; l’ex dirigente del SISDE Bruno Contrada; il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. A tutti dobbiamo un contributo di memoria che ci è stato utile per ricostruire dettagli, omissioni, forzature, ingenuità, menzogne: i molti tasselli che costituiscono la solida impalcatura di questo depistaggio.

Un ringraziamento, non formale, va ai funzionari della nostra Commissione (sempre puntuali, pazienti e solerti), ai nostri consulenti ed – in particolare – a Enrico Deaglio, da sempre attento cultore e scrittore civile di queste vicende, consulente prezioso nell’accompagnarci in alcuni approfondimenti.

 

WAR GAME 

I depistaggi

“Questa storia non è mai finita. E i depistaggi sono ancora in corso” ha affermato, durante la sua audizione in Commissione Antimafia, il procuratore Scarpinato, offrendo la chiave dell’inchiesta che ha impegnato in questi mesi la Commissione Antimafia dell’ARS. Da questa suggestione (che tale purtroppo non è, come vedremo più avanti) intende muovere il nostro lavoro: mettere a fuoco il tentativo attuale di deviare non tanto il corso delle indagini (sono già stati celebrati quattro processi) quanto la ricerca storica di una verità compiuta su mandanti e movente della strage di via D’Amelio. È la conferma che, a quasi trent’anni da quella stagione di eversione mafiosa, le sue verità sono ancora materia viva e scomoda. Verità che preoccupano, oggi come ieri; e che inducono taluni a forzare la ricostruzione dell’attentato verso spiegazioni meno traumatiche, oggi come ieri. L’episodio che ha riaperto la polemica è la lunga ricostruzione che su via D’Amelio propone il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, sicario delle famiglie Santapaola-Ercolano negli anni ottanta a Catania. La versione di Avola viene raccolta nel lungo pamphlet che gli dedica Michele Santoro, “Nient’altro che la verità[2] Sentiamo cosa afferma Avola nel suo racconto a Michele Santoro

 

Enna

Le riunioni di Enna sono uno dei capitoli più importanti e dirimenti dell’intera stagione stragista di Cosa nostra. Siamo alla fine del 1991, e i capi della commissione regionale di Cosa nostra per diversi mesi soggiornano nelle campagne della provincia ennese, territorio meno a rischio di altri, per incontrarsi ripetutamente e discutere la nuova strategia stragista dell’organizzazione. Obiettivo: un progetto di destabilizzazione del Paese.

Così le ricostruisce per la Commissione il procuratore Scarpinato.

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Tra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 si tengono contemporaneamente in Calabria, in Sicilia, una serie di riunioni tra i massimi vertici della ‘ndrangheta e della mafia per discutere un progetto politico di destabilizzazione violenta molto complesso. Le prime riunioni sono soltanto tra quattro capi: Santapaola, Riina, Provenzano e Giuseppe Madonia di Caltanissetta; poi progressivamente si allargano agli altri capi componenti della commissione regionale di cosa nostra. In queste riunioni veniva preso atto che i vecchi referenti politici di Cosa nostra non erano più in grado di garantire, com’era avvenuto in passato, gli interessi dell’organizzazione: occorreva, testualmente, “buttarli giù” e sostituirli con un nuovo soggetto politico. A tal fine occorreva porre in essere una strategia terroristica di attacco violento allo Stato, con stragi ed altri atti eclatanti in modo da creare un clima di panico di sfiducia nella popolazione, idonea a destabilizzare il vecchio ordine politico ed a propiziare la discesa in campo di un nuovo soggetto politico in fase di formazione.

In quella fase storica il nuovo soggetto politico era una lega meridionale che, alleandosi con la Lega Nord, soggetto allora in fortissima ascesa politica, avrebbe dato vita ad una maggioranza parlamentare in grado di varare una riforma federale dello Stato con la divisione dell’Italia in tre macro Regioni: la macroregione del Nord, una del Centro, una del Sud che avrebbe ricompreso (la Sicilia, la Campania e la Calabria, realizzando di fatto una sorta di secessione. L’esecuzione delle stragi e degli omicidi finalizzata all’azione di destabilizzazione era stata delegata a Cosa nostra ed alla ‘ndrangheta; su espressa indicazione di Riina le azioni violente dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata. La scelta degli obiettivi da colpire doveva essere in primo luogo funzionale alla realizzazione globale del piano di riassetto politico ed in tale ambito cosa nostra poteva colpire anche i suoi nemici storici come Falcone ed altri, realizzando così una convergenza di interessi. (…)  Nei documenti allegati dal dottor Scarpinato ed acquisiti da questa Commissione sono riportate le dichiarazioni, al riguardo, di più di dodici collaboratori, tra cui Leonardo Messina, il quale rivelò a Paolo Borsellino, ai primi di luglio del 1992, i tratti essenziali del piano di destabilizzazione discusso ad Enna, rifiutandosi, tuttavia, di verbalizzare perché era ancora privo del piano di protezione.

Questo invece è il racconto che Filippo Malvagna fa su quei summit nel corso del processo c.d. “‘ndrangheta stragista“Fare in fretta”

Per comprendere cosa accade dopo via D’Amelio e l’importanza del depistaggio che sposterà altrove l’attenzione dell’opinione pubblica, occorre tenere conto di un altro elemento che precede la strage: l’urgenza – per molti aspetti, come vedremo, incomprensibile – con cui Cosa nostra procede verso l’organizzazione dell’attentato. Sentiamo ancora il procuratore generale Scarpinato.

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Sappiamo che c’è un’anticipazione anomala dell’esecuzione della strage di Via D’Amelio. Lo sappiamo anche dalle intercettazioni in carcere. Riina conversando con il suo compagno di detenzione dice che mentre la strage Capaci era stata preparata da tempo, la strage di Via D’Amelio era stata fatta alla giornata. «Qualcuno è venuto e ha detto: “bisogna fare questa strage!”», «Dammi un poco di tempo…», «Domani, domani, bisogna farla subito!». (…) Riina fa una cosa che non riesce a spiegare agli altri capi mandamento, i quali cominciano a capire che Riina sta facendo qualcosa che va al di là degli interessi di cosa nostra e che risponde a qualcuno.  Via D’Amelio fu organizzata “alla giornata”, dice il procuratore Scarpinato. Un’urgenza che non partiva da Cosa nostra, dai suoi obiettivi, dalle sue utilità. Al contrario: per la mafia fu un’accelerazione del tutto controproducente.
  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. L’anticipazione della strage di Via D’Amelio è assolutamente suicida per l’interesse dell’organizzazione. Dopo la strage di Capaci era stato approvato il cosiddetto “decreto Falcone” che aveva introdotto il 41 bis e l’ergastolo ostativo. In Parlamento si era scatenata una dialettica molto forte ed era prevalente, come risulta dalle testimonianze in vari processi, una maggioranza garantista che era contraria a convertire in legge quel decreto che scadeva il 7 agosto. Ci hanno detto vari collaboratori che Calò aveva raccomandato a tutti di non muoversi e di stare fermi perché era altamente probabile che il decreto non venisse convertito.

Cosa fa Riina? Decide che non può aspettare i diciannove giorni che ci sono dal 19 luglio al 7 agosto e che la strage deve essere eseguita prima. A quel punto, riferirà il pentito Cancemi, gli altri restano estremamente perplessi. Ganci si apparta con Riina per parlare, ma Riina non riesce a dare spiegazioni che siano coerenti con gli interessi di Cosa nostra, taglia corto, dice: «mi assumo la responsabilità». Ganci esce da quell’incontro con Riina e dice: «questo è pazzo, porterà alla rovina l’organizzazione». Cancemi conclude: «abbiamo capito che lui aveva preso un impegno con soggetti esterni e che stava sacrificando gli interessi di Cosa nostra».

 

  • FAVA, presidente della commissione. Ma che cosa sarebbe potuto accadere tra il 19 luglio e il 7 agosto?
  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Borsellino sarebbe andato a Caltanissetta, si sarebbe portato l’agenda rossa e avrebbe cominciato a mettere una dietro l’altro le cose che aveva capito. E lì scoppiava la bomba.
  • FAVA, presidente della commissione. …il filo di Arianna che aveva ricostruito.
  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. L’opinione che mi sono fatto è che Borsellino deve essere ucciso in quei 19 giorni perché ha capito che dietro la strage di Capaci ci sono entità esterne a Cosa nostra, ci sono spezzoni di Servizi, pezzi deviati dello Stato e annota tutto questo nella sua agenda rossa con uno sgomento che è progressivo e un senso di impotenza che è progressivo perché lui capisce che sarà la mafia ad ucciderlo, ma che ci sono entità superiori che lo decideranno, e dinanzi alle quali ritiene di non avere scampo… c’è un piano ed è un piano non soltanto di Cosa nostra, perché ci sono pezzi interni dello Stato dentro questo piano di destabilizzazione.
  • FAVA, presidente della commissione. Dunque Borsellino doveva morire. Subito.
  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Prima che dicesse: «guardate che qui c’è un piano di destabilizzazione, che non è stato fatto solo da Cosa Nostra ma da altri». Bisognava fermarlo, perché altrimenti saltava tutto il piano. Probabilmente, non ci sarebbero state neanche le stragi del ’93, perché il gioco sarebbe stato scoperto.

Se l’ipotesi del procuratore Scarpinato è vera (e tutto – nella rapidità con cui fu organizzata la strage del 19 luglio – conduce a pensare che sia vera) è importante capire cosa sia accaduto anche nei giorni immediatamente precedenti a via D’Amelio: non solo dentro Cosa nostra quanto, soprattutto, attorno a Paolo Borsellino. Perché è in quegli ultimi giorni che maturano definitivamente sia l’attentato che il depistaggio. Un depistaggio destinato non solo a deviare le indagini sulla morte del giudice Borsellino verso un vicolo cieco ma a condizionare, nei trent’anni successivi, la ricostruzione di ciò che accadde e del perché accadde.

 

GIAMMANCO

C’è un filo oscuro ma netto che unisce la vicenda umana e il lavoro giudiziario di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un filo che anticipa via D’Amelio e in qualche modo annuncia i primi segni del depistaggio destinato ad occultare per diciassette anni ogni verità sulla strage. Quel filo è rappresentato dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, alla direzione della procura di Palermo dal giugno 1990 all’agosto 1992 quando chiede (e subito ottiene) dal CSM il nullaosta per lasciare Palermo e trasferirsi in Cassazione.

A Giammanco si attribuisce, in quei due anni palermitani, il lento ma determinato e costante esercizio di isolamento professionale, prima nei confronti di Falcone (che a quella condizione di solitudine si sottrarrà accettando nel 1991 la proposta del ministro Martelli di lavorare alla guida dell’ufficio Affari Penali a Roma), poi verso Paolo Borsellino, tenuto per mesi ai margini delle inchieste giudiziarie più importanti sulla Cosa nostra palermitana. Almeno fino a poche ore prima della morte, quando ricevette un’inaspettata ed ancora non decifrabile telefonata da parte di Giammanco (ne parleremo più avanti) che gli comunicava di volergli finalmente affidare le principali inchieste sulla mafia palermitane. Un atto tardivo di resipiscenza: sono le 7.00 del mattino di domenica 19 luglio e a Paolo Borsellino restano solo dieci ore di vita.  La scelta di indicare Giammanco alla guida della Procura, due anni prima, s’era portata dietro critiche e preoccupazioni, emerse anche nel voto non unanime del plenum del CSM.

Esplicita la preoccupazione manifestata, in occasione di quel voto, da alcuni consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Come ebbe modo di dichiarare l’area vicina a Massimo Brutti, componente laico del consiglio, Giammanco appariva “un giudice troppo chiacchierato, un magistrato troppo schierato, troppo legato ai salotti dei potenti[6]: una serie di annotazioni del magistrato che vanno dal dicembre 1990 fino al 6 febbraio 1991, ossia poco prima che Falcone accettasse l’incarico romano offertogli dal ministro Martelli.

«È per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli. Non si sa mai». Siamo nella seconda settimana di luglio dell’anno scorso e, dal 15 marzo, il giudice Giovanni Falcone si è trasferito a Roma per dirigere l’ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia. Come in tante altre occasioni si discute della sua decisione di lasciare il posto di Procuratore aggiunto a Palermo. «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi? No, meglio Roma. Qui al Ministero c’è tantissimo da fare. E alla mafia, anche da qui, si può dare molto fastidio».  In quei suoi appunti[8]di manzoniana memoria, il procuratore Pietro Giammanco.

Il giorno dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino confermerà l’autenticità dei diari[10]:

“…io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.”

Per prima cosa ne parlerò all’Autorità Giudiziaria” dice Borsellino, ma l’esplosivo di via D’Amelio compirà il suo lavoro prima che ciò possa avvenire.

Come ci portano i diari di Falcone al depistaggio sulla strage di via D’Amelio? Certamente ci aiutano a definire un contesto ambientale (la procura di Palermo) ed un conflitto professionale (quello che oppone, come detto, il procuratore Giammanco prima a Giovanni Falcone, poi a Paolo Borsellino). Ed entrambi, contesto e conflitto, incideranno sull’isolamento di Borsellino e sul successivo sviamento delle indagini di via D’Amelio.  Per comprendere la profondità di quel conflitto, che emerge pubblicamente per la prima volta in tutta la sua asprezza attraverso le pagine dei diari di Falcone, è utile ricostruirlo attraverso le parole dello stesso Giammanco e quelle – di segno opposto – degli altri magistrati palermitani ascoltati dal CSM nel luglio del ’92 (sulla genesi di quel ciclo di audizioni riferiremo a breve).

In prima battuta è il procuratore generale di Palermo Bruno Siclari[12], o ancora laddove il giudice Falcone aveva scritto: “…(Giammanco) ha sollecitato la definizione di indagine riguardanti la Regione al Capitano De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino) assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti, ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei Carabinieri in tale previsione (intorno al 10 dicembre 1990)”.

Evasivo Giammanco durante la sua testimonianza al CSM[14] che conferma la veridicità dell’annotazione di Giovanni Falcone: era stata la Presidenza della Regione a contattare Giammanco.

  • SABATINO, sostituto procuratore generale presso la Corte d’ Appello di Palermo. Successe che un giorno il procuratore ha voluto questo fascicolo… Dopo di che mi chiamò dopo un po’ di giorni… mi disse: «se vieni nella mia stanza» e mi ha detto: «ho visto questo fascicolo», io mi meravigliai, «dalla Presidenza della Regione vogliono sapere se si chiude, perché ci sono problemi, praticamente problemi di finanziamenti…»e mi chiese che cosa intendessi fare. Gli dissi che intendevo fare delle indagini… Allora lui: «vedi di fare presto».

Per Giammanco, in ogni caso, quei diari di Falcone non sono un problema: la sua reazione è quella di minimizzarli usando toni sprezzanti[16], Vittorio Teresi[18].

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Partirei dall’ultimo giorno in cui Giovanni Falcone sta in procura. C’è una riunione alla quale partecipa il procuratore Giammanco… eravamo in cinque o sei e Falcone dice in tono acceso al Procuratore Giammanco: «io non condivido il tuo modo di gestire l’ufficio». (…) Giovanni Falcone lamentava il fatto di essere, come dire, bypassato, in momenti cruciali o da lui ritenuti cruciali, nella gestione di alcuni processi… I problemi venivano da lui avvertiti quando si passava dalla normale amministrazione, tra virgolette, in materia di mafia, a livelli superiori. E per esempio il caso Gladio

***

  • TERESI, già Procuratore aggiunto a Palermo. Ero consapevole, per essere molto vicino a Giovanni e ad altri colleghi che con lui e con me lavoravano, che non c’era proprio un’identità di intenti nella gestione generale e nel coordinamento dei processi di mafia all’interno dell’ufficio.

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  • PRINCIPATO, Procuratore aggiunto di Palermo. Io ricordo che Giovanni Falcone, nella sua stanza, mi disse: «Hai visto che cosa succede? Io sono stato totalmente esautorato. Io in questa procura non ho cosa più cosa fare, anzi, io me ne vado e vi raccomando una cosa, andatevene anche voi, perché la vostra presenza qui non fa altro che legittimare questo sistema, di mettere il coperchio a questa situazione, che invece prima o poi dovrà esplodere».

Toccherà alla professoressa Maria Falcone[20].  Sono i giorni che seguono alla strage di via Capaci, e Paolo Borsellino si trova ormai nella stessa sgradevole situazione di Falcone: anche lui ostracizzato dal capo della procura, escluso dalle indagini palermitane su Cosa nostra, visibilmente isolato.  Eppure in quei cinquantasette giorni, Paolo Borsellino è più che mai un uomo delle Istituzioni e per le Istituzioni. Anche lui comincia a prendere nota di tutto ciò che va man mano scoprendo, ritenendo di doverne riferire al momento opportuno solo davanti all’autorità giudiziaria competente per quei fatti, cioè la procura di Caltanissetta. Ma quell’incontro con il procuratore Tinebra non ci sarà mai.  In questo senso la prima pagina dell’agenda rossa di Paolo Borsellino riprende, almeno idealmente, dall’ultima riga dei diari di Falcone. Un filo che annota lucidamente anche la professoressa Falcone[22] che chiedeva al Ministro della Giustizia se risultassero vere, vado per sintesi, scelte e comportamenti posti in essere al Procuratore della Repubblica di Palermo, Giammanco, comportamenti che avrebbero ostacolato il lavoro giudiziario di Falcone, soprattutto per quanto riguardava il coordinamento delle indagini antimafia. E se vi fossero stati comportamenti anomali o rilevanti in sede penale o disciplinare da parte del dottor Giammanco.

