Francesco Marino Mannoia, conosciuto anche con il soprannome Mozzarella nato a Palermo, 5 marzo1951 ha fatto parte di Cosa nostra e, successivamente, ha collaborato con la giustizia come pentito. Figlio di un affiliato della cosca della zona di Santa Maria di Gesù a Palermo, è stato tra i più stretti collaboratori di Stefano Bontatee si occupò prevalentemente della raffinazione dell’eroina partendo dalla morfina (donde lo pseudonimo de il chimico o “u dutturi”). In quel periodo, infatti, era uno dei pochi in grado di raffinare tale droga e lavorava un po’ per tutte le Famiglie palermitane e siciliane, ma in particolare per il suo boss Stefano Bontate. Durante la seconda guerra di mafia (1981–1983) il suo boss Bontate venne ucciso ma Mannoia si salvò in quanto allo scoppio del conflitto si trovava in carcere, con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Evase dalla galera nel 1983 e si legò ai corleonesi di Totò Riina, di cui divenne il principale raffinatore di droga. Arrestato nel 1985, dal 1989 è pentito: infatti, in seguito all’uccisione di suo fratello Agostino e di altri membri dei clan palermitani, Mannoia capì che i Corleonesi avrebbero ucciso pure lui. A causa delle vendette trasversali vennero uccise la madre, la sorella e la zia. Condannato a 17 anni nel maxiprocesso di Palermo, ha vissuto per 16 anni negli Stati Uniti d’America sotto la protezione dell’FBI, con cui collabora. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan vincenti. Rientrato in Italia, è entrato in collisione con il servizio centrale di sicurezza, rivendicando l’importanza delle sue testimonianze e la differenza di trattamento economico rispetto al sistema protezione pentiti statunitense. Ha quindi tentato il suicidio due volte nell’arco di tre mesi.
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- Deposizione ai processi
- Deposizione al processo omicidio Mauro De Mauro
- Deposizione al processo Badalamenti
- Deposizione al processo omicidio capitano Basile
- Deposizione al processo omicidio colonello Russo
- Deposizione al processo omicidio Roberto Calvi
- Deposizione al processo omicidio Boris Guliano
- Confronto Mannoia – Calò
- Il racconto dell’omicidio del commissario Cassarà
- 3.4.1993 Estratto interrogatorio coll. gius. F. Marino Mannoia a New York
- 4.11.1996 Dichiarazione di Mannoia sui rapporti Andreotti-Sindona
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“Eravamo tutti bestie, lui non si è fermato”
L’INTERVISTA. IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA FRANCESCO MARINO MANNOIA: “SI CHIUDE UN’EPOCA CRIMINALE” «Se n’è andata una bestia, come bestie sono tutti i mafiosi. Anche io e tutti i pentiti, ex mafiosi, siamo stati delle bestie». Francesco Marino Mannoia, il collaboratore di giustizia che ha svelato tanti segreti di mafia al giudice Falcone, si dice deluso, amareggiato. «Riina è morto, ma purtroppo Cosa nostra si è già adeguata ai tempi. Questo voglio dire ai giovani».
Che mafia ci troviamo a fronteggiare? «Di sicuro non è più il tempo delle coppole storte. Vedo una mafia più diplomatica, più affaristica, che si muove nella vita sociale».
La morte di Totò Riina ha chiuso davvero un’epoca criminale? «Ritengo che quei tempi non torneranno più. Non penso che i mafiosi si metteranno nuovamente a sparare. Ma qualche delitto eccellente potrebbe comunque verificarsi, eseguito però non in modo eclatante, ma in modo camuffato».
Lei ha pagato un prezzo altissimo per la sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone. «Nel 1989 uccisero a Bagheria mia madre, mia sorella e mia zia. Mio fratello Agostino è scomparso, e adesso che sono arrivato al termine di questa mia vita vorrei davvero sapere cosa gli è successo, dove è stato sepolto. La verità è che la mia è stata un’esistenza tutta sbagliata. Avrei dovuto fare il meccanico, come mi sarebbe piaciuto, lontano da tutte queste cose».
Chi erano davvero i “Corleonesi”? «Animali, con il sangue attorno. Ma avevano il potere. Erano un’organizzazione troppo radicata, una situazione che mafiosi potenti come Stefano Bontate sottovalutarono: il giorno del suo compleanno, dopo avere festeggiato, uscì in auto e venne ucciso. Faceva il gradasso. Era diverso da Riina, ma anche lui era una bestia. I mafiosi non capiscono: a che servono i miliardi, se poi devi passare la vita in carcere, o peggio ti ammazzano?».
