Strage di via D’Amelio 32 anni fa, Palermo rievoca Borsellino nel clima avvelenato dai depistaggi (e dalle indagini sui magistrati)

19.7.2024 CORRIERE DELLA SERA

«Ogni anno vengono in via D’Amelio a portarmi fiori, mi hanno dedicato strade e piazze, mi hanno fatto diventare santo, martire e eroe, ma a me di tutto questo non me ne fotte una minchia! La verità, dedicatemi la verità!», grida Paolo Borsellino sotto le finestre di quello che fu il suo ufficio. A dargli voce è l’attore David Coco, che con questa invocazione chiude La grande menzogna, spettacolo andato in scena l’altra sera sul piazzale d’ingresso del palazzo di giustizia di Palermo; il palazzo dei «veleni» che hanno intossicato tante estati siciliane, compresa quella delle stragi del 1992; la sede della Procura che lo stesso Borsellino, da procuratore aggiunto, definì «nido di vipere» un mese prima di saltare in aria insieme ai cinque agenti di scorta.

«Fumavo due pacchetti di sigarette al giorno, ma mi hanno ucciso 70 chili di tritolo», dice Borsellino-Coco nel testo scritto da Claudio Fava, già deputato europeo, nazionale e regionale della sinistra, drammaturgo e figlio di Pippo Fava, altra vittima di mafia; un monologo di quasi un’ora in cui l’attore che interpreta il magistrato lancia accuse pesantissime contro altri magistrati e investigatori che fin dai primi momenti successivi all’esplosione in via D’Amelio avvenuta alle 16,58 del 19 luglio di 32 anni fa, misero in piedi il depistaggio sugli autori della strage. Prima facendo sparire l’agenda rossa con gli appunti di Borsellino e poi costruendo quasi in laboratorio il falso pentito Vincenzo Scarantino, il «pupo» vestito apposta per fargli recitare la verità più comoda e indolore per tutti: il giudice buono ammazzato dalla mafia cattiva. E solo dalla mafia.

Una storia ormai nota (sebbene tutt’altro che chiara e conclusa), ma per la prima volta raccontata in tutta la sua crudezza e essenzialità nel palazzo di giustizia, uno dei loghi della Grande Menzogna, per coraggiosa iniziativa della sezione palermitana dell’Associazione nazionale magistrati. Davanti a una platea di toghe di tutte le età: dal presidente Giuseppe Tango, che quando Borsellino morì era un bambino di 9 anni, all’ottantaquattrenne Leonardo Guarnotta, uno dei reduci del pool antimafia di Falcone e Borsellino; ai vertici della magistratura locale, alcuni dei quali protagonisti di indagini e processi che s’intrecciano con questa storia, dalla Trattativa Stato-mafia alla revisione delle ingiuste condanne scaturite dalle bugie di Scarantino; ai responsabili delle forze dell’ordine in città. E a Manfredi Borsellino, il poliziotto figlio del magistrato assassinato, seduto in prima fila che a fine spettacolo fugge insieme al figlio Paolo, non prima di aver salutato e abbracciato l’attore e Fava: un segno di apprezzamento per le imprecazioni gridate a nome di suo padre contro nomi e cognomi di (alcuni) magistrati, poliziotti e funzionari dei Servizi segreti che organizzarono e resero credibile la sceneggiata del falso pentito.

«Abbiano fatto consapevolmente questa scelta per evitare di nascondere la polvere sotto il tappeto e rifugiarsi nelle celebrazioni di comodo, denunciando i drammatici errori commessi da investigatori e magistrati che però sono stati scoperti grazie ad altri investigatori e magistrati — spiega Tango —. Una presa di coscienza della gravità di ciò che è accaduto, ma anche della necessità di salvaguardare il ruolo e l’integrità dell’ordine giudiziario».

Ma la nemesi di una magistratura che accusa se stessa, non si ferma al monologo di Borsellino-Coco; torna a manifestarsi con indagini e processiche coinvolgono pm e investigatori dell’epoca. L’ultimo atto s’è appena aperto a Caltanissetta dove il procuratore Salvatore De Luca, che nel luglio ‘92 era appena approdato alla Procura di Palermo (il cui capo Pietro Giammanco si contrapponeva a Borsellino dopo averlo fatto con Falcone), ha inquisito l’ex pm Gioacchino Natoli: uno dei colleghi più vicini a Borsellino, tanto da raccoglierne le confidenze su un inatteso quanto inquietante incontro al Viminale col funzionario dl Sisde Bruno Contrada (uno dei nomi citati tra i registi della Grande Menzogna), subito dopo che un pentito aveva cominciato a parlare della sua contiguità con la mafia.
 
Oggi Natoli è in pensione e indiziato dai suoi ex colleghi di aver insabbiato, 32 anni fa, un’indagine su mafia e appalti che per l’avvocato Fabio Trizzino (legale della famiglia Borsellino e marito della primogenita Lucia, anche lui in prima fila alla rappresentazione di mercoledì sera) è uno dei principali motivi per cui il magistrato che intendeva approfondirla fu isolato e ucciso. Natoli ha già respinto ogni accusa davanti alla commissione parlamentare antimafia dove Trizzino s’era presentato per denunciarne le mosse, e ora si ritrova sotto inchiesta insieme a un ufficiale della Guardia di finanza che nel frattempo ha fatto carriera all’interno del Corpo. Un intreccio che rischia di stritolare nei sospetti reciproci (e nei ricorrenti veleni palermitani) questo trentaduesimo anniversario della strage.