 

  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Io predisposi alcune interrogazioni parlamentari che nascevano, in gran parte, dalle note di Giovanni Falcone… Giammanco non gli aveva consentito, come risulta dalle sue note, di occuparsi del filone di indagine che riguardava la struttura Gladio, una struttura che si può definire clandestina all’interno del SISMI e che aveva una propaggine in Sicilia costituita dal Centro Scorpione, ubicato presso Trapani, e Falcone era interessato alle indagini che si stavano svolgendo, per iniziativa della magistratura, romana sull’attività di questa struttura…
  • FAVA, presidente della Commissione. Perché dice che era una struttura clandestina?
  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Perché una struttura del SISMI che, in alcuni momenti nella storia della Repubblica, è stata volutamente celata anche ai Presidenti del Consiglio, non può considerarsi una struttura normale nell’ambito dei servizi d’intelligence. (…) In quell’estate del 1988 si faceva con insistenza il nome di Falcone per il ruolo di Alto Commissario per la lotta alla mafia. Naturalmente Falcone non fu nominato… Fu nominato invece Sica e dal vertice del SISMI arrivò un’istruzione al Centro Scorpione che diceva: «Mettetevi a disposizione dell’Alto Commissario Sica». (…)

     * * *

  • MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Se non ci fossero stati questi contrasti e se a Falcone non fosse stato impedito di operare, se non fosse stato questo il clima a Palermo non ci sarebbe stato bisogno che io chiamassi Falcone a Roma perché potesse continuare il suo lavoro.

Ostacolato, isolato, professionalmente emarginato, Falcone sceglie di andare a Roma. Borsellino invece resta a Palermo: dopo la morte dell’amico, sente su di sé la responsabilità di dover far tutto ciò che è nelle sue possibilità per ottenere la verità sulla strage di Capaci. È proprio in quei 57 giorni che il rapporto con il procuratore Giammanco s’incrina sempre di più. Fino all’ultima telefonata, la mattina del 19 luglio, su cui torneremo più avanti.

Ci interessa qui ricostruire il clima in cui Borsellino trascorre quei due mesi scarsi di vita che gli restano, la fatica di quei giorni, incisa nel ricordo e nelle parole di molti suoi colleghi, raccolte nel ciclo di audizioni che si svolgono dinanzi al CSM dopo la strage di via D’Amelio, tra il 28 e il 31 luglio 1992.

Tutto nasce da un documento molto critico che il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redigono per mettere nero su bianco le criticità che affliggono la procura retta da Giammanco e le condizioni di assoluta insicurezza in cui si svolge il loro lavoro. Lo fanno mettendo sul banco le proprie dimissioni dall’ufficio, affinchè sia chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l’urgenza delle preoccupazioni.

 

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Dopo la strage di via D’Amelio io prendo l’iniziativa di scrivere un documento, che sono stato costretto a riscrivere quattro volte, perché mi sono fatto il giro di quaranta stanze di sostituti e non riuscivo a raccogliere una firma, e allora l’ho scritto, l’ho riscritto… e non ho avuto adesioni neppure da persone di cui mi sarei aspettato la firma… Alla fine sono riuscito, con l’ultima versione, ad avere otto firme. Quel documento nella sostanza, dopo un cappello che riguardava la sicurezza, diceva che Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Non è che fu una cosa facile perché Giammanco era un potente. Il Consiglio Superiore della Magistratura ci convocò e non si sapeva se avrebbero trasferito lui o noi: questa era la partita in gioco.

Un atto di sfiducia senza condizioni. Così lo racconta Andrea Purgatori in un suo articolo del 24 luglio 1992[24]. Quattro giorni di sedute a porte chiuse in cui emergono tutte le tensioni e le contraddizioni che animano il distretto giudiziario palermitano. Alla fine il procuratore Giammanco, uno dei primi ad essere sentito[26].  Di quei verbali si perderà ogni traccia per ventotto anni[28] e Ignazio De Francisci[30]:

  • FAVA. Giammanco isola immediatamente Borsellino… La mafia, come i leoni in branco, Presidente, sbrana il capo che si è isolato dal branco, il capo che è solo. E Borsellino viene chirurgicamente isolato. Nella procura della Repubblica di Palermo Borsellino è un uomo isolato.

Punti di vista schietti, onesti, preoccupati: totalmente in dissonanza con quanto affermato in quelle audizioni dal procuratore generale di Palermo Bruno Siclari[32].

  • DOMANDA COMPONENTE CSM. Lei non ricorda che il dottor Borsellino abbia manifestato nei colloqui con lei preoccupazioni per la gestione, nell’organizzazione dell’ufficio della procura?
  • SICLARI, già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. No… Assolutamente… no, questo lo posso escludere tranquillamente perché non ha mai manifestato alcun dubbio… non ha mai detto a me assolutamente niente, assolutamente.

***

  • GIAMMANCO, già Procuratore della Repubblica di Palermo. I miei affettuosi rapporti di stima con Borsellino erano di antica data, e per questo io mi ero adoperato per favorire la sua nomina a procuratore aggiunto di questo ufficio… Nello stesso giorno della nomina… sono stato io a comunicarlo a Borsellino… Io ho scritto alcune espressioni altamente significative di riconoscimento delle sue eccezionali doti che sono la riprova del nostro bellissimo rapporto personale, prima che di lavoro, e quindi mi dispiacerebbe che anche in questo caso si facessero parlare i morti facendogli dire cose in netto contrasto con quello che hanno fatto da vivi, così come è avvenuto per Giovanni Falcone.

L’allusione è relativa ai famosi “diari” di Falcone: ne abbiamo già parlato. Va ricordato, per dovere di cronaca che ci furono altri magistrati palermitani che dichiararono invece al CSM di non aver ravvisato particolari screzi o tensioni tra Borsellino e Giammanco. Segno che la linea di frattura era profonda e attraversava l’intero ufficio. Utile citare, per tutte, la testimonianza resa dalla dottoressa Anna Maria Palma[34].

  • INGROIA, già magistrato. Mi disse testualmente: «Giammanco è un uomo di Lima». Affermazione per la quale io rimasi turbato, anche per quello che dell’onorevole Lima si era detto per anni a Palermo. Eravamo ancora a Marsala, prima che facesse domanda di procuratore aggiunto, quando mi avanzò le sue riserve in ordine alla sua decisione se fare o meno la domanda…

E proprio sulle affinità politiche di Giammanco, in particolare sul suo rapporto con l’ex presidente della Regione Siciliana Mario D’Acquisto e con Salvo Lima (cui abbiamo accennato nel capitolo precedente), i magistrati palermitani si soffermano più volte. Ecco stralci dei verbali di Alfredo Morvillo[36] e Teresa Principato[38]:

 

  • TESTE PIRAINO A.: Mio marito si è alzato molto presto la mattina, lui era molto mattiniero, e ha ricevuto una strana telefonata alle 7.00 del mattino. Il Procuratore Giammanco l’aveva chiamato perché la notte non aveva potuto dormire pensando che la mattina doveva dare la delega per interessarsi lui dei processi di mafia riguardanti Palermo. La telefonata ha turbato (Paolo Borsellino, ndr) moltissimo, non ne era proprio entusiasta. Il Procuratore Giammanco ha detto: «Così la partita è chiusa»; lui ha ripetuto: «La partita è aperta». E ha cominciato a passeggiare su e giù per il corridoio.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Per chiarire alla Corte il significato di questa telefonata, ci vuole spiegare che significa mafia di Palermo?
  • TESTE PIRAINO A.: Ecco, mio marito da febbraio si trovava a Palermo, era stato trasferito a Palermo… era venuto in città ma era convinto di non essere bene accetto e il Procuratore Giammanco non era entusiasta della sua presenza presso la Procura… e quando si è istituita la PNA il Procuratore ha dato la delega a lui per i processi di mafia di Trapani e di Agrigento, però assolutamente non voleva che si occupasse della mafia di Palermo.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Quindi suo marito lavorava sulla mafia di Agrigento e di Trapani.
  • TESTE PIRAINO A.: Sì, però mi diceva: “Ho la situazione esatta di quello che accade a Palermo tramite i processi che io faccio, che istruisco su Trapani e Agrigento. Però sono delegittimato”, perché il Procuratore non aveva dato questa delega a lui per trattare i processi di Palermo. Poi, quella domenica mattina, alle sette… Giammanco non era mai solito telefonare a quell’ora, non c’erano rapporti…
  • P.M. dott.ssa PALMA: Era capitato altre volte?
  • TESTE PIRAINO A.: No, no, mai.

Su quella telefonata (l’orario, l’improvvisa urgenza, il significato delle parole) si possono fare molte ipotesi. Abbiamo raccolto alcune voci particolarmente autorevoli: il dottor Dolcino Favi, sostituto procuratore generale nel processo d’appello del “Borsellino terLe falle sulla sicurezza

Lo ha detto senza mezzi termini dinanzi questa Commissione l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli: come ci si può sorprendere che ci siano stati depistaggi se all’inizio non c’è stata protezione nei confronti di Paolo Borsellino?

Non è la prima volta che Martelli propone una considerazione di questo tipo. Era già successo durante le indagini sulla strage di via D’Amelio quando, nella veste di testimone, viene sentito dal Procuratore di Caltanissetta Tinebra e dai suoi sostituti.

 

  • MARTELLI, già Ministro della Giustizia. La cosa che mi colpì è che anche a loro prospettai la questione della mancata protezione, della mancata tutela di Borsellino, ma la cosa lasciò Tinebra del tutto… «sì, sì», come se fosse un aspetto trascurabile e tutto l’interrogatorio poi che mi riguardò… mi ha dato la sensazione di essere un rito puramente formale, insomma, che non è che cercasse neanche spunti investigativi, suggestioni, fantasie o qualche fatto. Il fatto più grave l’avevo bello che sciorinato, ma su quello non s’è dato pena di fare alcun approfondimento.

Secondo quanto riferito da Martelli, dunque, il fatto che il dispositivo di sicurezza intorno a Borsellino presentasse più di una criticità non costituiva in quel momento per la procura nissena un elemento da approfondire e comunque da suggerire piste investigative degne di rilievo. Come se si fosse trattato solo di semplici disguidi. Aggiungiamo, come se attorno a Paolo Borsellino in quelle settimane tra Capaci e via D’Amelio non si fossero addensati presagi, avvertimenti, minacce, disvelamenti che avevano tutti (come vedremo nelle pagine che seguono) un comune denominatore: attentare alla vita del magistrato palermitano.  Facciamo un passo indietro e torniamo a sabato 23 maggio 1992. Una sola certezza riesce a farsi strada tra le macerie fumanti dell’autostrada A29: con l’uccisione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino diventa agli occhi dell’opinione pubblica, dei suoi colleghi, del governo, delle forze dell’ordine “il prossimo della lista”: se qualcosa accadrà, sanno e temono tutti, avrà come obiettivo il giudice Borsellino. E allora cosa succede? Niente! Parte soltanto un silenzioso conto alla rovescia che durerà per cinquantasette giorni. Fino a metà giugno, ci spiega Antonio Vullo, la scorta di Borsellino non ebbe alcun rafforzamento.

 

  • FAVA, presidente della Commissione. Ci furono procedure particolari di sicurezza adottate (per Borsellino) dopo la strage di Capaci?
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Quando ho preso in custodia il giudice Borsellino siamo andati subito in via Cilea (dov’era l’abitazione del giudice, ndr.). Io immaginavo di trovare un bunker perché dopo la strage di Capaci pensavo che tutelare il giudice Borsellino fosse doveroso anche perché sapevamo tutti che dopo Falcone toccava a Borsellino, lo sapeva anche la gente comune. Solo che quando siamo arrivati… non c’era la vigilanza fissa e questo ci ha dato molto da pensare: eravamo solo un’auto con tre componenti e dovevamo controllare il box interno all’edificio dove abitava il giudice, l’androne, le scale, l’ascensore e tre uomini non sono sufficienti. (…) Difatti il giorno successivo chiedemmo l’ausilio della volante per fare la bonifica quando si arrivava all’abitazione del giudice Borsellino… Poi si sono fatte relazioni perché c’era bisogno della vigilanza fissa, e credo intorno al 16 o 17 di giugno sia stata messa sia la vigilanza fissa del reparto mobile di Palermo e sia una seconda auto che faceva un turno in seconda, ossia 8-14 e 14-20, mentre la scorta, di cui io facevo parte, faceva anche la sera e la notte.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quindi dal 16 o 17 giugno eravate due auto più quella del dottore Borsellino che però aveva un autista del Ministero.
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Un autista giudiziario, sì, però il sabato pomeriggio e la domenica guidava sempre lui.
  • FAVA, presidente della Commissione. L’autista non era in servizio?
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Non era in servizio.

Riepiloghiamo: muore Giovanni Falcone ma il dispositivo di protezione nei confronti di Paolo Borsellino per diverse settimane non viene modificato: una sola auto, nessuna bonifica a casa, nessun posto fisso sotto l’abitazione, nessun divieto di sosta davanti all’abitazione della madre in via D’Amelio… Alcune di queste misure verranno successivamente migliorate ma solo per le relazioni di servizio che gli agenti di scorta si impuntano a trasmettere ai loro uffici. Se non fosse stato per loro, e per le premure del collega Gioacchino Natoli[41]:

  • TESTE PIRAINO A.: Credo che il punto più vulnerabile era proprio questo dove abitava la mamma.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Perché ci dice così?
  • TESTE PIRAINO A.: Perché i suoi spostamenti erano limitatissimi e sempre gli stessi: il Palazzo di Giustizia, la chiesa di fronte casa nostra e la mamma, dove lui andava sia per vederla sia per prestare quell’assistenza che era necessaria allorquando lei non stava bene. (…) E tutte le domeniche andava dalla mamma a trovarla. Sempre.

Eppure durante i cinquantasette giorni che separano le due stragi, Paolo Borsellino – come dicevamo – è destinatario di numerose minacce la cui portata viene sistematicamente sottovalutata. Avvertimenti, segnalazioni, perfino informative ufficiali di cui lo stesso Borsellino in alcuni casi non viene messo nemmeno al corrente. Sottovalutazione? Per la sicurezza del giudice Borsellino, certamente. Ma gli altri? Il suo capo, il procuratore Giammanco, mentre tace a Borsellino gli anonimi e le informative che lo riguardano, decide invece di provvedere a sè stesso contattando il proprio agente assicurativo, come spiega candidamente ai consiglieri di Palazzo dei Marescialli il 28 luglio 1992[43], Ignazio De Francisci[45] nel 1992 al CSM, non turba più di tanto il procuratore capo.

 

  • MORVILLO, già Procuratore della Repubblica di Trapani. In questi giorni, dopo la strage del 23 maggio, arriva un anonimo con chiare minacce per alcuni colleghi, con le fotografie, fra gli altri, di Borsellino, De Francisci, Teresa Principato e degli altri. In questa riunione della Direzione Distrettuale Antimafia, da parte del Procuratore, mi dicono i colleghi, ancora una volta c’è una sottovalutazione: «va bè, è una stupidaggine, che fa, la stracciamo?»

***

  • DE FRANCISCI, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Bologna. Io seppi dell’esistenza di questa lettera da Teresa Principato… Sono andato da Giammanco che me l’ha mostrata e mi ha detto: «Guarda è arrivata questa cosa». Io ho detto: «Senti Procuratore io la manderei a Caltanissetta…». Ricordo che il procuratore mi disse: «Mah», cioè era dubbioso sulla opportunità o meno di inviarla. Non so sinceramente se l’abbia inviata o no.

***

  • PRINCIPATO, Procuratore aggiunto di Palermo. Giammanco ci chiamò e ci disse: «c’e questa cosa»… Giammanco non mandò mai, mai, quell’anonimo al Comitato di sicurezza.

Alla fine, della rilevanza di questa minaccia verrà investito il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza presso la Prefettura di Palermo. Quando? Solo dopo che Borsellino è stato già ucciso! È solo in quell’occasione – come chiarito davanti al CSM[47], Giammanco, incalzato sul tema, offre ai componenti del CSM una diversa chiave di lettura della sua premura nei confronti delle problematiche legate alla sicurezza di Paolo Borsellino.