Il ruolo dei collaboratori di giustizia è stato fondamentale per ottenere vittorie importanti sull’organizzazione mafiosa. Il suo ruolo è stato determinante per consentire la ricostruzione dell’incontro fra l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il boss Stefano Bontate, dopo l’assassinio del presidente della Regione Piersanti Mattarella. «Io ho dato il mio contributo. Ognuno raccoglie quello che ha seminato. Qualche autorevole collaboratore non ha detto invece tutto ciò che sapeva nel corso delle sue dichiarazioni alla magistratura, l’ho sempre sostenuto. Un’altra ragione di delusione in questi anni. Ora i giovani devono stare attenti, devono rendersi conto di cosa è diventata davvero la mafia». Salvo Palazzolo18 novembre 2017 La Repubblica
Il dramma del superpentito Marino Mannoia tenta il suicidio: “Lo Stato ci ha abbandonati” Venerdì scorso si era ucciso un altro collaboratore. I fondi per il servizio di protezione sono stati dimezzati negli ultimi 5 anni È stato uno dei mafiosi più temuti di Cosa nostra. E poi uno dei pentiti più importanti della lotta alla mafia, grazie al giudice Giovanni Falcone. Oggi, Francesco Marino Mannoia si vede solo e disperato: alcuni giorni fa, ha tentato di suicidarsi, ingerendo un cocktail di farmaci, ma sua moglie è riuscita a salvarlo in extremis, portandolo in ospedale. Era già accaduto un’altra volta, un mese fa. E qualche giorno dopo Mannoia aveva affidato il suo sfogo al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che era andato a interrogarlo per una vecchia inchiesta: “Sono deluso, amareggiato, dopo tutto quello che ho fatto per la lotta alla mafia, dal 1989”. Mannoia, che oggi ha 60 anni, ha vissuto a lungo sotto protezione negli Stati Uniti. Poi, ad aprile, ha deciso di tornare in Italia, perché la moglie e i due figli non si sono mai integrati oltreoceano. Ma è stato l’inizio di altri problemi: l’ex chimico delle cosche, grande esperto nella raffinazione della cocaina, si è ritrovato senza una casa, e oggi è ancora più preoccupato per il futuro dei suoi due figli. Oggi, suonano come una drammatica profezia le prima parole di Mannoia che Falcone mise a verbale, l’8 ottobre 1989: “Il mio pentimento è un gesto di fiducia nelle istituzioni, anche se non noto un vero impegno dello Stato nella lotta alla mafia”. Due mesi dopo, Cosa nostra uccise la madre, la sorella e la zia del neo pentito. Mannoia disse a Falcone: “Non mi fermeranno, voglio cambiare vita”. Ma dei rapporti fra mafia e politica parlò solo dopo la morte di Falcone. Svelò che nel 1980 Giulio Andreotti aveva incontrato a Palermo il boss Stefano Bontade. E la Cassazione gli ha creduto (anche se l’accusa è stata dichiarata prescritta). Così Mannoia, che è stato sempre assistito dall’avvocato Carlo Fabbri, è diventato il pentito più attendibile della storia della lotta alla mafia. Ha già scontato una condanna a 17 anni, oggi è un uomo libero. Ma questo è un momento difficile per i collaboratori: qualcuno è stato anche sfrattato da casa, perché lo Stato non ha i soldi per pagare l’affitto. Tutta colpa dei tagli al servizio di protezione: nel 2006, c’erano 70 milioni per lo strumento principale dell’Antimafia, i collaboratori. Oggi, i fondi per i pentiti e i loro legali sono stati dimezzati. Ecco perché alcuni collaboratori hanno già iniziato una singola protesta, denunciando nelle aule di tribunale le carenze del sistema di protezione. Venerdì, un pentito si è impiccato. Giuseppe Di Maio, 33 anni, ex esattore del pizzo della cosca palermitana della Guadagna, viveva un personale dramma della solitudine dopo essere stato abbandonato dalla moglie, che non aveva condiviso la sua scelta. Adesso, un altro pentito di mafia, Manuel Pasta, accusa: “Lo Stato non fornisce assistenza in nulla ai collaboratori, limitandosi allo stretto indispensabile, che si esprime in un tetto, un sussidio quando arriva e le spese per gli impegni di giustizia. Si poteva evitare quel suicidio – scrive Pasta, anche lui ex esattore del pizzo, in una lettera aperta – Di Maio aveva già tentato di togliersi la vita in cella, nel momento in cui è uscito bisognava dargli assistenza psicologica”. Pasta esprime senza mezzi termini il disagio dei collaboratori: “Forse, c’è una volontà superiore affinché questo fenomeno del pentitismo sia disincentivato”, dice. “Ci sono tanti Di Maio che vanno aiutati”, è il suo appello: “Il nucleo di protezione non riesce ad affrontare l’enorme lavoro con un numero esiguo di personale, e spesso non c’è nemmeno un protocollo da seguire, se non quello dell’anima”. (di SALVO PALAZZOLO La Repubblica 27 luglio 2011)
Il pentito Marino Mannoia è tornato in Italia riceverà uno stipendio da mille euro al meseIl chimico di Cosa nostra risiedeva negli Stati Uniti. Ha scontato tutte le condanne e ora è sotto tutela in una località segreta Il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia, 60 anni, è tornato a vivere in Italia. E’ uno dei collaboratori di giustizia più importanti anche negli Stati Uniti, dove ha abitato fino a qualche mese fa. Dopo essere stato protetto per 16 anni dai Marshal americani, Mannoia ha ritenuto le condizioni di vita offerte dagli States inaccettabili per sé e soprattutto per i suoi familiari, costretti a non avere un’identità propria e a vivere in condizioni di disagio.
Come aveva preannunciato, tra il serio e il minaccioso, alcuni anni fa, Mannoia, chimico delle cosche, esperto nella raffinazione della cocaina e fedelissimo di Stefano Bontade, è così rientrato in Italia, da uomo del tutto libero, dato che ha finito di scontare nel febbraio 2010 le condanne a complessivi 17 anni di carcere, inflittegli sia in Italia sia negli Usa. Ora è sotto la tutela, in una località segreta, del Servizio centrale di protezione, ma deve vivere con uno stipendio inferiore a mille euro, a fronte degli 8.960 che riceveva negli Usa. Oggi sarà interrogato da due pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo su un omicidio avvenuto molti anni fa. Nel 2006 c’era stata una dura polemica seguita alla decisione dello Stato italiano di proporgli la “capitalizzazione”, una sorta di liquidazione finale per farlo uscire dal programma di protezione. Mannoia, pentitosi nel 1989 con il giudice istruttore Giovanni Falcone e da sempre considerato altamente attendibile, si era rifiutato di aderire al programma, perché non si sentiva ancora sicuro, e in quell’occasione aveva detto che sarebbe tornato in Italia. Non avendo lavoro, aveva aggiunto provocatoriamente che sarebbe potuto solo tornare a delinquere. (La Repubblica 15 giugno 2011)
Torna libero il superpentito di mafia Francesco Marino Mannoia, l’uomo che aveva accusato, tra gli altri, anche Giulio Andreotti. Il collaboratore di giustizia vive negli Stati Uniti da più di vent’anni, e adesso torna in libertà perché ha scontato la pena. Il provvedimento è esecutivo ma deve essere ancora notificato al diretto interessato. L’Ufficio esecuzione della Procura generale di Palermo ha già informato il suo legale, Carlo Fabbri, del deposito dell’ordinanza. Nei confronti del pentito è stato fatto il cosiddetto ‘cumulo’ di tutte le condanne, calcolate in diciassette anni.Nel 1989, quando i boss mafiosi appresero che Marino Mannoia aveva deciso di collaborare con la giustizia, gli uccisero la sorella Vincenza, la madre Leonarda e la zia Lucia. Una vendetta trasversale per ‘punire’ il pentito, ma Marino Mannoia ha continuato a collaborare con i magistrati, parlando, oltre che di Andreotti anche di Bruno Contrada e del giudice Corrado Carnevale. (La REPUBBLICA 11 febbraio 2010)
LUCCHESE UCCIDE LE 3 DONNE DI MANNOIA – Lucchese, guida il gruppo che fa fuori tre ”amici” scomodi: Franco Mafara, Antonio Grado e Francesco Marino. Ed e’ sempre lui che organizza l’uccisione di Antonio Casella, quella dell’ex Presidente del Palermo Calcio, Roberto Parisi, a ”liquidare” Leonardo Rimi, ad uccidere nel febbraio 1989 il barone Antonio D’Onufrio e ad eliminare due mesi dopo Antonino Mineo, il ”patriarca” di Bagheria. Il primo a inchiodarlo e’ Francesco Marino Mannoia, che lo accusa di ben 37 omicidi. L’odio di Mannoia per Lucchese deriva sopratutto dal fatto che ”lucchiseddu” e’ il responsabile dell’agguato nel quale vengono uccise la madre, la sorella e la zia. E’ il 23 novembre 1989. Tra i killer c’e’ anche Giovanni Drago, che poi si e’ pentito ed ha raccontato tutto agli inquirenti. Drago ricorda che, vedendo insieme a Lucchese in televisione le immagini della strage, scorsero anche Giovanni Falcone. Questo il loro commento: ”Se lo sapevamo che ci andava anche Falcone, potevamo mettere una bomba sotto la macchina con i tre cadaveri per far saltare in aria il giudice”. All’interno di Cosa Nostra la sua ascesa incontra qualche opposizione. E’ il caso di Vincenzo Puccio, che cerca invano di organizzare una fronda anti-corleonese. Durante la sua detenzione, criticando la decisione di Lucchese di incendiare la casa di Pino Greco, Puccio dice ad altri picciotti: ”Quando esco dal carcere gli faccio saltare la testa”. Finira’ col cranio sfondato da unabistecchiera ADNKRONOS 10.3.1993
La scorta al “superpentito”, molta riservatezza e itinerari sempre diversi
Con qualche perplessità prendiamo posto sul camper. Sono il capo scorta e mi metto di fianco a Franco che lo guida, o meglio intavola trattative non sempre pacifiche con lo sgraziato e pesante veicolo per convincerlo a riportarci in ufficio. Nicola e Totò, gli “anziani” che mi hanno affiancato per l’occasione, si sistemano dietro, con Marino Mannoia.
Nicola si accende una sigaretta, mentre Totò, cullando in braccio il suo M12, si sistema in precario equilibrio su una sedia da ufficio, di quelle con le ruote, che ha posizionato tra la parte furgonata e lo spazio anteriore: due pessime iniziative, davvero incaute!
Poche centinaia di metri e i tre seduti dietro iniziano a dare evidenti segni di malessere: tra il fumo della sigaretta, subito spenta ma ristagnante, la mancata ventilazione, l’effetto distorcente dei vetri blindati uniti al beccheggio del mezzo, e nonostante la velocità più che moderata, da dietro mi arriva un crescente coro di lamentele. Apriamo tutto ciò – poco – che è possibile aprire, Totò abbandona la sedia, mi affida l’M12 che nascondo ai miei piedi e ci raggiunge davanti, dove si accascia su uno strapuntino.
Di domenica, per fortuna, le strade sono sgombre, per quanto possano esserlo le strade romane in una mattinata di ottobre, e arriviamo in ufficio. Mannoia durante il percorso non si è mai lamentato, ma appena sceso, prima ancora di arrivare all’ingresso, mi chiede, pallido e preoccupato, se abbiamo davvero intenzione di rientrare con lo stesso mezzo.
Glielo escludo (e tra me penso che se qualcuno si oppone posso sempre invocare i motivi di sicurezza e l’opportunità di diversificare i mezzi tra l’andata e il ritorno), e i visi e le espressioni di Totò e Nicola mi confortano sulla saggezza della decisione: tutti e due dichiarano solennemente che non ripeteranno l’esperienza.
Penso che dopo tutto la mia Dyane è sempre parcheggiata fuori e già conosce la strada, e se la riservatezza è quella che conta, allora portare un detenuto ad altissimo rischio a spasso su una Dyane sarebbe una soluzione non disprezzabile. Appena entrato in ufficio, accompagno Mannoia fino alla porta dell’ufficio di De Gennaro, dove è già arrivato il giudice Giovanni Falcone.
Lo avevo già incrociato in altre occasioni, a Roma, sempre lì in ufficio, ed è la prima volta che lo vedo così da vicino, dopo averne tanto sentito parlare, ma neanche mi guarda, sembra impaziente ed è concentrato su Mannoia. Deposito le armi lunghe nell’armadio corazzato e mi organizzo per il ritorno.
Ma c’è tempo: sarà una lunga domenica di attesa, dopo aver riportato Mannoia a Casal del Marmo a tarda sera, tornerò verso le undici in ufficio, e a casa poco prima della mezzanotte. Come inizio non c’è male, mi dico, ma il ritorno almeno lo abbiamo fatto con una Fiat Croma blindata e senza problemi: Mannoia si è lamentato per il mal di testa e ha chiesto se è possibile procurargli della Novalgina, in vista dei successivi impegni. […].
Un lavoro meticoloso
Il lavoro quotidiano di scorta, comunque, al di là di ogni considerazione sulla sopravvalutazione dei rischi che in cuor mio pensavo avessero fatto tanto Manganelli quanto Falcone, lo pianificavo e lo eseguivo con scrupolo, per quanto mi era possibile: cambiare itinerari, sfalsare orari, evitare di dare troppo anticipo nelle comunicazioni telefoniche, ma più di questo, obiettivamente, non si poteva fare, e dopo i primi giorni affrontai il discorso proprio con Mannoia.
Signor Mannoia, – esordii – ormai è diversi giorni che facciamo questa vita, ha visto le nostre tecniche e le nostre abitudini… lei è stato un sacco di tempo dall’altra parte, ma adesso se succede qualcosa succede a tutti… perciò se ha consigli, se ha suggerimenti, se ha perplessità, non si faccia scrupolo a parlarne e se ne discute insieme, per la sicurezza di tutti.