 

  • GIAMMANCO, già Procuratore della Repubblica di Palermo. Io ho concordato col prefetto che alcuni dei sostituti potessero venire al Comitato dell’ordine pubblico… ho invitato per incarico del signor Prefetto di Palermo, i sostituti: Natoli, Ilarda e Lo Voi… c’era un lungo ordine del giorno, nel frattempo erano cominciate ad arrivare numerosi segnali di pericolo per il collega Borsellino, è notorio che su tutta la stampa si indicava il prossimo bersaglio in Borsellino, lui stesso in diverse interviste con tono rassegnato si rendeva conto di essere nel mirino della mafia… questa riunione… si svolse il 22 di giugno… fu in quella sede che io riferii sulle aggravate condizioni di pericolo di Borsellino… Era arrivata un lettera nella quale erano effigiate le immagini di diversi magistrati uccisi… e poi c’erano le fotografie di Borsellino… c’erano alcuni magistrati, alcuni sostituti del mio ufficio… io l’ho inviata lo stesso 18 giugno alla Procura di Caltanissetta e ho chiesto di convocare questa riunione… nella quale si dispose il raddoppio della scorta di Borsellino e la istituzione della sorveglianza davanti casa…

***

  • GIAMMANCO, già Procuratore della Repubblica di Palermo. Spallitta lo ha avuto ed è andato al Comitato per la Sicurezza perché io sono stato male. Io ho avuto una riacutizzazione al colon, mi sono messo a letto, e Spallita è andato al Comitato per l’Ordine Pubblico. Questo, di cui vi ho già parlato, è un collage di fotografie nel quale il primo bersaglio cui uno doveva pensare, per gli altri non c’erano assolutamente gli elementi per provvedere.

La versione di Giammanco, che lo vorrebbe attento e tempestivo nel prendersi cura della sicurezza dei suoi sostituti, ed anzitutto di Paolo Borsellino, viene significativamente ridimensionata dalle dichiarazioni dei tre sostituti che lo avevano accompagnato alla riunione del Comitato provinciale tenutasi il 22 giugno. Questa la testimonianza del PM Giovanni Ilarda[49] incentrato sui 318 documenti che la Commissione antimafia nazionale, all’epoca presieduta dal senatore Giuseppe Pisanu[51]. Un mese più tardi[53]» …

A pochi giorni dalla strage, un’ altra informativa dei ROS indica Paolo Borsellino e Antonio Di Pietro quali possibili obiettivi di attentati. Il magistrato del pool di “Mani Pulite” viene subito messo in sicurezza: rafforzamento della scorta e famiglia trasferita all’estero. Borsellino, invece, non è così fortunato: la nota viene trasmessa alla Procura di Palermo tramite posta ordinaria. Arriverà solamente quattro giorni dopo che l’inferno ha fatto tappa in via D’Amelio[55]:

I magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini delle loro scorte, uccisi nel 1992 in due attentati, si sarebbero potuti salvare? Entrambe le bombe sono state innescate con dei comandi a distanza: c’era uno strumento per evitare le stragi di Capaci e di via D’Amelio? Ci concentriamo su un’apparecchiatura, il Bomb Jammer, che può disturbare le frequenze radio bloccando così anche i comandi a distanza degli ordigni. Ce ne parla un uomo che ha collaborato come consulente per le più importanti procure, proprio usando il Jammer per proteggere i magistrati. In Italia questa apparecchiatura è arrivata negli anni ’80: lui l’avrebbe avuta per la protezione dell’auto del pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Per quelle di Falcone e Borsellino il consulente sarebbe stato bloccato dalla burocrazia. (…)

Dunque la tecnologia jammer, nel 1992 aveva già trovato applicazione a tutela di personalità istituzionali ritenute a rischio? Se sì, perché non venne installato nelle auto di Falcone e di Borsellino? Lo abbiamo chiesto all’ex Ministro Martelli[57].

 

  • INGROIA, già magistrato. Lui rimase molto impressionato… dal sistema di protezione che per lui era stato predisposto allorché si recò con la collega Principato in Germania 15 giorni prima della strage… Mi accennò anche ad una macchina che, conoscendo prima l’itinerario che avrebbe fatto il corteo, andava a fare la cosiddetta bonifica… mi disse anche che questa macchina aveva un’apparecchiatura che consentiva di rilevare gli esplosivi…

Ed è sempre Antonio Ingroia a tracciare per questa Commissione un collegamento tra la vicenda del jammer e la mancata trasmissione della nota del ROS a Paolo Borsellino. L’ex pm non sembra credere alle coincidenze.

  • INGROIA, già magistrato. Oggi, rileggendo i fatti che abbiamo scoperto, stento a credere che possa essere stato tutto frutto soltanto di un imperdonabile leggerezza. Troppe cose si sono sommate. Abbiamo fatto riferimento a questa cosa del jammer di Di Pietro, spero che qualche autorità giudiziaria lo stia verificando in un modo o nell’altro.

Via Mariano D’Amelio, nell’estate del 1992, non è un luogo qualunque.  È lo scenario perfetto per l’organizzazione di un attentato: non c’è la zona rimozione, nessun presidio fisso. Piazzare un’auto imbottita di esplosivo è un gioco da ragazzi, reso ancora più facile dalla poca solerzia che le istituzioni competenti, centrali e periferiche, continuano a mostrare in quelle settimane in tema di prevenzione.

Anche Borsellino ne è consapevole, e di tale circostanza danno ampia testimonianza i magistrati Roberto Scarpinato[59] e Vittorio Teresi[61].

  • GIAMMANCO, già Procuratore di Palermo. Guardi, non sapevo nemmeno che Borsellino avesse la madre viva…

E anche con riferimento a questo aspetto, l’allora procuratore generale Siclari[63], schernisce il sacrificio di Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Agostino Catalano, così come il trauma indelebile del sopravvissuto Antonio Vullo, definendoli – lo abbiamo riportato in precedenzaQuei signori in giacca e cravatta

Ci siamo già soffermati, nel corso della precedente inchiesta di questa Commissione[66]). Garofalo ne incrocia uno soltanto. Coincide la descrizione: rigorosamente in giacca e cravatta (nonostante fosse il 19 luglio!), non sembrano per nulla scioccati e neppure interessati a prestare soccorso ai residenti feriti.

Qual è allora il motivo della loro presenza? Probabilmente il contenuto della cartella di Paolo Borsellino, rimasta all’interno della Fiat Croma che il magistrato guidava quel pomeriggio (l’autista ministeriale non era in servizio).

La loro è una corsa contro il tempo: bisogna far presto prima che altri possano mettere le mani sull’inseparabile agenda rossa del giudice e magari venire a conoscenza di tutte quelle informazioni che il procuratore aggiunto di Palermo ha scrupolosamente raccolto fino al momento della sua tragica uccisione.

 

Abbiamo provato a ricostruire quei momenti con uno dei due testimoni, Giuseppe Garofalo, oggi ispettore superiore della Polizia di Stato, all’epoca capo pattuglia della volante 32.

  • FAVA, presidente della Commissione. Torniamo a quello che è successo il 19 luglio. Voi eravate in servizio da quanto tempo quella mattina?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Noi facevamo l’orario 13 – 19. Quindi, dalle 13, dall’una alle sette del pomeriggio.
  • FAVA, presidente della Commissione. Avevate un settore della città?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, la volante 32 si occupava di quella zona lì, ma anche della zona Mondello, insomma, abbastanza larga come zona.
  • FAVA, presidente della Commissione. Venite avvertiti dalla sala operativa o andate perché sentite il rumore dell’esplosione?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Noi siamo stati allertati dalla sala operativa anche se il botto si è sentito… All’inizio si è pensato all’esplosione di una bombola del gas, qualcosa del genere, solo che poi quando le notizie sono iniziate a confluire parlando della via D’Amelio abbiamo capito che c’era qualcosa, insomma, che era collegata al dottore Borsellino. E quindi, immediatamente abbiamo fatto strada… eravamo in zona, a Mondello, tenga presente che abbiamo messo pochissimo ad arrivare perché non c’era traffico.
  • FAVA, presidente della Commissione. Pochi minuti?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, sì, non c’era traffico quindi siamo arrivati subito, abbiamo trovato già la volante 21 che era già arrivata, però oltre alla 21 ancora non c’era nessuno.

La volante 32 ci mette poco ad arrivare. Sul posto ci sono già i colleghi della 21. Ed è in quel momento che, a pochi metri dall’autovettura di Paolo Borsellino, Garofalo si imbatte in uomo che si qualifica come appartenente ai servizi. Afferma di essere in cerca della borsa del giudice o, addirittura, Garofalo non lo rammenta bene, ne è già entrato in possesso.

  • GAROFALO, ispettore di Polizia. C’è stato questo momento che ripeto all’inizio pensavo fosse qualcosa di immaginario…
  • FAVA, presidente della Commissione. Si ricorda se l’uomo le mostrò un distintivo, un tesserino?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora, su questo non ho dubbi perché se non fosse stato così, ovviamente, io l’avrei immediatamente bloccato quanto meno controllato o identificato.
  • FAVA, presidente della Commissione. Per cui ha mostrato qualcosa?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, sì, sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. E lo vide vicino all’auto del giudice… a quello che restava dell’auto del Giudice?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora, consideri che in quel momento lì io lo ricordo sempre come una scena di un film di guerra perché vi erano i palazzi con le vetrate sfondate, le auto incendiate, fumo, fiamme… lo shock emotivo è stato enorme… vero è che (l’incontro, ndr.) è durato un secondo perché poi l’obiettivo era quello di aiutare le persone che erano rimaste all’interno delle abitazioni, perché ci siamo resi conto che chi era sulle macchine o era fuori purtroppo era già deceduto. Quindi, sì, questo soggetto lo incontro proprio, c’era la macchina di Borsellino, e ho avuto questo incontro.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lo vede in abiti civili.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Abito civile, vestito con una giacca, ecco, la cosa che ha attirato la mia attenzione è stata proprio che aveva una giacca e in estate nessuno porta la giacca e questo è stato il momento in cui io ho avuto un minimo di attenzione… ma anche perché era lì, ora non ricordo se mi ha chiesto della borsa del dottore Borsellino, o piuttosto era in possesso della borsa.

Fermiamoci un istante perché dietro a quello che può apparire come un ricordo sfuocato potrebbe celarsi la fase embrionale del depistaggio. Ossia – così come avrà modo di chiarirci meglio il procuratore generale Roberto Scarpinato – il momento in cui l’agenda rossa di Paolo Borsellino scompare (o, per meglio dire, viene fatta sparire) dalla scena del crimine.

  • FAVA, presidente della Commissione. Il suo ricordo è che in qualche modo c’entra questa valigetta.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. …perché lui le ha chiesto dove fosse o perché lei lo ha visto con la valigetta.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Ma parliamo sempre di attimi, di frazione di secondo, istanti.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però certamente c’è un interesse di questa persona: perché la valigetta ce l’ha già o perché chiede a lei dove si trovi.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì. In ogni caso doveva comunque far parte dell’entourage, delle indagini, perché in quel momento lì…
  • FAVA, presidente della Commissione. Di questo incontro lei ha fatto menzione in una relazione di servizio?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. No.
  • FAVA, presidente della Commissione. Nemmeno verbalmente?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora non ho fatto menzione nella relazione perché di fatto alla fine, visto che si trattava di personale dei Servizi non c’era motivo di riportare in quel momento lì un fatto che era normale per Palermo, io ho lavorato alla sezione omicidi per un paio di anni qui a Palermo, quindi, capitava sovente che sui luoghi, sui posti dove c’era stato un omicidio piuttosto che qualcosa di particolare vi era personale dei servizi…

Durante la sua audizione, l’ispettore Garofalo ci riferisce che quell’uomo avrà avuto «quaranta cinquant’anni». Ad oggi costui non ha ancora un volto. Svelare la sua identità significherebbe provare a far luce su uno dei momenti più controversi di quel pomeriggio del 19 luglio. E soprattutto permetterebbe di capire a che titolo, nell’immediatezza dell’esplosione, uno o più appartenenti ai servizi segreti si trovavano in via D’Amelio alla ricerca della borsa del dottor Borsellino. In altri termini, di fronte al dato incontrovertibile della loro presenza, confermato da più testimonianze, quei funzionari dei servizi erano in via D’Amelio in via ufficiale o no? La risposta che ci ha fornito Bruno Contrada, all’epoca numero tre del SISDE, è inequivocabile: il primo a metter piede in via D’Amelio per conto del SISDE fu lui alle 22.30 di quel 19 luglio 1992: è quello l’orario dell’ingresso ufficiale in scena dei servizi.

Ma allora, l’uomo dei servizi che viene identificato pochi minuti dopo la strage da chi era stato mandato in via D’Amelio? E a fare cosa?

  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Verso le dieci e mezzo di sera io andai sul posto, in via D’Amelio… Ricordo che contemporaneamente a me arrivò il Ministro della difesa, l’onorevole Salvo Andò, attorniato da quattro o cinque generali, due generali dei Carabinieri, gli altri dell’Esercito…
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei sa se fu mandato subito del personale dei servizi, parliamo di dieci-dodici minuti dopo l’esplosione, in via D’Amelio? Da parte di Narracci, visto diciamo che era lui che aveva la gestione operativa del Centro di Palermo?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Io ritengo di no. Ritengo che il primo intervento sul luogo sia stato quello mio e di Narracci (alle 22.30, ndr.), perché mi accompagnò il dottore Narracci…

Contrada, dunque, esclude che qualcuno abbia dato a funzionari del SISDE l’ordine di intervenire tempestivamente sul teatro della strage: fu lui il primo. Resta, però, l’immagine che Francesco Paolo Maggi consegna al Corte di Assise di Caltanissetta nel corso della sua deposizione del 20 maggio 2013[68]:

C’era qualcuno, al corrente di quanto sarebbe successo, che attendeva di potersi avvicinare alla macchina di Paolo e prendere la borsa dove era stata contenuta l’agenda.  Qualcuno, ci spiegherà il procuratore generale Scarpinato, talmente ben mimetizzato nella sua veste istituzionale da risultare invisibile.

 

L’agenda rossa

Prima di proseguire nella nostra trattazione, è importante rileggere – facendo tesoro di quanto riferito nel precedente paragrafo – le motivazioni della sentenza di secondo grado del Borsellino Quater[70] le “zone d’ombra” esistenti sulla “sparizione” dell’agenda rossa, smaterializzata dal luogo infuocato della strage dalla borsa del magistrato, ricomparsa dopo alcuni mesi nelle mani del dott. La Barbera che la riconsegna alla moglie del magistrato. Non può dimenticarsi che le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi – intervenuti nell’immediatezza della terribile esplosione nella via D’Amelio, fra fumi e macerie e con lo sconcerto per il terribile fatto accaduto – hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione, “in giacca” nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine, e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nell’immediatezza come “appartenenti ai servizi segreti”. E tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che di “un uomo estraneo a Cosa Nostra” ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios quando, come già detto, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la FIAT 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo.

Delle “numerose contraddizioni” cui accennano i giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta abbiamo già riferito nella relazione conclusiva della prima inchiesta, cui espressamente si rinvia[72], e poi l’agenda scompare: non è così! L’agenda viene prelevata pochi minuti dopo l’esplosione e qui notate la cooperazione tra mafiosi e soggetti esterni: i mafiosi fanno esplodere la bomba ma non si possono incaricare, dopo l’esplosione, anche di prelevare l’agenda perché è troppo pericoloso. Questo compito può essere assolto soltanto da soggetti insospettabili, perché hanno la veste istituzionale per andare sul luogo e fare questa operazione di prelievo… E poi il carattere selettivo dell’intervento perché nella borsa ce n’erano due agende: c’era l’agenda rossa e l’agenda marrone, ma l’agenda marrone viene lasciata lì dentro. Quindi non è un’operazione protocollare dei servizi: perché l’operazione protocollare dei servizi è che per esigenze di Stato si prende tutto e poi si vede. Invece l’agenda marrone viene lasciata e viene tolta l’agenda rossa.

Un’ulteriore prova del fatto che tutto avviene negli attimi immediatamente susseguenti allo scoppio è rappresentata, secondo Scarpinato, dagli strani movimenti che quel giorno fa l’allora capitano Giovanni Arcangioli: prende la borsa, fa qualche metro, e poi ritorna indietro rimettendo il tutto all’interno del mezzo le cui fiamme non sono state ancora del tutto domate. Perché?

 

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Il capitano Arcangioli prende la borsa dall’interno della macchina, percorre sessanta metri fino a raggiungere via Autonomia Siciliana e fin qui niente di strano: è un capitano… che prende la borsa che può consegnare ai magistrati, alla polizia… Quello che è inspiegabile è che il capitano Arcangioli ritorna indietro con la borsa… la macchina in quel momento ha un ritorno di fiamma… prende la borsa, la rimette nella macchina e la borsa non prende fuoco solo perché un vigile del fuoco getta l’acqua con la pompa. Il capitano Arcangioli non è riuscito a spiegare questo comportamento. Ha detto che ha aperto la borsa e che dentro non c’era niente: c’era un crest, un costume bagnato, alcuni fogli appuntati con una graffetta. I casi sono due: o mente o qualcuno era arrivato prima di lui. Comunque sia l’agenda viene sottratta nei pochi minuti susseguenti alla esplosione…

Non possiamo dare una risposta al quesito di Scarpinato, anche perché sulla posizione di Arcangioli, come è noto, si è già espressa l’Autorità Giudiziaria con sentenza di non luogo a procedere[74] dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra:

  • TINEBRA, già procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Posso dire che non abbiamo elementi per ritenere che sia stata sottratta e soprattutto per stabilire chi l’abbia potuta prendere. Posso affermare solo che non l’abbiamo trovata.

Il passo successivo sarà la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino.

 

IL PICCIOTTO DELLA GUADAGNA

Nella prima relazione sul depistaggio di via D’Amelio abbiamo provato a ricostruire il repertorio di forzature giudiziarie, contraddizioni investigative, reticenze e manifeste illiceità che caratterizzarono le prime fasi dell’indagine. Torneremo più avanti sul significativo ruolo d’indagine affidato, contra legem, al SISDE. Qui ci interessa approfondire alcuni passaggi che si sono rivelati determinanti nella costruzione del falso pentito Scarantino. Il primo ci porta sulle tracce di un altro detenuto, Vincenzo Pipino, mandato da La Barbera a raccogliere in carcere le confidenze di Scarantino; il secondo ci conduce a Pianosa, e agli strumenti di persuasione che in quel carcere vennero utilizzati senza alcun imbarazzo; il terzo ci porta da Spatuzza, collaboratore decisivo per smontare il teorema Scarantino, e proprio per questo destinato, nelle intenzioni di taluni, a non essere creduto né protetto; il quarto riguarda Giovanni Brusca e alcune sue anticipazioni profetiche su Scarantino. Un ultimo approfondimento riguarda Giuseppe Graviano, che di Spatuzza era il capo mandamento. E che su quei giorni e quei fatti conserva non solo memoria, ma anche – è assai probabile – segreti mai rivelati, e mai svelate verità.

 

 Vincenzo Pipino

Una delle prime significative tessere per imbastire il depistaggio su via D’Amelio passa da una cella del carcere di Venezia. Ed ha come protagonisti il questore di Palermo Arnaldo La Barbera e un detenuto dalla storia malavitosa non comune: si chiama Vincenzo Pipino, oggi ha 77 anni ed è un personaggio famoso, come dice la sua pagina Wikipedia, in versione italiana ed inglese. È stato autore di rocamboleschi furti di opere d’arte a Venezia, ha scritto libri sulle sue avventure di “ladro gentiluomo”, ha trascorso 26 anni della sua vita nelle carceri. Nel 1992 era a Rebibbia, accusato di gravi delitti, quando ricevette una “proposta” dal dottor La Barbera, che Pipino conosceva molto bene. Molti anni dopo raccontò quella storia al giornalista e scrittore Maurizio Dianese, che la pubblicò sul “Gazzettino” (“La pista Scarantino venne costruita a Venezia”) e lo convinse a testimoniare a Caltanissetta. Pipino andò, e tutti i magistrati caddero dalle nuvole, perché questa storia avrebbe dovuto rimanere segreta. Pipino raccontò di essere stato portato da Roma a Venezia per strappare confidenze a Scarantino appena arrestato e anche lui trasportato nel carcere del capoluogo veneto (nessun magistrato fu mai informato di questa operazione

 

Pianosa

Le carceri, come abbiamo finora avuto modo di vedere, sono uno dei passaggi cruciali nella costruzione del depistaggio[77]) avrebbe subito atti di “terrorismo… non solo mentale ma anche fisico” tali da convincerlo a diventare (come dice lui stesso) “il nuovo Buscetta”, dando corpo ed enfasi alle sue menzogne su via D’Amelio.

A Pianosa i boss di Cosa nostra vengono trasferiti d’urgenza già all’indomani della strage di via D’Amelio. È la prima reazione dello Stato italiano alla violenza del tritolo. Un ricordo quei momenti c’è stato consegnato dall’avvocato Genchi nel corso della nostra precedente inchiesta.

  • GENCHI, ex funzionario della Polizia di Stato. Io sono entrato dentro, credetemi: terribile, terribile. Io, per altro, avevo letto di Sandro Pertini, della detenzione in quel carcere. Stavano cercando di adattarlo. L’acqua non arrivava: mettevano dei tubi di polietilene per portare l’acqua volante nelle celle. I detenuti aspettavano tutti legati con le catene, le manette, in fila, fuori, al sole, il 20 luglio… la mattina del 20 luglio perché già alle 10 e mezza, le 11, eravamo là. Mi chiamano: «Dottore, dottore, un detenuto si è sentito male». Cade a terra, quasi svenuto, io lo riconosco subito, era Michele Greco.

Un mese dopo, agosto 1992, la situazione si fa ancora più incandescente. I legali dei detenuti cominciano a denunciare episodi di violenza e maltrattamenti all’interno della “Sezione Agrippa”. Questo il racconto che ne fa il giornalista Massimo Basile[79] a firma del dottor Rinaldo Merani, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Livorno, che di fatto conferma gli esposti presentati dai difensori dei reclusi:

Nel corso della permanenza in sezione si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate al rispetto della persona ed a princìpi di umanità… Si è altresì avuto notizia dell’uso di manganelli all’interno della sezione, evidentemente non in relazione a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’Ufficio da parte della Direzione: i manganelli sarebbero stati adoperati sia per sollecitare nelle gambe i detenuti negli spostamenti all’interno della sezione – da qui forse la necessità e l’accettazione di correre recandosi all’aria –, sia per effettuare veri e propri pestaggi in celle… Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose. Non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione. Si invitano pertanto le Autorità competenti ad approfondire la conoscenza dei fatti e soprattutto a vigilare ed esortare acché episodi del genere non si abbiano più a ripeter e la custodia sia esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla legge.

Parole, messe nero su bianco, che non si prestano ad interpretazioni riduttive. Il giudice di sorveglianza parla di metodi “non improntati al rispetto della persona ed ai princìpi di umanità”. Alla sua relazione si aggiunge, il 30 aprile 1993, un dettagliato dossier di Amnesty International[81].

Il 24 giugno 1994 Scarantino incomincia a collaborare. Sulla base della sua “confessione” un mese più tardi, in concomitanza con il secondo anniversario della strage di via D’Amelio, vengono effettuati una serie di arresti.

Per le indagini è la svolta: ovvero l’inizio di un lungo inganno. I toni, in quei giorni, sono molto enfatici. Queste le dichiarazioni rese all’indomani del blitz dall’allora questore di Palermo, Arnaldo La Barbera[83].

  • LA BARBERA, già Questore di Palermo. Io stesso sono andato un giorno ad arrestare Scarantino nella bottega di gesso di Profeta. I magistrati gli hanno contestato subito il concorso nella strage. È stato rinchiuso a Busto Arsizio e poi a Pianosa. Il 41 bis ha fatto il resto. Ci sono stati colloqui investigativi, ci sono stati interrogatori dei giudici, ma il 41 bis, il carcere duro insomma, secondo me è stato determinante per il suo pentimento.

***

  • BOCCASSINI, già magistrato. Senza la collaborazione del direttore di Pianosa, di tutti gli agenti a cui va il nostro ringraziamento totale, non sarebbe stato possibile gestire con Scarantino nel carcere di Pianosa gli eccellenti risultati che noi stiamo ottenendo.

Pianosa, insomma, è un set importante per questa vicenda. Ed è qui, a Pianosa, che la storia di Scarantino incrocia quella di Gaetano Murana.

Il suo nome, come quello di tanti altri, lo fa Scarantino. Lo accusa di aver partecipato alla fase esecutiva della strage del 19 luglio 1992. Murana verrà poi condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza passata in giudicato[85]

Del suo arresto, del suo soggiorno a Pianosa, il signor Murana ha voluto riferire, e non senza pena, dinanzi questa Commissione.

  • MURANA. Luglio ’94, la mia vita è finita! Si è distrutta! Tuttora la mia vita è distrutta! (…) Ho visto questa pattuglia borghese… mi hanno fermato. «Libretto e patente». Ho dato libretto e patente e mi hanno detto: «Si deve accomodare con noi in Questura». Dico: «vi portate la patente e il libretto… neanche per farmi perdere la giornata di lavoro…». «Non si preoccupi, due minuti, il tempo che arriviamo e può andare a lavorare». Siamo arrivati alla Squadra Mobile, mi sono trovato in una stanza con un mucchio di funzionari, poliziotti… Mi hanno chiesto di parlare della strage di via D’Amelio… Io ridevo: «È una presa in giro? Cosa volete da me? Avete sbagliato persona? Sicuramente avete sbagliato persona, io sono Murana Gaetano!».
  • FAVA, presidente della Commissione. Le è stato detto subito in quell’occasione che il suo accusatore era Scarantino?
  • MURANA, Sì, sì. «Scarantino ci ha fatto questo bel regalo». Io ridevo, io ridevo. Se non so nulla, ridevo… e giù schiaffi… alla Squadra Mobile mi hanno distrutto! Mi hanno distrutto!

Più passano le ore e più il netturbino dell’AMIA incomincia a rendersi conto che quel giorno non tornerà al lavoro.

  • MURANA. Io ero sicuro che appena mi interrogavano me ne andavo, uno che è innocente, non ha fatto nulla… Mi hanno interrogato, mica mi sono avvalso della facoltà di non rispondere! Siccome la dottoressa Boccassini mi ha detto «lei risponde?», c’era pure Tinebra, Petralia se non erro, ho detto: «certo che voglio rispondere”, «Scarantino le fa quest’accusa» e ho risposto: «c’è sbaglio»… si figuri che Scarantino non sapeva che macchina avevo io, pur essendo della stessa borgata, io avevo l’Opel e lui diceva che avevo la 127… Appena finisco l’interrogatorio, ho chiesto: «Me ne posso andare a casa?». Non la dimentico più l’espressione della dottoressa Boccassini… si gira verso di me e dice: «Murana, purtroppo ci sono indagini in corso, si deve accomodare in cella».

A Pianosa, Murana verrà tradotto dopo pochi giorni. Probabilmente, è ignaro del fatto che ad attenderlo c’è la sezione speciale chiamata Agrippa. Lui imparerà a conoscerla con un altro nome: Discoteca.

  • MURANA. Appena siamo arrivati a Pianosa mi hanno caricato in una jeep e siamo andati in una sezione che ha un soprannome, “Discoteca”, appena ho passato la soglia di questa sezione è iniziato il mio inferno, il mio calvario!
  • FAVA, presidente della Commissione. Perché?
  • MURANA. Botte dalla mattina alla sera, non si capiva, senza un motivo né nulla… Il primo giorno, il secondo giorno lo stesso. Dovevo passeggiare sempre. Appena mi vedevano seduto nella branda: «alzati, passeggia» …
  • FAVA, presidente della Commissione. Dentro la cella?
  • MURANA. Sì, sì. Una cella, un cubicolo. «Te lo dobbiamo dire noi quando ti devi fermare» … Ho perso la conta dei giorni… Gli indumenti, gli stessi di quando mi avevano arrestato, gli stessi, una magliettina giallina… Un giorno mi hanno massacrato, mi hanno massacrato!
  • FAVA, presidente della Commissione. L’hanno picchiata?
  • MURANA. Tutti i giorni. Mattina… notte quando stavo dormendo… «Ehi, che fa dormi? Sveglia!».

È possibile che nessuno si accorgesse di quanto stava accadendo?

  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Mah, guardi, io quando ho ricevuto la convocazione ho visto questo nominativo e, sinceramente, nella mia memoria non mi ricorda niente.
  • FAVA, presidente della Commissione. Scusi, Murana viene portato a Pianosa perché è imputato per la strage di Via D’Amelio, non può dirmi che il direttore del carcere di Pianosa non sapesse che uno degli imputati della strage di Via D’Amelio era ospite dell’istituto che dirigeva!
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Eh, Presidente, però sono passati trent’anni! Rispetto a questo che sento dire, queste accuse… io sono portato ad escluderle.

D’Andria non ricorda chi sia Gaetano Murana: ne prendiamo atto. Quello che resta da capire è come far coesistere fra loro le diverse e contrapposte versioni dei fatti.

  • FAVA, presidente della Commissione. Mi faccia riproporre questa domanda, perché il signor Murana non ci è sembrato un millantatore, semmai una persona piuttosto provata da 17 anni di reclusione ingiusta. Di questi anni trascorsi a Pianosa ci ha raccontato situazioni molto specifiche, con molti dettagli che difficilmente si possono inventare… Parla di cose che accadevano quando lei era direttore. Come è possibile che ci siano versioni così lontane? Murana che parla di pestaggi, manganelli, umiliazioni, e lei che ci dice: «non mi sono mai accorto di nulla».
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. A Livorno c’era un magistrato di sorveglianza molto, molto rigoroso nella sua azione di vigilanza, di controllo, ma anche di garanzia dei diritti delle persone ristrette… Se ci fosse stato un clima di illegalità, un clima come quello delineato, si può pensare che un magistrato di sorveglianza non avrebbe adottato dei provvedimenti? Quello che racconta il signor Murana delinea uno scenario che a me sicuramente non risulta… Diciamo che nelle carceri del sud c’era un tipo di gestione del circuito che era molto leggera, nel senso che… magari in quelle sedi, Napoli piuttosto che Palermo, venivano concesse determinate prerogative, certe cose.

Un diverso approccio alla disciplina penitenziaria tra nord e sud, ecco chiarito l’arcano. Ma il punto che interessa questa relazione non è tanto (o solo) il trattamento ricevuto in carcere da Murana e da altri detenuti. Il punto è capire se e come questa condizione carceraria a Pianosa sia servita a orientare le indagini su via D’Amelio nel comodo binario che suggerivano le rivelazioni di Scarantino. Per uscir di metafora, sentiamo cosa racconta lo stesso Murana.

  • MURANA. Dopo un periodo di tempo mi chiamano per un colloquio investigativo… mi hanno detto che era la DDA di Caltanissetta… c’era uno che io ho conosciuto, un magistrato del gruppo Falcone-Borsellino… Faccio questo colloquio investigativo… Dice: «Noi siamo qua, non si preoccupi, la sua vita cambierà… qui c’è il depliant… ora stesso la portiamo via, andiamo a prendere la sua famiglia. Lei si deve raccontare»
  • FAVA, presidente della Commissione. La proposta era di diventare un collaboratore di giustizia.
  • MURANA. Collaboratore di giustizia. Dissi: «non so nulla, non so nulla, che cosa volete da me?», «Andiamo, lei ancora è giovane, ha una moglie giovane, un bambino…». Gli ho detto: «senti, io non so nulla, a me dovete parlare di lavoro», e lui dice: «andiamo, guarda che belle ville, una valigia di soldi…». Dissi: «a me i soldi, le ville non mi interessano… io non consumo nessuno… sono innocente, non so nulla…». «Allora facciamo una cosa mi firma i verbali che ha fatto Scarantino». Dissi: «Perché gli devo firmare i verbali che ha fatto Scarantino. Mi faccia capire, le ho dette io o le ha dette Scarantino queste cose? Mica io gliel’ho detto… E allora perché devo firmare i verbali che ha fatto Scarantino?».  

È un fermo immagine importante nella lunga ricostruzione del depistaggio. Murana dice in Commissione che durante un colloquio investigativo gli fu chiesto di sottoscrivere le dichiarazioni di Scarantino. In cambio? Una vita nuova, per lui e per la sua famiglia, ville e soldi. Gli viene addirittura mostrato un dépliant.

  • FAVA, presidente della Commissione. A questo colloquio era presente il suo avvocato?
  • MURANA. No, all’impensata sono venuti, no, no, nessuno! Colloqui investigativi, dissero. Erano magistrati di Caltanissetta. «Allora, ci firma?», dissi: «io non firmo nulla. Io non so niente».
  • FAVA, presidente della Commissione. Cioè avrebbero voluto che lei firmasse le dichiarazioni di Scarantino.
  • MURANA. Di avallare…
  • FAVA, presidente della Commissione. …di avallare le dichiarazioni di Scarantino
  • MURANA. Esatto, bravo, sì, così. Poi gli dissi: «ma perché devo firmare? L’ho detto io? Scarantino può dire quello che vuole, io sto dicendo che sono innocente». Mi dissero: «andiamo Murana…».
  • SCHILLACI, componente della Commissione. Quanti erano questi magistrati?
  • MURANA. Parecchi.
  • FAVA, presidente della Commissione. Può anche darsi che non fossero solo magistrati… lei si ricorda, per esempio, di avere mai conosciuto il dottor La Barbera che era anche il capo di questo gruppo investigativo Falcone-Borsellino?
  • MURANA. La Barbera? Sì, quando mi hanno portato nel suo ufficio.
  • FAVA, presidente della Commissione. A Palermo.
  • MURANA. Sì, lì nel suo ufficio, quando mi massacrarono.
  • FAVA, presidente della Commissione. E c’era anche lui quando ci fu questo colloquio investigativo a Pianosa?
  • MURANA. No.
  • FAVA, presidente della Commissione. Non c’era.
  • MURANA. No, perché lo conoscevo per figura.
  • FAVA, presidente della Commissione. Solo magistrati della D.D.A. di Caltanissetta…
  • MURANA. Sì, sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però non ricorda come si chiamava.
  • MURANA. Non mi ricordo… A quest’ora l’avrei detto.
  • FAVA, presidente della Commissione. In quell’occasione lei con questi Magistrati della DDA di Caltanissetta parlò anche del trattamento che aveva ricevuto a Pianosa?
  • MURANA. No, no… Anzi quando me ne sono andato ho avuto la rimanenza. Come si dice in siciliano: “U riestu appi e mi ni ivu a discoteca”.
  • FAVA, presidente della Commissione. A questo colloquio investigativo assistevano anche personale…
  • MURANA. …della Polizia penitenziaria, sì!

Sul punto il dottor D’Andria è netto.