Quel giorno credo di essermi guadagnato qualche punto di fiducia, dimostrando ragionevolezza e rispetto per il “nemico”, e tra l’altro il suo parere tecnico mi interessava davvero, specie dopo aver letto il verbale in cui proprio Mannoia aveva raccontato di quando Cosa nostra aveva pianificato l’attacco alla caserma di polizia di Palermo, dove qualche anno prima era stato momentaneamente custodito Salvatore Contorno Salvatore “Totuccio” Contorno era un altro “pentito” di Cosa nostra della cui gestione e protezione si era occupato il nostro Ufficio; uomo d’onore, schierato con i cosiddetti perdenti nella guerra di mafia che aveva attraversato la provincia di Palermo e non solo quella, si era alla fine deciso a collaborare con la giustizia, aggiungendo le sue dichiarazioni a quelle di “Masino” Buscetta, il pentito per antonomasia.
Anche lui, come Buscetta, aveva avuto numerosi familiari ammazzati, e quando era stato fatto scendere a Palermo per dare indicazioni su luoghi e persone era stato scortato da personale del nostro Ufficio, ma la cosa evidentemente era trapelata, tanto che Cosa nostra si era determinata a dare l’assalto al Commissariato di San Lorenzo, con quella che doveva essere una vera e propria azione di guerra, alla quale non era stato dato corso solo perché alla vigilia dell’attacco Contorno era stato trasferito altrove.
Mannoia espresse grande considerazione per le capacità di guida di Franco e degli autisti che si alternavano nell’Alfa 33 di appoggio, apprezzò l’attenzione che tutti noi ponevamo durante ogni spostamento, quando per tutto il tragitto non si pronunciava neppure una parola che non fosse strettamente necessaria, ma aggiunse che capacità e attenzione non sono sufficienti se si accompagnano alla ripetitività dei comportamenti e delle procedure, e soprattutto se viene meno la riservatezza.
Parole sagge, anche troppo, che ho tenuto a mente fino all’ultimo giorno del mio servizio in Polizia. Già, la riservatezza: difficile comprenderne il significato, operando in una struttura pubblica, dove l’organizzazione delle competenze è talmente frammentata che per risolvere qualsiasi problema hai la necessità di rivolgerti ad almeno quattro uffici differenti, nei quali trovi zelanti burocrati che pretendono di conoscere per filo e per segno i motivi di ciascuna richiesta, ma per fortuna il Nucleo centrale anticrimine, sotto questo profilo, godeva di ampio credito.
Era una specie di longa manus del capo della Polizia, e un po’ per questo, un po’ per l’aura vagamente misteriosa che lo accompagnava, alcune pratiche logistiche potevano essere svolte senza la necessità di fornire troppe spiegazioni. Così, per noi, tanto per fare un esempio, sui moduli da riempire per il rifornimento delle autovetture le voci “itinerario” e “motivo del servizio” si risolvevano per prassi con la parola Riservato, in barba a chilometriche circolari che ne disciplinavano minuziosamente la compilazione. […].
Francesco Marino Mannoia, il primo “corleonese” a collabora
Anche per questo motivo l’agitazione che percepivo in ufficio, a settembre del 1989, non mi aveva turbato affatto. All’inizio del mese mi avevano mandato a Milano per una settimana, per un servizio da svolgere in collaborazione con il Centro Criminalpol Lombardia: si aspettava un carico di armi, o forse di droga, e passammo qualche giorno e qualche sera appostati al casello dell’autostrada, in vana attesa di una dritta che non arrivò.
Tornammo a Roma intorno al quindici, in tempo per notare una crescente agitazione, fino a quando una sera, verso le otto, Antonio Manganelli ci chiamò a raccolta: un gruppetto della Quarta Sezione, la mia, con Francesco Gratteri, e alcuni dei suoi investigatori della Terza. Prima di allora con Antonio Manganelli non avevo avuto quasi mai motivo di incontro o di conversazione.
Del resto lui si occupava di indagini serie, mentre io ero impegnato nel pronto intervento e spesso fuori Roma, ma i rapporti erano sempre stati eccellenti: era davvero un “signore”; non sono stato l’unico a dirlo e a scriverlo, ma ci tengo a ricordarlo anche qui, come ci ho tenuto a scriverlo, a nome di tutti, in occasione del suo funerale.
Manganelli fu breve e conciso: si era pentito Francesco Marino Mannoia, un uomo d’onore palermitano della fazione dei Corleonesi, il gruppo uscito vincitore dall’ultima guerra di mafia; era una novità di rilievo, dal momento che prima di allora le poche collaborazioni e i pentimenti erano arrivati solo dal lato dei cosiddetti perdenti. Non era ancora un nome notissimo, neppure tra gli addetti ai lavori, così mi andai a consultare il fascicolo nell’archivio della Direzione; palermitano del rione della Guadagna, inserito nella famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù.
Un curriculum criminale di tutto rispetto, ma non eccezionale: reati contro il patrimonio, associazione a delinquere, associazione mafiosa, un’evasione dal carcere mandamentale di Castelbuono, nel 1983, poi la latitanza e l’ultimo arresto da parte della Squadra Mobile di Palermo, nel 1985: nascosto nel doppiofondo di un armadio. Era sposato con la figlia di Pietro Vernengo, Rosa, ma risultava essere stato arrestato a casa di un’altra donna, con la quale aveva una relazione e che gli aveva dato una figlia. Nel fascicolo c’era anche una foto sbiadita, un ritaglio di giornale, che lo ritraeva all’uscita della Questura, prima di essere trasferito in carcere.
Lo avremmo dovuto prelevare dal carcere di Teramo, portare a Roma, prenderci cura della compagna e della figlia, raccogliere le dichiarazioni che avrebbe reso, almeno inizialmente, al solo giudice Giovanni Falcone, cercare i riscontri ai suoi racconti con un gruppo di investigatori della Squadra Mobile di Palermo, riferirne l’esito all’Autorità giudiziaria, e arrestare eventuali latitanti, se le indicazioni che ci stava per fornire lo avessero consentito. Il tutto con un dispiego il più possibile limitato di personale, confidando più nella riservatezza che nell’ostentazione di auto blindate, di giubbotti antiproiettile e di M12.
Manganelli distribuì gli incarichi: Nicola, un collega già in forza al Centro Interprovinciale Criminalpol di Roma, arrivato con me nel 1987, avrebbe curato i rapporti con l’Autorità giudiziaria, individuando gli episodi delittuosi, raccogliendo i riscontri alle dichiarazioni e procedendo alle identificazioni dei mafiosi chiamati in causa, mentre Claudio e Marco avrebbero gestito la logistica della famiglia.