  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Lo escludo! I colloqui investigativi venivano svolti dal personale delegato dall’Autorità giudiziaria e si svolgeva in un ufficio con porte chiuse e, quindi, praticamente, con la non partecipazione del personale penitenziario.
  • FAVA, presidente della Commissione. Che questa sia la regola lo sappiamo. Le chiedevamo se, secondo lei, potesse esserci stata un’eccezione e, quindi, una presenza, come nel ricordo di Murana, anche di personale della Polizia penitenziaria.
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Io non ricordo niente di questo genere e sono portato ad escluderlo.

Murana sarà l’ultimo a lasciare Pianosa, il 17 luglio 1997 (poco dopo, infatti, la struttura chiuderà i battenti). Tornerà libero solamente nell’ottobre 2011 grazie alle confessioni di Gaspare Spatuzza. Dopo diciassette anni di detenzione!

 

Spatuzza

Gaspare Spatuzza è uno dei personaggi chiave di questa storia. “Reggente” della famiglia Graviano dopo il loro arresto, catturato a Palermo il primo luglio 1997, reo confesso subito dell’omicidio di don Pino Puglisi e del rapimento del piccolo Di Matteo, nel 2008 si autoaccusa anche del furto della Fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio. Ed è stata quest’ultima rivelazione a far crollare il “teorema Scarantino” che reggeva da 17 anni. Sempre in quel periodo si è scoperto, per caso, che Spatuzza aveva già reso – dieci anni prima – amplissima testimonianza davanti ai giudici Vigna e Grasso (all’epoca, capo e vice della procura nazionale antimafia) che lo avevano interrogato nel 1998 nel carcere di Tolmezzo. Alla fine di quel lungo colloquio investigativo, Spatuzza però si era rifiutato di firmare il verbale, rendendolo inutilizzabile e, di fatto, permettendo al “teorema Scarantino” e alla detenzione al 41 bis di molti innocenti di durare un altro decennio (ne abbiamo riferito ampiamente nella precedente relazione di questa Commissione[87], la Commissione centrale del Viminale che si occupava della definizione e dell’applicazione delle misure speciali di protezione, presieduta all’epoca dall’onorevole Mantovano, decide di revocare il programma di protezione nei confronti di Spatuzza.

  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Più che altro di non dargli un programma definitivo. Spatuzza aveva un programma provvisorio. Quando la Commissione si riunisce per valutare se dargli il programma definitivo, decide di non continuare il programma e quindi lui non ha più il programma di protezione, gli revocano quelli che sarebbero stati eventualmente i benefici, qualunque cosa. In sostanza decisero di non dargli un programma di protezione.
  • FAVA, presidente della Commissione. Il rilievo che fu mosso dalla Commissione fu che il riferimento a Berlusconi non sarebbe avvenuto all’interno dei 180 giorni, per questa ragione avrebbero revocato il programma[89].
  • FAVA, presidente della Commissione. Senta, sull’arresto di Spatuzza c’è un particolare che ci è stato riferito anche dal dottor Grasso, quando l’abbiamo ascoltato nel 2018. Grasso dice che Spatuzza gli spiegò, durante quel colloquio investigativo, fatto pochi mesi dopo l’arresto, “…io non avevo intenzione né manifestavo alcuna volontà di resistere all’arresto, eppure sono stato preso a ‘pistolettate’”[91]. Leggiamo:

La circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992”, svoltasi presso la DNA il 22.04.2009. Il motivo di quella riunione (…) era rappresentato dalla necessità di valutare l’opportunità di richiedere un programma speciale di protezione a favore dello stesso Spatuzza e dei suoi familiari. In quel verbale sono riportati due interventi del dottor Di Matteo.

Nel primo si legge: “Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che la collaborazione di Spatuzza, a suo giudizio, non è di particolare rilevanza (…)”.

Nel suo secondo intervento, sempre alla riunione del 22.04.2009, si legge: “Il dott. Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perchè le dichiarazioni di Spatuzza potrebbero mettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori della giustizia”Rileggere questi verbali oggi, con la consapevolezza di quale castello di menzogne si fosse costruito muovendo dalle dichiarazioni di Scarantino, è allarmante. Si ritiene di non dover concedere il programma di protezione a Spatuzza perché la sua collaborazione “non è di particolare rilevanza” e soprattutto perché “potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti”. Che è esattamente ciò che era accaduto. E che proprio Spatuzza stava aiutando a svelare. Non solo diciassette anni spesi ad inseguire e legittimare processualmente le fantasie d’un collaboratore di giustizia indottrinato, scegliendo di non fermarsi di fronte ad una incredibile progressione di contraddizioni (su cui abbiamo lungamente scritto nella precedente relazione); ma anche il tentativo di archiviare Spatuzza come un soggetto poco credibile, perfino dannoso nel momento in cui contribuisce a mettere in discussione verità ormai acclarate: il sospetto che quelle verità fossero una somma di mistificazioni continua ad essere un pensiero rimosso, fastidioso, dannoso. Che potrebbe gettare “discredito sulle istituzioni dello Stato”.

A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, se discredito si è accumulato, è proprio per quel depistaggio che, ieri come oggi, puntava a fornire una lettura rapida e confortevole (solo mafia!) sulla morte di un magistrato e di cinque agenti di polizia.

 

Brusca

Non meno incomprensibile è stata la scelta di non approfondire il giudizio che anche Giovanni Brusca esprime – giudizio netto, senza margini d’equivoco – su Scarantino. È il 23 gennaio 2004 e Brusca (collaborante a pieno titolo ormai da cinque anni) è ascoltato in un dibattimento in corso nell’aula bunker del carcere di Firenze dinanzi la Corte di Assise d’Appello di Catania, dove si stava svolgendo, a seguito del rinvio della Cassazione, il processo stralcio delle due stragi[93].

Brusca fa mettere a verbale in udienza che, a suo avviso, ci sono soggetti ingiustamente condannati a seguito delle dichiarazioni di Scarantino che per lui “è un pazzo”. Che cosa accade a questo punto? Nulla! Nessun approfondimento investigativo, nessuna richiesta a Brusca di spiegare da dove traesse il convincimento che Scarantino era un bugiardo e che i processi celebrati a partire dalle sue “rivelazioni” fossero una farsa. Scarantino mente, dice Brusca: e la cosa muore lì. Mancano ancora quattro anni all’inizio della collaborazione di Spatuzza. Le risultanze processuali su via D’Amelio resteranno in piedi continuando ad avere come perno dell’accusa le menzogne di Scarantino.

Come si spiega il fatto che uno dei pentiti più accreditati sia creduto per tutto ciò che ricostruisce ma ignorato nel momento in cui getta ombre pesantissime sulla credibilità di Vincenzo Scarantino? È un quesito che abbiamo girato al senatore Massimo Brutti.

 

  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. È possibile che accada quando ci sia l’interesse a coltivare la propria pista di indagine, a insistere nelle condizioni che sono maturate. Una delle motivazioni che ci siamo dati in questi anni per questo depistaggio, per questa vicenda orrenda di Scarantino, è che c’era l’ansia di realizzare un obiettivo, di far vedere…
  • FAVA, presidente della Commissione. Il risultato.
  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi   segreti.  L’ansia del risultato. Io non so se questo basti a spiegare…
  • FAVA, presidente della Commissione. Forse spiega, ma non giustifica.
  • BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. È chiaro che non giustifica. L’errore, in questo caso evidente, è che c’è la dichiarazione di un collaboratore (Giovanni Brusca, ndr.) che ha già reso dichiarazioni attendibili, che ha un programma di protezione deciso dalla Commissione: come mai non c’è un’attività di indagine sui possibili riscontri? Io non so dare risposta.

 

I Graviano

A 29 anni dalla stagione delle stragi – essendo morti, detenuti in carcere al 41 bis, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, considerati gli organizzatori della campagna per conto di Cosa Nostra; essendo latitante da 25 anni Matteo Messina Denaro, ultimo rappresentante dell’“era corleonese”, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano sono da una decina d’anni emersi come i principali depositari dei segreti di quel periodo storico.

La loro storia è abbastanza inusuale. Citati solo marginalmente dai grandi pentiti degli anni Ottanta (Buscetta, Contorno, Marino Mannoia) si comincia a parlare di loro verso fine secolo (per esempio Nino Giuffrè li indica come notoriamente legati ai Servizi) e per le rivelazioni di Gaspare Spatuzza.

I Graviano, si scopre, appartengono ad un’antica e molto ricca famiglia di mafia, e controllano il quartiere Brancaccio, noto come la “zona industriale” di Palermo, in cui hanno compiuto importanti investimenti edilizi. Il capofamiglia Michele Graviano (possidente, a capo di molte attività economiche di grande valore, dal commercio di frutta e verdura, all’edilizia, all’export internazionale, titolare di pacchetti azionari) viene ucciso nel 1982, agli inizi della guerra di mafia che contrappone Bontade-Inzerillo a Riina e i suoi corleonesi. A compiere l’omicidio è Gaetano Grado. A reggere la famiglia viene chiamato Giuseppe Graviano, che ha appena vent’anni. Questi si dimostra molto intraprendente e in grado compiere scelte radicali, prima fra tutte quella di spostare tutti gli affari di famiglia fuori da Palermo, al nord Italia, in Francia e in Svizzera. Lui stesso, latitante dopo una condanna al maxiprocesso, prende di fatto la sua residenza ad Omegna (Novara), sul lago d’Orta, a partire dal 1991.

Insieme al fratello Filippo e alle rispettive fidanzate, Giuseppe Graviano viene arrestato dai carabinieri a Milano nei giorni della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Da allora i due fratelli sono in carcere al 41 bis.

Il loro nome divenne conosciuto a livello nazionale il 15 settembre 1993 quando, nel quartiere Brancaccio, venne ucciso padre Pino Puglisi, in un delitto che non aveva precedenti in Italia. Le fotografie dei fratelli Graviano, indicati immediatamente come mandanti del delitto, furono mostrate in televisione e campeggiavano su tutti i quotidiani. Ricercati, irreperibili…. E invece i due fratelli circolavano tranquillamente, senza travestimenti e senza protezione, nel piccolo paese di Omegna.

Dopo il loro arresto – quattro mesi dopo, a Milano – cominciarono a circolare le prime voci del loro coinvolgimento sia nella strage di via D’Amelio che nelle stragi continentali. La procura di Firenze, esaminando i telefonini del clan e raccogliendo le prime testimonianze sulla loro latitanza, fece giganteschi passi avanti nell’investigazione. Nel 1997 venne arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano; come sappiamo, Spatuzza confessò immediatamente l’omicidio di don Puglisi e la sua partecipazione sia alle stragi di Capaci e via D’Amelio, che a quelle continentali. Disse di aver fatto tutto questo su ordine di Giuseppe Graviano, per cui nutriva autentica “devozione”.

Perché chiamare in causa i Graviano in questa indagine sul depistaggio di via D’Amelio? Perché a quella strage sono intimamente legati il destino di Totò Riina e la sua strategia eversiva (di cui abbiamo riferito nel primo capitolo di questa relazione), molto più articolata d’un semplice movente affidato alle ragioni della vendetta mafiosa. Ma c’è altro: la cattura di Riina, ciò che lo precedette (l’arresto di Balduccio Di Maggio), le soffiate raccolte e smistate a chi di dovere. E qui entrano in scena, nuovamente, i fratelli Graviano. Questo il racconto che di quei giorni fa Enrico Deaglio nel suo libro “Patria 2010-2020[95]

Tre riserve. Che – come sappiamo – vengono rapidamente superate. Il SISDE scende in pista nell’inchiesta su via D’Amelio accanto alla Procura di Caltanissetta. Anzi, per conto di quella Procura. Vediamo come.

 

  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE.Ecco perché poi ebbi contatti con il capo della squadra mobile di allora di Palermo, Arnaldo La Barbera, lo invitai a venire nell’ufficio del Sisde a Palermo, credo due o tre giorni dopo. Poi telefonai al generale Antonio Subranni, che era il comandante del ROS dei Carabinieri e che conoscevo benissimo, eravamo anche amici perché avevamo passato tanti anni di servizio insieme a Palermo… Lui mi disse che a Palermo della strage se ne occupava anche il ROS, nella persona del maggiore Obinu. Contattai Obinu e lo invitai anche a venire al centro del Sisde di Palermo per riferire qual era stato il mio colloquio con il Procuratore della Repubblica…
  • FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, ma contattò anche i suoi superiori gerarchici, all’interno del Sisde, per far sapere di questa proposta e per essere autorizzato alla collaborazione?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Lo dissi pure al Procuratore della Repubblica, tra le varie obiezioni che avevo fatto, che avrei dovuto avere il beneplacito, il placet, dei miei superiori diretti. Erano tre: il direttore del Servizio, Prefetto Alessandro Voci; il vicedirettore operativo, Prefetto Fausto Gianni; il capo del terzo reparto da cui dipendeva il mio ufficio, dirigente generale della Polizia di Stato, Franco Di Biasi… Questo glielo dissi al Procuratore ed insistetti principalmente non con il prefetto Voci, il direttore generale del Sisde, ma con il suo vice con cui avevo maggiori rapporti, il prefetto Fausto Gianni, perché una volta avuto il beneplacito del direttore venisse a Palermo e parlasse anche lui con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta.
  • FAVA, presidente della Commissione. Le dissero i suoi superiori se di questa proposta di collaborazione era stato informato anche l’esecutivo, cioè il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Assolutamente no, non me lo dissero né si è parlato di questo argomento. L’unica cosa che il Prefetto Gianni non era molto entusiasta di venire giù a Palermo…
  • FAVA, presidente della Commissione. Quando ci fu questo incontro con il Procuratore Tinebra?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Glielo dico subito, anche l’orario, perché ho la mia agenda… Il 24 luglio, ore 9.30, aeroporto Punta Raisi, arrivo Prefetto Gianni, dottor Sirleo, dottor Sergio Costa da Roma… Poi Caltanissetta, dal Procuratore della Repubblica Tinebra, presenti anche il dottor Antonio De Luca, il dottor Ruggeri, il dottor Narracci. Ruggeri è il capo centro (della Sicilia, ndr.), Narracci era il vice e De Luca era un vecchio funzionario della Squadra mobile ed era il capo centro di Catania. Venne anche lui.
  • FAVA, presidente della Commissione. Sulla sua agenda, poi acquisita agli atti del processo che la vide imputato, c’è scritto “colloquio su indagini, stragi Falcone e Borsellino”.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Questo argomento di questo termine, ‘indagini’, è stato oggetto di una lunga disquisizione, come dire: «ma allora tu hai fatto indagini?». È un termine inappropriato parlando dell’attività informativa del servizio, dipende anche dalla mia deformazione professionale, ogni attività in questo campo per me è un’indagine.
  • FAVA, presidente della Commissione. I suoi colleghi del Sisde. C’erano altri PM della Procura assieme al Procuratore Tinebra a quell’incontro?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Sì, ce n’erano perlomeno due, però non so indicare, uno sicuramente doveva essere il dottor Petralia, l’altro non lo so chi era… Invece poi nella colazione di lavoro lo stesso giorno, all’hotel San Michele… io pretesi che i miei vertici fossero presenti… Non volevo farla apparire come una mia, come dire…
  • FAVA, presidente della Commissione. Una sua iniziativa.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Una cosa personale, non avendone nessun titolo…. Dissi al Procuratore della Repubblica: «noi in aderenza a quelli che sono i compiti del Servizio possiamo svolgere attività informativa. Io ritengo che allo stato sia opportuno attingere quante più notizie, informazioni sui gruppi di mafia che possono avere avuto una parte in queste azioni efferate di criminalità…».
  • FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, dottor Contrada, ma questo tipo di attività anche informativa di ricostruzione del contesto mafioso e delle famiglie palermitane che potevano essere coinvolte nelle stragi non sarebbe stato più naturale che fosse una delega investigativa per la polizia giudiziaria? Per quale ragione il Procuratore di Caltanissetta doveva chiedere al Sisde un’attività che avrebbe potuto svolgere, forse con più strumenti, la polizia giudiziaria?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Non è stato il Procuratore della Repubblica che ha chiesto di svolgere questa attività informativa, è stata una mia idea che ho prospettato al Procuratore… Io non credo che avrei potuto dire al Procuratore di Caltanissetta, che in quel momento iniziava la sua opera per questi fatti così gravi, “per avere informazioni rivolgiti ad altri”! Non me la sentivo di dire, in quel momento, “sono affari che non mi riguardano”.
  • In realtà esistevano “altri” corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta. E che invece avrebbe ben potuto svolgere il lavoro di raccolta d’informazioni e di profiling criminale che si intestò il SISDE. Com’è potuto accadere? Lo abbiamo chiesto all’allora ministro della Giustizia Martelli, all’allora ministro degli Esteri Scotti (ministro dell’Interno fino a qualche settimana prima) e al dottor Ingroia, stretto collaboratore di Paolo Borsellino.
  • MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Beh, che sia stato possibile lo apprendo da lei adesso… Era stata già istituita la DIA el’Agenzia aveva riunificato dentro di sé, in posizioni paritarie per evitare di suscitare gelosie, i reparti di intelligence dei carabinieri, della polizia di Stato, della guardia di finanzae dunque semmai era alla DIA che il dottore Tinebra avrebbe dovuto rivolgersi per averne collaborazione… Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini. Anche qui, se si guarda a quello che è successo dopo, e che non sorprende, siamo semprein quella catena di omissioni, di responsabilità e forse di peggio che comincia con la mancata protezione di Borsellino.

***

  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io sono stato contrario, nettamente, a tutte queste forme particolari di indagine e di investigazione, cioè devono esserci i corpi dello Stato e la DIA era stata pensata come un corpo dello Stato, non come un corpo di ‘emergenza’. C’è uno scritto di Falcone su questo, quando lui dice che ad ogni uccisione, strage o azione, viene subito riproposto di costituire un organismo ad hoc, lui dice che questa non è una cosa corretta e funzionale alla lotta alla mafia. Ne discutemmo con Falcone ed io aderii alla sua posizione: ho una diffidenza ed una ostilità a queste strutture speciali perché non consentono mai di avere chiarezza necessaria per controllare quello che si fa e a chi si risponde.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei era Ministro degli Esteri il 19 luglio. Ci fu un momento in cui in Consiglio dei Ministri, vista la gravità e l’atrocità di quello che era accaduto, alcune scelte vennero discusse insieme? Penso, ad esempio, alla decisione di creare questo corpo speciale di investigazione: se ne parlò mai all’interno del Consiglio dei Ministri?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io non ricordo se ci fu una discussione specifica in Consiglio dei Ministri, può darsi… Tra l’altro io ero a Bruxelles quella domenica sera perché lunedì mattina avevo una riunione con i Ministri degli Esteri. Fui raggiunto in ambasciata dalla troupe della Rai.. ed io dissi che quello era il segno che non potevamo più giocare nella lotta alla mafia: o c’era una strada o non c’era. Ebbi una telefonata cui mi si chiedeva di non interferire in quanto non più Ministro dell’Interno.
  • FAVA, presidente della Commissione. Chi la chiamò?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Il mio capo di Gabinetto, il quale era stato incaricato di dirmi questo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Era stato incaricato da chi?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Non lo so.
  • FAVA, presidente della Commissione. Non chiese al suo Capo di Gabinetto chi lo aveva sollecitato a farle quella telefonata?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Misi il telefono giù.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ma qual è, secondo lei, la ragione di questa sollecitazione, cioè “fai il Ministro degli Esteri, non sei più Ministro dell’Interno”? Cos’è che preoccupava di ciò che lei aveva dichiarato?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io l’ho presa in termini buoni, cioè non volevano confusioni.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo di confrontarsi col nuovo Ministro dell’Interno, Mancino, sulle scelte investigative?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Mai.
  • FAVA, presidente della Commissione. Esistevano sul campo altre strutture investigative,diciamo, “normali che avrebbero potuto lavorare al fianco della Procura di Caltanissetta su quelle indagini?

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  • INGROIA, già magistrato. Ovviamente. Innanzitutto, la DIA, la Direzione investigativa antimafia.
  • FAVA, presidente della Commissione. Che invece venne esclusa.
  • INGROIA, già magistrato. Venne esclusa da Caltanissetta. All’epoca il capo della DIA era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino. E che poi, come vedremo nelle indagini successive, percepì alcuni temi che, evidentemente, a Tinebra non interessava coltivare, compreso quello della cosiddetta trattativa Stato-mafia.
  • Torniamo al dottor Contrada. E alle indagini del SISDE su procura di Tinebra.
  • FAVA, presidente della Commissione. Poi che accadde dopo gli incontri con Tinebra?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Misi al corrente il dottor Arnaldo La Barbera.
  • FAVA, presidente della Commissione. Era presente anche il dottor La Barbera a quell’incontro?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. No, non c’era. La Barbera non aveva ancora costituito il gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, era solo il capo della Squadra mobile di Palermo. Io avevo detto al dottor Tinebra che avrei informato di questa nostra attività i due organi di Polizia giudiziaria, la PS e i Carabinieri, cioè il dottor La Barbera e il maggiore Obinu per l’Arma dei Carabinieri.
  • FAVA, presidente della Commissione. E quando parlò con La Barbera di questa ipotesi di vostra collaborazione?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Qualche giorno dopo. Una volta costituito il mio gruppo di lavoro… perché per fare questa attività informativa dovevo costituire un gruppo di lavoro. Da tenere presente che il SISDE si occupava quasi esclusivamente di terrorismo politico, Brigate rosse… tranne qualche ufficiale dei Carabinieri non c’era alcun funzionario di grande esperienza di lotta alla mafia…
  • FAVA, presidente della Commissione. Nel SISDE non c’era. Quindi come fa ad organizzare questo gruppo di lavoro? Con chi lo organizza?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Scegliendo due o tre elementi del Centro SISDE di Palermo e poi siccome occorreva qualcuno che avesse conoscenza delle famiglie di mafia che si ha sul campo o sulle carte, sulle carte c’era un ottimo funzionario di Polizia, Carmelo Emanuele, che era il responsabile dirigente dell’ufficio “misure di prevenzione”.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quindi non era aggregato al SISDE?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. No, lui era sempre dipendente come funzionario di Pubblica sicurezza della Questura di Palermo, però faceva servizio al Gabinetto dell’Alto commissario.
  • FAVA, presidente della Commissione. Diciamo quindi questo gruppo di lavoro che si costituisce attorno a lei non è formato solo da funzionari del SISDE, ma anche personale di Polizia giudiziaria in qualche modo aggregato.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Ha sede all’ufficio del centro SISDE di Palermo. D’accordo col colonnello Ruggeri, che non volevo esautorare, si costituisce questo gruppo, con alcuni dipendenti del Centro SISDE di Palermo, con la supervisione del capo centro e del vice che era Lorenzo Narracci. In più ritengo di far venire due funzionari del servizio, uno che faceva servizio a Padova e un altro a Firenze, quello di Padova era il dottor Paolo Splendore, anche lui ufficiale di complemento dei Carabinieri che aveva lavorato con me nell’ufficio dell’Alto commissario, e un altro di Firenze, Carlo Colmone, che era un consigliere di Prefettura passato al SISDE.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ci può raccontare come si definisce il vostro accordo di lavoro col dottor La Barbera quando vi incontrate?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Fu l’unico incontro che ho avuto col dottor La Barbera. Se altri hanno avuto incontri con lui io non lo so e non ne sono stato messo al corrente, né io ho cercato di avere incontri con lui dopo questo giorno. Quindi quello fu l’unico incontro da cui io capii che questo mio intervento, in un settore che lui riteneva di sua esclusiva competenza di polizia giudiziaria, non gli andasse troppo per il verso giusto.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quanti altri incontri ci furono col dottor Tinebra in quelle settimane, in quei mesi?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Tre. La prima il 20 luglio al Palazzo di Giustizia di Palermo, la seconda il 24 luglio all’hotel San Michele…
  • FAVA, presidente della Commissione. Ce n’è stata un’altra, molti mesi dopo.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Il 19 ottobre. A Caltanissetta, con Ruggeri, per questioni di indagini.
  • FAVA, presidente della Commissione. Chi c’era a questo terzo incontro? Dei magistrati dico.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Tinebra, Petralia… i sostituti credo che fossero più di due perché a tavola eravamo per lo meno una quindicina di persone.

La legge all’epoca vigente (la n. 801 del 24 ottobre 1977), così come l’attuale (la n. 124 del 3 agosto 2007), era estremamente chiara nel vietare qualunque rapporto diretto fra servizi segreti e magistratura inquirente. Eppure dopo la strage di via D’Amelio, come abbiamo avuto modo di approfondire dettagliatamente nella nostra prima relazione, a Caltanissetta quel divieto si aggira sfacciatamente.

Avremmo voluto chiedere al professor Giuliano Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, e dunque l’autorità a cui rispondevano funzionalmente i nostri servizi di intelligence, se ebbe mai sentore di questa collaborazione così impropria. Il professor Amato ha ritenuto di declinare l’invito di questa Commissione[97], chiese alla direzione come doveva comportarsi. Ecco perché questa passeggiata a Caltanissetta del 19 ottobre in cui vado con il colonnello Ruggeri per parlare con il Procuratore della Repubblica e dissi ancora una volta che noi non potevamo avere questi rapporti diretti, sia pure epistolari, li avremmo potuti avere tramite la Polizia giudiziaria, difatti ci sta uno dei miei viaggi a Caltanissetta dove, dopo aver parlato con il Procuratore Tinebra, io vado in Questura a parlare con il Questore, che era il dottore Vasquez… Che poi su questo Scarantino c’erano due cose da riferire: una che era parente di un mafioso, che era Profeta. E poi un lontanissimo, ma quasi inesistente, labilissimo rapporto di parentela acquisito con i Madonia…

Raccontata così, quello del SISDE sembrerebbe un contributo davvero marginale: Scarantino è parente di un mafioso (Profeta) e lontanamente legato ai Madonia. Punto. Eppure, è proprio a partire da questa scheda che la caratura criminale di Scarantino e la sua attendibilità come testimone diretto della strage crescono rapidamente: nonostante ancora oggi il dottor Contrada cerchi di minimizzare quel contributo.

  • FAVA, presidente della Commissione. Sul contributo del SISDE, leggo dalla sentenza di primo grado del processo che la riguarda, ci sono due letture differenti. Dice la sentenza “L’imputato – in questo caso lei – ha tentato di evidenziare l’importanza, se non addirittura la decisività, del suo contributo offerto all’autorità giudiziaria per quelle indagini”. Versione seccamente smentita dal dottor La Barbera che ha parlato di un “mero scambio di opinioni”.
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Quando La Barbera dice che non ho dato nessun contributo essenziale per le indagini, dice la verità. Io nella mia qualità, nella mia posizione, che contributo potevo dare se non potevo fare indagini? Il contributo lo può dare chi può fare indagini, non chi non le può fare.

La collaborazione tra il SISDE e la Procura di Caltanissetta ha vita breve. Alla vigilia del natale 1992 Bruno Contrada viene tratto in arresto ed accusato di concorso esterno in associazione mafiosa[99]: ovvero, se costituisca un possibile fattore di accelerazione del proposito stragista nei confronti di Paolo Borsellino o, invece, un’indagine del tutto neutrale in tale prospettiva (pur mantenendo aspetti di straordinaria rilevanza nell’ambito di altri giudizi).

Fra le priorità di questa inchiesta vi è quella di comprendere, semmai, se vi siano punti di contatto tra questa vicenda (nel suo complesso) e il depistaggio subito dalle indagini su via D’Amelio.

Il rapporto dei Carabinieri è argomento di controversia già in vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per una migliore intelligenza espositiva, ne ripercorriamo in sintesi la genesi[101] nei confronti di Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, accolta dal GIP il 9 luglio. Più o meno nello stesso periodo, il 26 luglio 1991, viene contestualmente delegata ai ROS un’ulteriore attività investigativa riguardante la società regionale Sirap Spa. Nel periodo antecedente alla richiesta di misure cautelari di giugno, però, accade qualcosa di strano. La stampa comincia ad avanzare pesanti critiche sull’operato della procura di Palermo, parlando di fratture con i vertici dell’Arma e, addirittura, di presunti “insabbiamenti” delle indagini riguardanti nomi eccellenti della politica. Eppure, come spiegheranno i magistrati palermitani, quei nomi nel dossier non ci sono[103].

Crolla a Palermo il rapporto di fiducia fra Procura della Repubblica e carabinieri. C’è una frizione sotterranea che forse non sfocerà in una «guerra» ma che avvelena un’altra estate siciliana trasformando quello della lotta alla mafia in un terreno paludoso, impraticabile. Siamo all’epilogo di incomprensioni che vengono da lontano. Il punto di rottura e l’ultimo rapporto dei carabinieri sul mercato degli appalti in Sicilia. Novecento pagine presentate in Procura il 16 febbraio di quest’anno, rimaste senza seguito fino alla scorsa settimana quando ormai fra inquirenti, giornalisti ed uomini politici circolavano robuste indiscrezioni su intercettazioni e reati anche con riferimento a diversi uomini politici poi risultati estranei al provvedimento con cui la magistratura ha ristretto l’operazione all’arresto di cinque imprenditori ed intermediari mafiosi. «Sembra che ciascuno lavori per obiettivi diversi» rimugina un ufficiale… I messaggi cifrati sono gli Scud e i Patriot di una guerra non dichiarata. Il procuratore Pietro Giammanco preferisce non incontrare i cronisti. I carabinieri scalpitano, convinti di aver messo le mani su un gruppo che rappresenta direttamente il vertice di Cosa Nostra intrattenendo rapporti con dirigenti ed amministratori di grandi aziende nazionali collegate soprattutto a DC e PSI… Le indagini vanno avanti. A gennaio del 1992 c’è una nuova richiesta di ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Rosario Cascio e Vito Buscemi[105]. Infine, a marzo, viene chiesto il rinvio a giudizio per sei imputati: Angelo Siino, Alfredo Farinella, Alfredo Falletta, Giuseppe Li Pera, Rosario Cascio e Vito Buscemi. Per tutti gli altri indagati – tra i quali Claudio De Eccher, Giuseppe Lipari. Antonio Buscemi e Paolo Catti De Gasperi – si chiede invece l’archiviazione[107]

***

  • PIGNATONE, già magistrato. La relazione l’ha fatta Lo Forte, dopo che avevano depositato l’archiviazione. In questa riunione, Borsellino non fece nessun rilievo. [109]

***

  • PATRONAGGIO, Procuratore della Repubblica di Agrigento. Prima della riunione di martedì 14 luglio 1992… io non avevo cognizione diretta delle divergenze e delle spaccature… mi stupisce ancora di più quando il collega Borsellino chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza su determinati processi… si informa… chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo ed altri, e capisco che qualche cosa non va… In buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici di un certo peso entravano per un mero accidente… [111].

Sembrano essere esistite due versioni dell’informativa mafia-appalti, e precisamente:  una versione ufficiosa, oggetto di indiscrezioni giornalistiche e di illecite fughe di notizie, contenente specifici riferimenti ad esponenti politici di importanza nazionale, ed in particolare agli onn. Salvo LIMA, Rosario NICOLOSI e Calogero MANNINO;  una versione ufficiale, quella consegnata il 20 febbraio 1991 nelle mani del dott. Giovanni FALCONE, allora Procuratore Aggiunto a Palermo; versione priva del benché minimo riferimento ai suddetti esponenti politici.

(…)

• Chi poteva avere insieme la possibilità e l’autorità di epurare l’informativa, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino, Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla Procura di Palermo?

• Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni?

A distanza di ventidue anni abbiamo rivolto la stessa domanda al procuratore generale Scarpinato.

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando noi abbiamo l’informativa, nel febbraio ’91, non sappiamo che c’è una intercettazione tra Lima e un soggetto coinvolto negli appalti. Viene ucciso Lima, i Carabinieri non ci dicono niente, non ci dicono che esiste una intercettazione che riguarda Salvo Lima neppure dopo l’omicidio. Questa cosa come si spiega secondo lei? Nell’informativa del 1991, ben 900 pagine, non si citano queste intercettazioni: spuntano soltanto nel settembre del 1992 dopo che ci sono stati gli articoli di stampa in cui dice che la Procura di Palermo è insana… Cosa hanno fatto i Carabinieri? Quale è la scelta che hanno fatto? Io, sinceramente, questo non lo so. Quello che è inammissibile è che da parte di alcuni si spaccia l’archiviazione temporanea con l’archiviazione dell’inchiesta, tutta, che è un falso perché l’inchiesta non fu mai archiviata, continuò[113]. È l’atto giudiziario che mette la parola fine allo scontro che il giornalista Felice Cavallaro racconta così in un suo pezzo[115]. Sennonché, paradossalmente e stranamente, i suddetti tre giudizi hanno prevalso sugli altri, suggellando, apparentemente in modo irreversibile, l’attendibilità oggettiva e soggettiva di Scarantino, Andriotta e degli altri collaboratori a questi due collegati, riconosciuti, invece, successivamente e questa volta veramente in modo definitivo come falsi.

Oggi, dunque, per una esauriente – almeno dal punto di vista dello sviluppo processuale – comprensione dei fatti, diventa ancor più stringente distinguere nettamente il piano extraprocessuale (riguardante le complessive iniziative ed attività investigative scandite nei vari passaggi da molte ombre, buchi neri, deviazioni, depistaggi, forzature e interventi contra legem dei servizi segreti) da quello strettamente processuale, intendendo con ciò esclusivamente richiamare i molteplici processi celebrati e i loro esiti. In tale ultimo contesto, come è noto, è confluito il feticcio Scarantino, costruito ad arte, con il suo seguito (Andriotta, Candura eccetera).

Tale feticcio è stato servito costantemente come un monolito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta dell’epoca alle Corti di Assise di primo e secondo grado che hanno trattato i processi relativi alla strage, indicandolo come fattore probatorio imprescindibile per la ricostruzione dei fatti e la individuazione dei colpevoli.

Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. D dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni.

Diventa allora inevitabile, oltre che doveroso, chiedersi e cercare di approfondire come sia stato possibile che il giudizio di secondo grado del Borsellino bis si sia concluso con la sentenza del 18 marzo 2002 che, in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, condannava Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano per il delitto di strage sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, di Andriotta e degli altri, confermando per il resto la condanna nei confronti di Scotto Gaetano.