Io, probabilmente scelto per la mia passata esperienza alle Volanti, mi sarei dovuto occupare della scorta vera e propria, andando a prendere il “pentito” nei giorni di interrogatorio e riportandolo in carcere la sera; le persone nominate erano i referenti per ciascuna area, ma tutto il Nucleo, al bisogno, avrebbe contribuito. Alla fine del discorso, Manganelli fece la faccia ancor più scura e si raccomandò: «Ragazzi, – disse – stavolta è una cosa seria, è un Corleonese… occhi aperti, perché stavolta si muore».
Tornai a casa senza provare una particolare apprensione: mi ero fatto l’idea che al Nucleo tendessero sempre a esagerare tutto, e informai mia moglie che per un po’ di tempo sarei rimasto a Roma, ma uscendo al mattino presto e rientrando la sera tardi; sembrò quasi sollevata: in giro per casa, almeno per un po’, non ci sarebbero state valigie.
Casal del Marmo
Mannoia era detenuto a Teramo, ma a prenderlo non andai io, e credo di ricordare che venne tutto anticipato, rispetto a quanto era stato progettato inizialmente: il servizio, per me, sarebbe iniziato domenica 8 ottobre 1989, a Casal del Marmo, e quando me lo dissero la cosa mi lasciò abbastanza perplesso: per quanto ne sapevo io Casal del Marmo era il carcere minorile di Roma e non avevo neppure una precisa idea di dove si trovasse.
Il giorno prima, sabato 7, avrei dovuto essere libero, ma Francesco Gratteri mi disse di presentarmi in quella struttura, di prendere contatti con il personale degli Agenti di Custodia e di concordare i dettagli per l’indomani, per la presa e la riconsegna del detenuto. Neanche a farlo apposta, quel sabato mattina in ufficio non trovai neppure un’autovettura disponibile, erano tutte impegnate per altri servizi, ma io sapevo bene che a De Gennaro era meglio non rappresentare problemi, o, se proprio ti ci trovavi costretto, glieli dovevi sottoporre insieme ad almeno due soluzioni ragionevoli e immediatamente praticabili.
Gli altri funzionari erano perfettamente allineati sulla stessa posizione, e né Antonio Manganelli né Alessandro Pansa mi avrebbero risolto la faccenda. Colpa mia, avrei dovuto far mettere da parte una macchina già dalla sera prima… così a Casal del Marmo, all’indirizzo che mi avevano dato, ci andai con la mia Dyane 6.
Era il 1989, non c’erano navigatori né smartphone; Google non esisteva, ma mica ci si perdeva: c’era il “Tuttocittà”, un fascicoletto allegato all’elenco del telefono che la Sip passava generosamente agli abbonati, e poi io avevo preso l’abitudine, dal tempo delle Volanti, di girare sempre, in macchina, con uno stradario che si chiamava AZ, pubblicato ogni anno, con la toponomastica di Roma e di tutte le periferie sempre aggiornata e precisa.
Casal del Marmo è una borgata romana, dalle parti di Torrevecchia, non distante dall’ospedale San Filippo Neri, e lì, in una zona di campagna, trovai non il carcere minorile, come avevo pensato, ma una struttura del Ministero di Grazia e Giustizia, dove si tenevano i corsi di guida per gli autisti civili del Ministero e per gli agenti della Penitenziaria.
La caserma era stata sgomberata in fretta, i corsi sospesi o rinviati, e la struttura era stata presa integralmente in carico, compreso il servizio di mensa e di vigilanza, da un gruppo di agenti selezionatissimi comandati dal Maggiore Ragosa e ribattezzata, sulla carta, Sezione Distaccata di Regina Coeli, […].
Il percorso da seguire tra Casal del Marmo e il mio ufficio, invece, mi preoccupava: i punti di partenza e di arrivo erano necessariamente obbligati, e i più esposti a eventuali attacchi; e se il tragitto in generale mi consentiva due o tre alternative e poco o nulla si poteva fare per accrescere la vigilanza intorno all’ufficio che si trovava in viale dell’Arte, nel cuore dell’Eur, vicino alla caserma c’era da percorrere invece un bel tratto completamente scoperto, dove solo saltuariamente transitavano i veicoli della Penitenziaria.
Lo feci presente, al mio ritorno dal sopralluogo, e Francesco Gratteri mi disse che avrebbero valutato se fare effettuare anche una saltuaria vigilanza dalle Volanti della Polizia. A Palermo c’è un detto comune che racchiude molto della filosofia siciliana, un detto che io non conoscevo ma che negli anni ho fatto mio perché si adatta molto bene alle attività di Polizia quando ci si trova a dover fare una cosa con quello che si ha a disposizione: “Chista è a zita…”, detto con tono definitivo.
L’espressione completa è “Chista è a zita, cu a voli sa marita”, e cioè “la fidanzata è così, chi la vuole se la sposi”, ma la seconda parte nell’uso comune viene sempre omessa, e la morale è: se ti va bene è così, perché alternative non ce ne sono. E io, della zita, non me ne innamorai, ma me la feci piacere. Il primo vero servizio di scorta iniziò, non senza qualche intoppo, alle 7.30 di domenica 8 ottobre.
Nell’ottica della segretezza, qualcuno aveva deciso che si dovesse utilizzare un mezzo che la burocrazia del mio ufficio definiva speciale: praticamente un normale mezzo di locomozione a motore la cui specialità consisteva, principalmente se non esclusivamente, nella necessità di elaborate procedure di richiesta e appositi conclavi di autorizzazione.
Nello specifico, si trattava di un furgone Volkswagen del tipo Westfalia, attrezzato a piccolo camper, con la finestratura blindata e inamovibile. Credo che la Polizia lo avesse acquistato quando si indagava sul mostro di Firenze, in vista di appostamenti da fare in campagna.
Nella parte posteriore si trovavano due strapuntini che obbligavano i passeggeri a sedere dando la schiena all’esterno e pesanti tendine di stoffa verde scuro impedivano qualsiasi visuale: in sostanza sembrava di viaggiare chiusi in una cassaforte. Il motore, per quanto generoso, era del tutto inadeguato rispetto al peso del veicolo e lo sforzo per muoverlo produceva velocità risibili, ma quantitativi consistenti di fumi.