Sentenza che a sua volta, circostanza questa difficilmente spiegabile e si vedrà il perché, veniva confermata dalla Cassazione con decisione del 3 luglio 2003 e, pertanto, passava in giudicato, sancendo la condanna definitiva degli imputati, chiamati in correità da Scarantino, dichiarati colpevoli di strage. Sentenze, quella di merito e quella di legittimità, entrambe travolte dal giudizio di revisione conclusosi come si è anticipato con sentenza del 13 luglio 2017 che proscioglieva definitivamente dal reato di strage gli stessi imputati chiamati in correità da Scarantino.

In tutti i processi celebrati anteriormente alla richiamata decisione del 2002 effettivamente, allora, non erano mai emersi circostanze o elementi idonei a sconfessare e smascherare i falsi collaboratori?

La risposta, drammatica, deve essere di segno negativo. Si vuol dire, cioè, che in verità fin dalla sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), se non addirittura dal dibattimento di primo grado (’95-’96), furono acquisiti tutta una serie di dati inconfutabili, adeguatamente valorizzati, i quali molto tempo prima della citata pronuncia del 2002 avevano messo in seria discussione le propalazioni di Scarantino, arditamente versate nei processi.

Segnatamente, in tale stesso arco temporale, e cioè antecedentemente al 3 luglio del 2003, data della decisione della Cassazione che segna il passaggio in giudicato la più volta richiamata sentenza di secondo grado del Borsellino bis del 18 marzo 2002, confermativa della ricostruzione della strage come escogitata attraverso l’irruzione nel processo del falso pentito Scarantino, erano intervenute ben due sentenze della stessa Cassazione e quattro di merito di segno decisamente opposto.

Decisioni tutte che, appunto, avevano espressamente e radicalmente stigmatizzato le dichiarazioni del picciotto della Guadagna come inattendibili.

Così la sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), confermata pienamente dalla Cassazione con sentenza del 19 gennaio 2001, stabilisce che le propalazioni di Scarantino, tranne il residuo segmento relativo al furto, sono inattendibili. Tant’è che viene confermata l’assoluzione degli imputati Giuseppe Orofino e Pietro Scotto dal delitto di strage.

Parimenti, con sentenza del 13 febbraio 1999, la Corte di Assise di Caltanissetta, nel processo c.d. “Borsellino bis” assolve gli imputati chiamati in correità da Scarantino (Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano) dal delitto di strage asseverando la inattendibilità delle dichiarazioni rese dallo stesso e degli altri collaboratori sul loro conto perché prive di riscontri.

Ma non basta. Nel processo Borsellino cosiddetto ter primo grado, benché tra gli imputati non figurassero quelli chiamati in correità da Scarantino, venivano comunque analizzate e valutate le dichiarazioni accusatorie dello stesso e in ordine ad esse la Corte di Assise, con sentenza del 9 dicembre 1999, depositata il 9 marzo 2000, le riteneva espressamente “inutilizzabili” per la ricostruzione dei fatti e la individuazione delle responsabilità in ordine alla strage, in quanto “inattendibili intrinsecamente ed estrinsecamente”. L’impianto di detta sentenza, ivi compreso, quindi, il giudizio distruttivo sulle dichiarazioni di Scarantino veniva definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2003, dunque anteriore rispetto alla sentenza della stessa Cassazione del 3 luglio 2003 che, al contrario, come si è visto, aveva valutato totalmente attendibili le propalazioni di Scarantino e degli altri collaboratori a lui legati.

In realtà, e in disparte, altri due fattori, il primo addirittura del 1994 (giugno-settembre), il secondo di poco successivo del gennaio 1995, avevano proiettato consistenti ombre sulla credibilità di Scarantino, sia quanto al profilo criminale, sia con riferimento al contenuto delle sue dichiarazioni.

Per l’appunto, l’avvocato Luigi Ligotti, uno dei primi difensori di Scarantino, sentito il 6 marzo 2019 dalla Procura della Repubblica di Messina nell’ambito del procedimento nei confronti del dottor Petralia e della dottoressa Palma[117].

Assai meno discutibile, è il secondo fattore. Il 13 gennaio 1995 i pubblici ministeri di Caltanissetta decisero di effettuare un confronto – peraltro irrituale, essendo in corso il dibattimento del Borsellino1 primo grado – tenutosi a Roma tra Scarantino ed i collaboratori Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Il confronto si rivelò devastante per il primo, giacché i tre collaboratori ne smentirono le propalazioni e, in particolare, esclusero di aver partecipato alla fantomatica riunione operativa tenutasi nella villa di Giuseppe Calascibetta, qualche giorno prima della strage, come sostenuto da Scarantino


[2] Cfr. sul punto Corte di Assise di Caltanissetta, sentenza Borsellino Quater, 20 aprile 2017,pp. 787 e ss.: «L’aspetto appena menzionato si colora di tinte decisamente fosche, alla luce di quanto riferito da Gaspare Spatuzza (in maniera assolutamente attendibile, come si vedrà -diffusamente- nella parte della motivazione a ciò dedicata), sulla presenza di un terzo estraneo a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126, alla vigilia della strage, nel garage di via Villasevaglios, prima del suo caricamento con l’esplosivo. Su detta persona, non conosciuta e mai più rivista, che non aveva proferito alcuna parola, durante la breve permanenza del collaboratore nel suddetto garage, sabato 18 luglio 1992, Gaspare Spatuzza si spingeva a qualche considerazione relativa all’estraneità al sodalizio mafioso di Cosa nostra e, persino, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni: “se fosse stata una persona che io conoscevo (…), sicuramente sarebbe rimasta qualche cosa (…) più incisiva; ma siccome c’è un’immagine così sfocata (…). Mi dispiace tantissimo e aggiungo di più, che fin quando non si sarà chiarito questo mistero, che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c’è questa anomalia di cui per me è inspiegabile”. “C’è un flash di una sembianza umana. (…) c’è questa immagina sfocata che io purtroppo… (…) c’è questo punto, questo mistero da chiarire”; “ho più ragione io a vedere questo soggetto in carcere, se appartiene alle istituzioni, che vedendolo domani fuori”. Peraltro, quest’ultimo spunto del collaboratore di giustizia, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni del terzo estraneo, presente alla consegna della Fiat 126, nel pomeriggio di sabato 18 luglio 1992, prima del caricamento dell’esplosivo, veniva approfondito dalla Procura, nella fase delle indagini preliminari di questo procedimento, sondando ulteriormente Gaspare Spatuzza, e anche sottoponendogli diversi album fotografici, con immagini di vari appartenenti al Sisde, senza approdare a risultati tangibili». Sul punto cfr. pure Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, sentenza Borsellino Quater, 15 novembre 2019, p. 208.

  • [4] Cfr. Corte di Assise di Reggio Calabria, sentenza ‘ndrangheta stragista, 21 luglio 2020, pp. 415-420.
  • [6] Cfr. “Ecco gli appunti di Falcone” di Liana Milella (Il Sole 24 Ore, 24 giugno 1992), qui interamente consultabile:
  • https://www.archivioantimafia.org/giornali/sole24ore/liana_milella_appunti_falcone.pdf
  • [8] Facciamo qui riferimento alla calzante definizione data da Francesco La Licata nel suo libro La Storia di Giovanni Falcone (1993), p. 122.
  • [10] Il testo integrale dell’intervento è qui consultabile:
  • https://www.ilsicilia.it/il-25-giugno-92-lultimo-discorso-pubblico-di-paolo-borsellino-video/
  • [12] Cfr. ivi, pp. 19-20.
  • [14] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: Audizione della dottoressa Vincenza Sabatino, 30 luglio 1992, pp. 40-41.
  • [16] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Roberto Scarpinato, 29 luglio 1992, pp. 32-33.
  • [18] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: Audizione della dottoressa Teresa Principato, 30 luglio 1992, pp. 8-9.
  • [20] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Antonio Ingroia, 31 luglio 1992, p. 17 (C4. 96).
  • [22] Qui consultabile: https://aic.camera.it/aic/scheda.html?core=aic&numero=3/00074&ramo=SENATO&leg=11
  • [24] Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata.
  • [26] Nell’agosto dello stesso anno.
  • [28] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Alfredo Morvillo, 28 luglio 1992, pp. 107-108.
  • [30] Cfr. Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, Borsellino ter, udienza del 24 settembre 2001, pp. 74-75.
  • [32] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: Audizione del dottor Pietro Giammanco, 28 luglio, pp. 12-14.
  • [34] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Antonio Ingroia, 31 luglio 1992, p. 22 (C3. 94).
  • [36] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Roberto Scarpinato, 29 luglio 1992, p. 52.
  • [38] Cfr. Corte di Assise di Caltanissetta, Borsellino1, udienza del 23 marzo 1995, pp. 2-3.
  • [40] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Gioacchino Natoli, 30 luglio 1992, pp. 10-12: “Io personalmente ebbi a preoccuparmi e ne feci aperta menzione nel corso di una riunione della DDA perché gli unici problemi in seno alla DDA, se la memoria non m’inganna, per la sicurezza, li ho sollevati ufficialmente io, perché qualche uomo della mia tutela, o meglio di quelli che si avvicendavano nelle tutele ebbe a dirmi dopo il caso Falcone, che il turno, il cosiddetto turno in quinta che gli avevano messo sotto casa (a Borsellino, ndr) era affidato a soggetti sempre giovani, privi di esperienza e che comunque la distribuzione dell‘orario di lavoro era tale che induceva talvolta, qualcuno, secondo l’esperienza dico, è un poliziotto che riferisce fatti che riguardano la Polizia, ad addormentarsi durante la notte tanto, ripeto, che uno di questi mi disse: «ma perché hanno messo il turno in quinta al dottor Borsellino. Lei che gli e amico glie lo dica che era molto più protetto quando aveva le due squadre di scorta che non con il turno in quinta» … (…) Siccome Paolo era uno di quelli che non voleva creare problemi, che glissava sull’argomento molto spesso, proprio per metterlo in difficolta, tra virgolette, ne parlai ufficialmente in seno ad una riunione di Direzione Distrettuale”.
  • [42] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Pietro Giammanco, 28 luglio 1992, p. 10.
  • [44] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Ignazio De Francisci, 29 luglio 1992, p. 7.
  • [46] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: Audizione del dottor Bruno Siclari, 28 luglio, pp. 38-39.
  • [48] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Giovanni Ilarda, 29 luglio 1992, pp. 12-15.
  • [50] Cfr. XVI Legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, Comunicazioni del presidente sui grandi delitti e le stragi di mafia degli anni 1992 – 1993”, seduta del 9 gennaio 2013, qui consultabile:
  • https://www.parlamento.it/service/PDF/PDFServer/DF/226006.pdf
  • [52] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Antonio Ingroia, 31 luglio 1992, pp. 1-2 (C2.93)
  • [54] Cfr. per una ricostruzione giornalistica i seguenti articoli:
  • – “Borsellino e Di Pietro erano nel mirino dei bossdi Damiano Aliprandi (Il Dubbio, 24 gennaio 2020), qui consultabile:
  • https://www.ildubbio.news/2020/01/24/borsellino-e-di-pietro-erano-nel-mirino-dei-boss/
  • “Questioni collaterali e ritardi, quell’informativa del Ros su Borsellino e Di Pietro di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari (AntimafiaDuemila, 15 ottobre 2015), qui consultabile:
  • https://www.antimafiaduemila.com/dossier/processo-trattativa-stato-mafia/57267-questioni-collaterali-e-ritardi-quell-informativa-del-ros-su-borsellino-e-di-pietro.html
  • – “La verità su Di Pietro, 17 anni dopodi Manlio Di Salvo (Il Secolo XIX, 10 ottobre 2009), qui consultabile:
  • https://www.ilsecoloxix.it/italia/2009/10/10/news/la-verita-su-di-pietro-17-anni-dopo-1.33216726
  • [56] L’audizione dell’avvocato Antonio Di Pietro è avvenuta in data antecedente rispetto al servizio di Politi.
  • [58] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Roberto Scarpinato, 29 luglio 1992, p. 3.
  • [60] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Vittorio Teresi, 29 luglio 1992, pp. 6-7.
  • [62] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: Audizione del dottor Bruno Siclari, 28 luglio, pp. 8-9.
  • [64] V. Cap. II.

 

  • [66] Anche in questa sede è tuttavia utile riportare alcuni stralci della deposizione di Francesco Paolo Maggi dinanzi la Corte di Assise del Tribunale di Caltanissetta nel dibattimento del Borsellino Quater (udienza del 20 maggio 2013, pp. 72, 77-79):
  • TESTE MAGGI F.P. – Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: “Ma questi come hanno fatto a… a sapere già…?“, Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano.
  • P.M. Dott. GOZZO – Lei ha ricostruito che si trattasse dei Servizi o…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché un paio li conosco, di Roma. Io ho lavorato sette anni a Roma.
  • P.M. Dott. GOZZO – E a questo punto la invito a fare i nomi di queste persone, se li riconosce.
  • TESTE MAGGI F.P. – E non li conosco, conosco di… di faccia, è gente questa che… manco ti dà confidenza.
  • P.M. Dott. GOZZO – E quando ha notato queste persone? Dal punto di vista del timing, diciamo così.
  • TESTE MAGGI F.P. – Dopo dieci minuti che era avvenuto tutto il fatto.
  • P.M. Dott. GOZZO – E quindi quando siete arrivati voi, praticamente.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, subito dopo. Io uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa.
  • […]
  • TESTE MAGGI F.P. – … ripeto, io sono stato uno dei primi ad arrivare là. E poi in questo andirivieni, che saranno passati cinque – dieci minuti, forse pure un quarto d’ora, non riesco a quantificare i minuti, notavo questa gente giacca e cravatta che… che si avvicinava, che cercava, che… Cioè non.. (…) In primo tempo mi volevo avvicinare a queste persone per chiedere: “Ma voi che state facendo? Che state cercando?” Poi ho visto che era gente di Roma, perché li conoscevo di vista, e ho lasciato perdere.
  • P.M. Dott. GOZZO – Eh, ma mi scusi, ecco, allora a questo punto esploriamo meglio questa cosa. Stavano cercando cosa? Cioè non dico che lei sapesse cosa stavano cercando, dico, ma cosa facevano?
  • TESTE MAGGI F.P. – No, tipo che si aggiravano in tutto… in tutta la… come vogliamo dire.
  • P.M. Dott. GOZZO – In tutta l’area.
  • TESTE MAGGI F.P. – In tutta l’area, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Attorno al cratere, diciamo.
  • TESTE MAGGI F.P. – Ecco, nelle macchine parcheggiate.
  • P.M. Dott. GOZZO – Anche vicino a questa macchina azzurrina che lei…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Certo, qualcuno si avvicinò pure là. Va beh, si avvicinarono quando il fumo già forse era un po’
  • meno, sennò i vestiti si sporcavano.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi forse cercavano qualche traccia, come stava facendo lei.
  • TESTE MAGGI F.P. – E penso di sì, essendo… essendo poliziotti pure loro.
  • P.M. Dott. GOZZO – Ecco, essendo lei un poliziotto può capire anche l’atteggiamento che si…
  • TESTE MAGGI F.P. – Non è che gli posso dire a un collega: “Oh, ma che stai facendo? Che fai qua?” Non glielo posso
  • dire.
  • P.M. Dott. GOZZO – Diciamo che ha notato, ha registrato questa presenza, ma chiaramente non ha fatto altro.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, ho detto: “Ma chissi… ma che ci avevano la radio?” Non lo so io, va’, mi sono posto questa domanda, ho detto: “Ma come mai?” E me la sono posto ora. Ai tempi non lo so perché, forse ero troppo giovane, ora, con il tempo, ‘sta cosa.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, a questo punto, visto che lei ha un ricordo abbastanza nitido, mi pare, se può specificare, ecco, adesso quante sono queste persone, se può in qualche modo quantificarle.
  • TESTE MAGGI F.P. – Perché arrivavano man mano, diventarono poi un esercito.
  • P.M. Dott. GOZZO – Allora, diciamo, nell’immediatezza lei già ha individua…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Quattro o cinque potevano essere.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quattro o cinque persone.
  • TESTE MAGGI F.P. – E c’era qualcuno pure che non conoscevo, ah? Solo che parlavano tra di loro e ho detto: “Mi’, su’
  • puru colleghi“, erano vistuti uguali, avevano ddocu ‘a spilletta, perché poi…
  • P.M. Dott. GOZZO – Avevano anche la spilletta di riconoscimento?
  • TESTE MAGGI F.P. – Penso del Ministero degli Interni o…
  • P.M. Dott. GOZZO – Del Ministero degli Interni.
  • TESTE MAGGI F.P. – …dell’ufficio che facevano parte questi, non lo so.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, riesce a descriverli, cioè a dire com’erano, insomma, che…? Oppure ha un ricordo semplicemente numerico, diciamo così?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, grossomodo è numerico, dottore, io non… non riesco a vedere… a riconoscere i visi. Mah, statura normale, tipo la mia.