Lo guidava Franco, che era stato per qualche anno autista di De Gennaro, ma che ora era in Sezione con me, e per il primo viaggio mi erano stati affiancati, ad abundantiam, due “anziani” dell’ufficio, Totò e Nicola; ci seguiva, a distanza, un’Alfa 33 di copertura senza contrassegni.
Dall’ufficio chiamai il numero della caserma che mi avevano dato il giorno prima, e fornii tipo e targa dei veicoli, anche se, a pensarci bene, la targa del Westfalia era del tutto superflua: penso proprio fosse l’unico in circolazione, così combinato, sulle strade del mondo. Quella mattina conobbi Francesco Marino Mannoia; io avevo esperienza solo di balordi di borgata romana, che si somigliano un po’ tutti: parlata strascicata, sfottente, quasi desiderosi di aderire il più possibile all’immagine malavitosa che li ispira.
Di mafiosi o per meglio dire di uomini d’onore, invece, nessuna esperienza diretta. Com’è un mafioso? Finalmente ne conosco uno di persona: arriva in silenzio, serio, preceduto da due agenti e seguito da altri due: il Maggiore Ragosa fa prendere in carico l’autorizzazione permanente al prelevamento, fa annotare l’orario sul registro e procede alle presentazioni.
Mannoia mi chiede conferma del mio grado, “ispettore”, e da quel momento si rivolgerà sempre a me con quello, in presenza di altre persone, sempre e soltanto dandomi un lei, ovviamente ricambiato. Mi scruta, quasi a pesarmi, poi senza parere, ma con attenzione, osserva i colleghi che sono entrati con me: mi chiede se saremo sempre gli stessi. Gli do piena assicurazione per quanto riguarda la mia persona, e una generica conferma per gli altri che di volta in volta mi accompagneranno.
Mi chiede anche se fra noi ci siano dei siciliani. Gli dico che nel nostro ufficio ce ne sta qualcuno, ma nessuno che sia impegnato nei servizi che lo riguardano direttamente: sembra soddisfatto, e me ne domando per un attimo la ragione. Mi guardo bene dal porgli domande, dal familiarizzare: col tempo si vedrà se è il caso. Il volto è scuro, pensieroso, e mi sembra giusto evitare chiacchiere: ho l’incarico di scortarlo e di tutelarne l’incolumità, a quello mi devo attenere.
La strage di Bagheria, uccise le tre donne di Francesco Marino Mannoia
Dopo la trasferta a Regina Coeli riprendemmo a lavorare a pieno ritmo, anche il primo novembre; godemmo di qualche giorno di sospensione dalle attività solo dal 19 al 22, e si ricominciò a verbalizzare il 23. Il 23 novembre del 1989 si presentò come una giornata come altre, freddina, piovosa e con il solito maledetto traffico sul Raccordo Anulare, ma alle nove e un quarto avevo già intestato il verbale e iniziammo a scrivere.
Verso la fine della mattinata arrivarono De Gennaro e Alessandro Pansa con un album fotografico; già altre volte era successo, in precedenza, che venisse qualcuno a portare carte, o che De Gennaro si affacciasse un momento a vedere come procedeva, ma stavolta Falcone mi fece dare atto nel verbale della presenza dei due funzionari, che si trattennero fino alla fine della mattinata.
Il pomeriggio trascorse senza ulteriori novità, la scorta di ritorno al carcere di Casal del Marmo si svolse senza incidenti e la sera alle dieci eravamo di ritorno in ufficio, in viale dell’Arte. Quando tornavamo a quell’ora, di solito trovavamo ad aspettarci soltanto il piantone e un collega della segreteria che ci faceva riporre negli armadi blindati gli M12 e i giubbotti antiproiettile, ma già arrivando al cancello quella sera capii che qualcosa non quadrava.
Il parcheggio interno era pieno di macchine, dentro tutte le luci erano accese, e in ufficio c’era un sacco di gente, facce scure, espressioni preoccupate. Inusuale. C’è anche Francesco Gratteri, che mi viene incontro sulla porta e mi chiede: – Tutto bene, Maurizio? La domanda mi pare oziosa: siamo lì, quindi mi sembra ovvio che non ci siano stati problemi. Rispondo con un laconico “certamente…”, che faccio seguire da evidenti punti di sospensione, rivolgendo un eloquente sguardo all’ufficio affollato.
Non ci gira intorno: – A Bagheria stasera hanno ammazzato la madre, la sorella e la zia di Mannoia – secco. Il mio primo pensiero va alle parole di Antonio Manganelli, quando con espressione improvvisamente seria, poco più di due mesi prima, ci aveva detto: ragazzi, qui si muore! – Quando è successo? – chiedo. Mi faccio due conti: hanno preferito che Mannoia venisse informato dal Maggiore Ragosa, e mi dico che probabilmente avrei fatto anch’io lo stesso: dopotutto il rapporto con noi della Polizia è un rapporto di lavoro, formale, mentre paradossalmente il carcere è la “casa” e i secondini sono la “famiglia”.
Faccio mettere a posto le armi e aspettiamo disposizioni: poco prima di mezzanotte Gratteri mi dice che per il giorno dopo il servizio è confermato. L’indomani mattina, alle sei, al posto della solita blindata e della 33 di scorta abbiamo tre auto blindate e in armeria ci fanno trovare gli M12 con i caricatori doppi e già nastrati: è finita la riservatezza, e lo Stato mostra tutti i muscoli che è riuscito a mettere insieme con il minimo preavviso. A Casal del Marmo, in caserma, attendo Mannoia.
Arriva accompagnato dal Maggiore Ragosa. Il viso è grigio e segnato, ma non vi è traccia evidente di emozioni, gli faccio le condoglianze, che accetta ringraziandomi in maniera composta, e gli chiedo, come mi è stato detto di fare, se se la sente anche oggi. – Un impegno è un impegno – risponde asciutto. Ci avviamo. Il tempo della riservatezza è finito, la scorta da discreta è diventata operativa, non risparmiamo sui segnali e c’è tolleranza zero per chi intralcia il passaggio.
Mi fido della guida di Franco, che sa come farsi largo nel traffico, e non voglio farmi precedere da una delle altre blindate, preferisco vedere prima di tutti quel che ho davanti; dietro, nelle altre due macchine, ci sono otto colleghi: quelli che occupano i posti posteriori stanno seduti di traverso rispetto al senso di marcia, schiena contro schiena, con gli M12 imbracciati: la Polizia non ha saputo evitare la strage, ma adesso si gioca a carte scoperte, dal momento che non se ne può fare più a meno.
Anche a Casal del Marmo hanno alzato i livelli di allerta: incontro auto che pattugliano il perimetro esterno del complesso, mentre all’interno c’è personale in stato di allerta. Mannoia mi dice, con amarezza e insofferenza, che l’innalzamento delle misure di sicurezza ha riguardato anche la sua persona, e che viene inquadrato dalle telecamere senza interruzione.
La cosa non è facile da sopportare, le sue obiezioni sono ragionevoli: non c’è riservatezza neppure per il lutto, bisogna sorvegliare i potenziali nemici, non chi ti sta offrendo la collaborazione, eppure mi rendo conto che allentare le misure appena rafforzate dopo la strage di Bagheria costituirebbe una pesante responsabilità; nessuno se la sente, almeno per ora.
L’Opinel
In quei giorni capita un altro episodio che fa aumentare il credito di cui godo da parte di Mannoia; siamo in ufficio, al Nucleo, per esigenze investigative, e sto preparando le carte per la scorta dell’indomani: devo fare una fotocopia del provvedimento di Giovanni Falcone che dispone la traduzione per l’interrogatorio e mandarlo per la notifica al difensore.
I fogli sono spillati, la levapunti stenta, fatico a staccare la graffetta metallica che unisce il provvedimento vero e proprio dal frontespizio del fax. Dal cassetto della scrivania tiro fuori il mio coltello Opinel, lo apro e allargo il maledetto punto. Mannoia mi osserva, guarda con interesse il mio Opinel. – Bello! – esclama con convinzione – E accenna ad allungare la mano per guardarlo meglio, ma il gesto si ferma a metà. Sono secondi, frazioni di secondo, non ho tempo per fare valutazioni troppo ragionate.
Siamo soli nella stanza, all’interno del Nucleo Centrale Anticrimine, la finestra è chiusa anche con una grata metallica e un’evasione mi pare alquanto improbabile, anche se non si può mai dire. Il coltello è di rispettabili dimensioni, chi mi dice che non gli venga in mente di usarlo contro di sé, specie in considerazione dei recenti lutti, della condizione attuale e dell’incertezza del futuro? Sono secondi, frazioni di secondo. Prima che lui abbia il tempo di ritrarre il braccio teso a metà, gli porgo il coltello, dalla parte del manico.
Lo guarda, ne apprezza l’impugnatura di legno lucido, con la scritta trasversale, la lama affilata dalla forma caratteristica. Osserva il meccanismo ad anello che lo mantiene aperto, lo ruota, poi lo chiude accuratamente mettendolo in sicura e me lo restituisce.
Non ci sono state parole, ma capisco che lui sa perfettamente cosa mi è passato per la mente, ha letto i miei dubbi e ha apprezzato la mia decisione di fidarmi. Difficilmente un uomo d’onore commette atti di autolesionismo: nella cultura mafiosa c’è anche l’educazione alla sopportazione e ad accettare le avversità con dignità, ma io non so ancora quasi niente di mafia e del concetto di dignità, ho accettato il rischio e mi sono fidato per istinto, non per calcolo.
Un gesto, è stato solo un gesto, banalissimo agli occhi di un osservatore, ma ha consentito a due persone di spiegarsi e di comprendersi meglio di tante parole.
Stanze piene di fumo e di misteri, i verbali con il giudice Falcone
Insomma, doppio lavoro e doppia tensione: prima nel traffico, poi stando attento a non commettere errori durante la verbalizzazione. Non avevo mai lavorato, fino ad allora, così a diretto contatto con i magistrati, e poi, insomma, parliamo di una quasi leggenda: il dottor Falcone, mica uno qualunque.
Mi auguro che sia bravo a dettare, perché non è che sia cosa facile riassumere un discorso, a volte complesso, in poche righe, e renderlo comprensibile a chi quel discorso non lo ha ascoltato, ma lo leggerà sintetizzato.
Un conto, infatti, è ascoltare una conversazione, della quale cogli i toni, le iperboli, il senso a volte ironico, le sfumature di significato di qualche termine, le incertezze, le pause e le incomprensioni tra gli interlocutori, e un altro conto è restituire, necessariamente in poche parole e in maniera asettica e obiettiva, i contenuti di un discorso.
Beh, Falcone era davvero bravissimo: un grande potere di sintesi e molta attenzione ai particolari da inserire nel racconto, che sono fondamentali per facilitare la successiva ricerca di elementi di riscontro. Le dichiarazioni di un collaboratore hanno una valenza limitata, infatti, o quasi inesistente, se non sono supportate da elementi di riscontro, e di solito chi deve cercare gli elementi a sostegno non ha ascoltato il racconto integralmente; allora diventa importante, nella sintesi di un verbale, introdurre tutti quei dati che possono essere verificati, o smentiti, ma che comunque siano d’aiuto a ricostruire l’evento e a collocarlo nel tempo e nello spazio.
Più tardi, anni dopo, anche a causa delle polemiche intervenute per gli errori di sintesi lamentati un po’ da tutti, si introdusse l’uso di registrare gli interrogatori, innovazione che avrebbe dovuto garantire, almeno nelle intenzioni, la necessaria trasparenza nell’uso giudiziario delle trascrizioni, e ha, invece, solo aumentato la confusione, almeno a parer mio. […] .
La bravura del giudice Falcone
Falcone, dicevo, era davvero bravo a sintetizzare i discorsi, senza interpretarli e lasciandone inalterati i contenuti essenziali: aveva una scaletta degli argomenti che intendeva trattare nel corso dell’interrogatorio, e se qualcosa di nuovo emergeva in corso d’opera, aggiungeva la voce alla scaletta, o annotava a parte. Mannoia parlava e, grazie a una memoria che aveva del prodigioso, ricordava con precisione e con dovizia di particolari, mentre il giudice prendeva qualche appunto.