 

  • [68] Cfr. “Il caso Borsellino al CSM: il fratello attacca i giudici” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2018), qui consultabile:
  • https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/07/03/il-caso-borsellino-al-csm-il-fratello-attacca-i-giudici/4466749/
  • [70] Cfr. sul punto Corte di Assise di Caltanissetta, sentenza Borsellino Quater, 20 aprile 2017, pp. 824-966.
  • [72] Ovvero dallo stesso Maggi. Cfr. sul punto Corte di Assise di Caltanissetta, sentenza Borsellino Quater, 20 aprile 2017, pp. 909-911: “Mentre si diradava il fumo, si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava… a dire del teste di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci (come detto, la circostanza, prima della deposizione dibattimentale era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare). Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via D’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della Via D’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile (“Ancora qua sei? -dice- Piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”). Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio. Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della relativa deposizione, dalla quale risulta anche che la relazione di servizio sulla propria attività di polizia giudiziaria (come appena visto, tutt’altro che secondaria), veniva redatta soltanto 5 mesi più tardi, su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste davanti al Pubblico Ministero diCaltanissetta, dottor Fausto Cardella”.
  • [74] Cfr. Borsellino fu lasciato solo?” di Ruggero Farkas (L’Unità, 18 luglio 1992), qui consultabile:
  • https://archivio.unita.news/assets/main/1993/07/18/page_005.pdf
  • [76] Cfr. sul punto anche. Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia, “Inchiesta sul depistaggio di via D’Amelio”, relazione conclusiva, p. 51:
  • GRASSO, ex procuratore nazionale antimafia. Dalla ricostruzione che si è fatta Scarantino viene arrestato il 24 settembre 1992. Pochi giorni prima avevano acquisito le dichiarazioni di Luciano Valenti e di Candurra Salvatore, secondo le quali avevano rubato la macchina su commissione di Scarantino ed era stata consegnata la macchina a Scarantino. […] Poi Scarantino viene trasferito nel carcere di Busto Arsizio e nella cella accanto gli mettono Andriotta. Lì nasce la costruzione specifica del depistaggio (con) una dichiarazione di Andriotta che riferisce delle cose come dette dal vicino di cella Scarantino. …Se si esaminano tutti i colloqui investigativi in carcere di Arnaldo La Barbera e di alcuni funzionari, si può ricostruire che ogni volta che Andriotta dichiara qualche cosa, c’è nello stesso giorno o nel giorno precedente un colloquio investigativo… perché il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa Falcone e Borsellino ha da fonti che non rivelerà mai.
  • [78] Cfr. “Pianosa, sale la tensione nell’isola dei boss” di Massimo Basile (La Repubblica, 26 agosto 1992), qui consultabile:
  • https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/08/26/pianosa-sale-la-tensione-nell-isola.html
  • [80] Cfr. Italy: an increase in alleged Ill-treatment by prison guardsdi Amnesty International (30 aprile 1993), qui consultabile:
  • https://www.amnesty.org/download/Documents/188000/eur300041993en.pdf
  • [82] Cfr. Il superpoliziotto e le stragi: vi racconto la grande caccia di Attilio Bolzoni (La Repubblica, 20 luglio 1994), qui consultabile:
  • https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/07/20/il-superpoliziotto-le-stragi-vi-racconto.html
  • [84] E ciò anche “grazie” alle dichiarazioni di Calogero Pulci. Cfr. per una ricostruzione processuale Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, sentenza Borsellino Quater, 15 novembre 2019, pp. 352, 366: «Gaetano Murana, odierna parte civile, in primo grado, nel processo Borsellino bis, era stato assolto dal concorso nella strage di via D’Amelio per mancanza di riscontri alle dichiarazioni rese a suo carico da Vincenzo Scarantino. All’esito del giudizio di appello lo stesso era stato, invece, condannato all’ergastolo grazie al contributo di Pulci che, con le sue dichiarazioni, riguardanti una confidenza ricevuta dal predetto Murana durante la comune detenzione, circa il coinvolgimento della sua famiglia mafiosa di appartenenza nell’organizzazione della strage, aveva fornito quel riscontro estrinseco ed individualizzante alla chiamata in correità di Scarantino rimasta isolata nel giudizio di primo grado… […] Deve, conseguentemente ravvisarsi la natura dolosa della condotta di Pulci, che aveva inventato di avere ricevuto una confidenza dalla persona offesa, fornendo così un idoneo riscontro alle false accuse di Scarantino che aveva attribuito un ruolo operativo alla predetta nella preparazione della strage di via D’Amelio»
  • [86] Cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia, “Inchiesta sul depistaggio di via D’Amelio”, relazione conclusiva, pp. 64-65.
  • [88] Cfr. per una ricostruzione giornalistica l’intervista di Marco Lillo al sottosegretario Alfredo Mantovano (Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010), qui consultabile:  https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/19/0513_Mantovano_Fatto_Quotidiano.pdf

Testo intervista:

  • D. Sottosegretario ci spiega come siete arrivati a questa decisione contro il pentito che accusa Berlusconi?
  • R «La legge del 2001 impone al collaboratore un limite di 180 giorni per dire tutte le notizie importanti. La Cassazione dice che le sue parole possono essere usate comunque dall’autorità giudiziaria anche se non rispetta il limite, ma sui benefìci penitenziari decide autonomamente l’organo amministrativo. E quindi, nella sua autonomia, la commissione che presiedo ha ritenuto di disconoscere il programma di protezione a Spatuzza. È incontestabile che una parte delle dichiarazioni rese sono arrivate dopo i 180 giorni. Lo ammette lui stesso negli interrogatori».
  • D. Sì, ma Spatuzza dice anche che ha atteso a fare quei nomi perché aveva paura di Berlusconi, che stava diventando presidente del consiglio. A rileggerle oggi sembrano parole profetiche.
  • R. «A me sembra, invece, che dal momento in cui Spatuzza inizia a parlare di Graviano e dell’incontro al bar Doney, sei mesi dopo il termine dei 180 giorni, aggiunge, come per mettere le mani avanti: ‘Peccato che non le ho dette subito queste cose’».
  • D. Ma nel verbale illustrativo però Spatuzza fa un cenno a questa trattativa e all’incontro con Graviano.
  • R. «No, lui parla genericamente di un incontro con Graviano e accenna a Vittorio Mangano. In quel contesto fa il nome di Dell’Utri come sua deduzione. Non parla mai di quello che gli disse al bar Doney Graviano su dell’Utri e Berlusconi. Gli stessi pm in più di un passaggio dicono che l’incontro è fondamentale e fanno notare a Spatuzza che non l’ha detto prima».
  • D. I pm dicono che l’esclusione dei benefìci a Spatuzza è una decisione anomala.
  • R. «Questa norma è stata applicata in altre circostanze. Non è avvenuto in molti casi perché di solito i termini si rispettano».
  • D. Esempi?
  • R. «Il caso Spatuzza è stato desecretato, se dovesse esserci un ricorso al Tar, che dò per scontato, tireremo fuori gli altri casi. Ora sono segreti».
  • D. Lei non si sente in imbarazzo? Le dichiarazioni che sono costate i benefici a Spatuzza riguardano il suo leader e presidente del Consiglio, Berlusconi.
  • R. «Non mi sento in imbarazzo, facevo il magistrato e sono abituato ad applicare la legge. Se fosse stata tirata in ballo un’altra persona meno importante di Berlusconi avrei fatto lo stesso. La questione è stata posta a una commissione nella quale io sono il solo politico. Per il resto ci sono due pm e cinque membri delle forze di Polizia. Dormo sereno. Mi sono mosso nella legge».
  • D. Perché avete atteso la vigilia della sentenza dell’Utri?
  • «Perché gli ultimi verbali di interrogatorio da parte dei pm ci sono arrivati solo alla fine della scorsa settimana. Anche se noi li avevamo chiesti molto tempo prima. Se avessimo rispettato il termine ordinatorio, che era gennaio ci saremmo dovuti basare su una parte degli atti. Abbiamo preferito una decisione completa oltre il termine ordinatorio piuttosto che incompleta in termine. Ma non è dipeso da noi».
  • D. Cosa accade a Spatuzza?
  • «Spatuzza resta dove è. Non cambia il regime di sicurezza, fino a quando sta in carcere sarà sottoposto a una forma di tutela personale, proporzionata al rischio che corre per la scelta di collaborare. Se e quando uscirà dal circuito penitenziario Spatuzza sarà sottoposto al regime di protezione adeguato al rischio che corre. Se dovesse uscire adesso se ne occuperebbe il prefetto del luogo di dimora. Perderà invece l’assegno di mantenimento per sé e per i familiari, la locazione dell’appartamento pagata, le misure di carattere assistenziali».
  • D. Da domani perderà tutti questi benefici?
  • R. «Non da domani ma tra sessanta giorni per dare il termine di fare il ricorso al Tar».
  • D. Questo pentito ha offerto un contributo di verità nelle indagini sulle due stragi di via D’Amelio e dei Georgofili. Avreste fatto lo stesso se lui avesse raccontato, oltre il termine, chi ha ucciso Borsellino?
  • R. «Sì, io applico solo la legge».
  • D. Ma non ritiene che ci sia un margine di discrezionalità?
  • R. «Ogni norma di legge ammette la discrezionalità entro certi margini. Ma in questo caso la scelta era obbligata».
  • D. Lei è un politico e presiede la commissione in questa veste. Si rende conto che la sua decisione sembra una ritorsione contro il pentito che accusa il suo capo?
  • R. «Contro chi sosterrà questa tesi darò mandato agli avvocati per fare causa».

 

  • [90] Cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia, audizione del dottor Pietro Grasso, 18 ottobre 2018.
  • GRASSO, ex procuratore nazionale antimafia. (…) Il suo arresto è connotato da alcune rimostranze che lui ha fatto perché furono sparati centinaia di colpi e lui rischiava, credo che fu pure ferito all’atto dell’arresto e dice “io non avevo intenzione, né manifestavo alcuna volontà di resistere all’arresto con armi eppure sono stato preso a pistolettate e cose varie”, questo lo dice anche nello stesso colloquio investigativo.
  • [92] Cfr. per una ricostruzione giornalistica “Innocenti in carcere per via D’Ameliodi Francesco Viviano (La Repubblica, 24 gennaio 2004), qui consultabile:
  • https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/24/innocenti-in-carcere-per-via-amelio.pa_027innocenti.html
  • [94] Cfr. “Patria 2010-2020” di Enrico Deaglio (2020), pp. 276-277.
  • [96] Trasmessa a questa Commissione in data 14 giugno 2021.
  • [98] Con sentenza della Corte di Appello di Palermo, pronunciata il 25/02/2006 e divenuta irrevocabile il 10/05/2007, Bruno Contrada è stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis cod. pen., riguardante il concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, commesso nell’arco temporale compreso tra il 1979 e il 1988. Tale condanna è stata poi dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali, con sentenza della Corte di Cassazione (n. 43112/2017), a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015 secondo la quale la citata sentenza della Corte di Appello di Palermo avrebbe violato l’art. 7 CEDU.
  • [100] Ricostruzione operata sulla base della documentazione acquisita da questa Commissione e di quella prodotta in atti dai soggetti auditi nel corso dell’inchiesta. A tal proposito cfr. “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti consegnata dal procuratore capo p.t. della Repubblica di Palermo, dottor Giancarlo Caselli, nel corso della sua audizione dinanzi la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari (XIII legislatura) il 3 febbraio 1999 (relazione a firma del procuratori aggiunti Luigi Croce e Guido Lo Forte, e dei sostituti procuratori Roberto Scarpinato, Biagio Insacco, Antonio Ingroia, Maurizio De Lucia e Gaspare Sturzo), pp. 3 e ss.
  • [102] A tal riguardo, si dà lettura della relazione presentata al CSM il 7 dicembre 1992, a firma del procuratore aggiunto dottor Vittorio Aliquò e dei sostituti dottor Guido Lo Forte e dottor Roberto Scarpinato (Relazione sui procedimenti instaurati a Palermo su mafia e appalti), richiamata, poi, in quella depositata dal procuratore Caselli nel febbraio ’99 dinanzi la Commissione nazionale antimafia (pp. 32-34):  «Una prima notizia del tutto fantasiosa era quella secondo cui, ancora in data 14 giugno e cioè proprio mentre stava per essere depositata la richiesta di misure cautelari (25.6.1992) la Procura “avrebbe rifiutato” di ricevere il “rapporto” già ultimato dai Carabinieri… Nei successivi articoli, sia antecedenti che posteriori all’esecuzione degli arresti, da un lato vi era la inspiegabile riproduzione di intercettazioni coperte dal segreto istruttori, anche prima del deposito degli atti al “Tribunale della Libertà”, e dall’altro l’affermazione che nel “rapporto” sarebbero state individuate, in relazione all’attività dell’organizzazione mafiosa, responsabilità di numerose ed importanti personalità politiche, anche con incarichi di governo senza alcun seguito da parte della Procura. Tale affermazione, secondo gli organi di stampa, costituiva il motivo principale di pesanti critiche contro l’operato della Procura, asseritamente provenienti da ufficiali dei Carabinieri. Estremamente significativi in tal senso sono gli articoli pubblicati sui quotidiani “Secolo XIX” e “La Sicilia” rispettivamente del 13.6.1991 e del 16, 17 e 19 giugno 1991, contenenti – insieme alla trascrizione letterale di parti del rapporto – pesantissime critiche di “insabbiamento” nei confronti della Procura della Repubblica, nonostante questa non avesse ancora formulato le sue richieste al Gip. (…) Le anticipazioni di stampa relative a personalità politiche nazionali coinvolte negli illeciti asseritamente evidenziati dall’informativa apparivano inizialmente, come si è detto, del tutto incomprensibili. Dall’informativa del 16.2.1991 risultava invero che, nel corso di alcune telefonate tra imprenditori, venivano episodicamente fatti i nomi di alcuni politici all’interno di contesti discorsivi fra terze persone che non evidenziavano di per sé fatti illeciti. L’informativa si chiudeva con un doppio elenco di persone coinvolte nell’indagine. Il primo elenco era così intestato: “Schede di personaggi di maggior interesse in ordine ad ipotesi di reato di associazione per delinquere di tipo mafioso”. Nessun nome di politico si rinveniva in questo elenco. Il secondo elenco era così intestato: “schede di personaggi di maggiore interesse in ordine ad ipotesi di reato di associazione per delinquere”. In questo elenco, come politici, figuravano solo Domenico Lo Vasco e Giuseppe Di Trapani, all’epoca Assessori Comunali di Palermo. Del resto non si trattava di vere e proprie schede, ma di un semplice elenco in cui accanto ad ogni nome vi era l’indicazione dell’intercettazione telefonica nella quale si faceva riferimento allo stesso. La sostanziale mancanza di elementi significativi sul piano penale per il Lo Vasco ed il Di Trapani, e a maggior ragione per gli altri uomini politici citati nell’informativa e non nelle schede, veniva del resto esplicitata in una nota in data 27.7.1991 del Comandante del R.O.S. (…) Come si sarebbe compreso dopo, le polemiche di stampa apparivano inspiegabili soltanto ai magistrati della Procura della Repubblica. Invero i nomi dei personaggi politici di rilievo nazionale, tali da suscitare un così rilevante interesse da parte della stampa, erano diversi da quelli sopra menzionati: e, mentre erano evidentemente noti ai giornalisti già dall’estate del 1991, sarebbero stati portati a conoscenza della Procura di Palermo in parte solo nel novembre 1991 e in parte addirittura nel mese di settembre 1992».
  • [104] Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, 8 gennaio 1992: richiesta per l’applicazione di misure cautelari (procedimento n. 2789/90).
  • [106] Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, 13 luglio 1992: richiesta di archiviazione del procedimento n. 2789/90 instaurato nei confronti di Siino Andrea Giuseppe, Giuseppe Bulgarella, Aldo Scichilone, Luigi Picone Chiodo, Alessandro Volta, Claudio De Eccher, Giorgio Zito, Paolo Catti De Gasperi, Giuseppe Paddeu, Calogero Cangelosi, Giuseppe Lipari, Rosario Equizzi, Antonio Buscemi, Paolo Lombardino, Salvatore Fauci, Filippo La Rocca, Carmelo Gariffo, Serafino Morici, Antonino Spezia, Domenico Favro e Andrea Siino. Tale richiesta è stata accolta con decreto di archiviazione del Gip di Palermo il 14 agosto 1992.
  • [108] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Giuseppe Pignatone, 30 luglio 1992, pp. 80-81.
  • [110] Cfr. Gruppo di lavoro per gli interventi del C.S.M. relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata: audizione del dottor Luigi Patronaggio, 31 luglio 1992, pp. 5,7, 11.
  • [112] Cfr. ivi, capitoli 4 (“Le indagini della Procura di Palermo nel 1993”), 5 (“Le indagini della Procura di Palermo negli anni 1994-1995) e 6 (“Le indagini della Procura di Palermo negli anni 1996-1998”).
  • [114] Cfr. “Mafia e appalti, archiviata l’inchiesta sul pm Lo Forte” di Felice Cavallaro (Il Corriere della Sera, 16 marzo 2000).
  • [116] Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia: Richiesta di archiviazione (Proc. pen. n. 109/19 R.G.N.R. mod. 21) del 5 giugno 2020, pp. 39-42.
  • [118] Cfr. ivi, pp. 9-10: «Tanto premesso, se la scelta processuale operata dai magistrati può risultare senz’altro discutibile ed eventualmente rilevante da un punto di vista disciplinare…»