Finito il racconto, Falcone dettava la sintesi, e io ero anche facilitato, nello scrivere, avendo appena finito di ascoltare Mannoia stesso. Devo dire che il timore reverenziale che avevo pensato di provare quando Francesco Gratteri mi aveva preannunciato l’incarico supplementare di estensore di verbali si era rapidamente dissolto; e poi, tra lo stare per ore nella stanzetta a giocare a carte e l’assistere da un posto di prima fila alla rivelazione di fatti, relazioni, eventi che avevano costituito prima di allora solo oggetto di speculazioni e di ipotetiche ricostruzioni, beh, non c’era proprio paragone! Storie vere di fatti eclatanti, di fatti di vita e di sangue, racconti che suscitavano angoscia, sgomento, pietà, incredulità; a volte persino divertenti, in alcuni risvolti.
Falcone era così felice che sembrava un ragazzino: quasi si leggeva, nei suoi occhi attenti, la soddisfazione per la conferma di una sua vecchia intuizione, l’attenzione per l’emersione di un particolare nuovo, o di retroscena neanche immaginabili: era la felicità della scoperta della verità su qualcosa a lui particolarmente caro: Palermo e la Giustizia, la Sicilia e i siciliani.
Non credo che sarebbe stato lo stesso se a interrogare Mannoia fosse stato un magistrato non siciliano: se non sei nato, cresciuto e vissuto in quella terra, fatichi a comprendere situazioni, motivazioni, concause e passioni; Falcone e Mannoia si capivano al volo: da siciliano a siciliano, anzi, da palermitano a palermitano, che è qualcosa ancora di più… Io, invece, a volte mi sentivo un pesce fuor d’acqua: un dilettante dell’antimafia capitato lì per caso. Il 31 ottobre, al secondo giorno di lavoro, nel verbale scrissi Stefano Bontade, anziché Bontate, e mal me ne incolse, perché Falcone mi fulminò: «Chi si occupa di Cosa nostra – disse severo – non può commettere certi errori».
Certo lui non sapeva che io in Sicilia c’ero stato solo un paio di volte, che prima di allora m’ero occupato quasi solo del “pronto intervento” sulle questioni più disparate, mica sapevo, io, di mafia e di antimafia… Però aveva ben presente la diffusione e la pericolosità dell’organizzazione criminale, e sottolineava spesso quanto fosse importante la padronanza di ogni informazione e la conoscenza di ogni dettaglio sul proprio avversario, e giustamente se ne preoccupava anche per conto di quelli che avevano, invece, la propensione a minimizzare. Ignorante ero, sì, di Cosa nostra e dei fatti siciliani, ma mi appassionavo in fretta, tanto che Falcone, che se n’era accorto, quando Mannoia se ne usciva con termini in dialetto stretto, me li traduceva ridendo indulgente, bonario, così come fa un maestro di buona musica che si trova a insegnare a un allievo tanto poco portato per la materia quanto volenteroso e desideroso di apprendere.
Gli interrogatori si svolgevano nel teatro dell’Istituto Superiore; la sala non era molto grande, saranno stati un duecento posti o giù di lì, pesanti tendaggi di velluto, quelli dei cinema di una volta, oscuravano le poche finestre poste in alto e protette da grate metalliche, che si affacciavano sulla strada dalla parte che guardava l’ansa del Tevere; sempre in fondo, sullo stesso lato, si apriva il portoncino dal quale entravamo e uscivamo.
C’erano due accessi interni: quello del pubblico era stato chiuso a chiave e sbarrato, con il pretesto di lavori in corso, e quello di servizio, che metteva in comunicazione il palcoscenico con una scala interna attraverso una piccola saletta dove si andava a sistemare la scorta. Sul palcoscenico la direzione dell’Istituto aveva fatto mettere un paio di scrivanie, poste perpendicolarmente, e ai tre lati sedevamo noi, illuminati da un’unica grande lampadina che pendeva da un filo, in una nuvola di fumo azzurrino e stagnante, mentre il resto del teatro restava in penombra: sembrava una scenografia da film. Dietro di noi, sulla parete, un grande schermo bianco coperto da un drappo.
Fumavamo un sacco, in quel teatro, Dunhill o a volte Marlboro Falcone, MS Marino Mannoia e Camel io; Mannoia ne aveva sempre almeno tre pacchetti, ed era quello che fumava di più, mentre io, dovendo anche scrivere, ero costretto a limitarmi, si fa per dire. Più di una volta Antonio Manganelli, che non fumava, presentandosi con un album fotografico per i riconoscimenti o con qualche comunicazione urgente per il giudice, ci rimproverò tossendo, chiedendosi come facessimo invece noi a non morire soffocati.
Il secondo rimbrotto, da Falcone, me lo presi dopo qualche altro giorno di verbalizzazione, quando scrissi Nino Argano invece di Nino Gargano. Io rileggevo a voce alta il verbale, ogni tanto, quando lui me lo chiedeva per riprendere il filo del discorso là dove si era momentaneamente interrotto per qualche digressione durante l’esposizione, e s’accorse subito dell’errore: – Ma che scrisse davvero “Argano”? – mi chiese, con un lampo di severità negli occhi.
Io di certo timori non ne avevo, tanto più sentendomi nel giusto, e risposi che era scritto così come loro due, e sottolineai tutti e due, l’avevano pronunciato, ma che se era scritto male lo potevo ancora correggere. Intervenne Mannoia, quasi a scusarsi: – Nuantri così lo chiamavamo… Falcone si mise a ridere: – No, no, – disse – si chiama Antonino Gargano, ma u lassasse accussì, ispettore, che sa più di spontaneo e nessuno potrà dire che si tratta di cosa accomodata.
E me lo disse proprio così, in dialetto, dialetto che usava in diverse occasioni con Mannoia, durante gli interrogatori, quasi a sottolineare che la lingua che li accomunava era il miglior ponte possibile tra le rispettive realtà. – E non si preoccupasse, – aggiunse – che prima di delegare gli accertamenti i verbali in ufficio a Palermo me li ripassa Giovanni Paparcuri, e al bisogno ci mette le precisazioni!
A sentire il nome ho un sussulto: Giovanni Paparcuri è un dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che si è miracolosamente salvato, pur rimanendo gravemente ferito, nell’attentato con l’autobomba in cui sono rimasti uccisi, nel 1983, il giudice Chinnici, due uomini della scorta e il portiere dello stabile dove abitava il giudice. Lo conosco solo di nome e di fama, non sapevo che dopo l’attentato non solo avesse continuato a lavorare, ma fosse ancor più impegnato in prima linea: uno da cui imparare, insomma.