LETTURE/ “I diari di Falcone” e quei misteri delle stragi che non sfuggono alla coscienza

 

Giovanni Falcone (1939-1992) nel 1988 (Ansa)

 

Rimane di grande interesse il lavoro di Edoardo Montolli, “I diari di Falcone. Le verità nascoste nelle agende elettroniche del giudice”

 

 

Nei delitti politico-mafiosi c’è sempre una costante: la sparizione di reperti fondamentali per l’investigazione. Grazie alle raffinate metodiche attuali, sarebbe possibile risalire al Dna degli assassini di Piersanti Mattarella (Epifania 1980), partendo dal guanto lasciato dai criminali sull’auto usata per il delitto e ritrovato dalle forze di polizia. Il guanto in oggetto, fonte di prova decisiva, risulta però introvabile nell’ufficio preposto.

Viene perciò da pensare a una coerente linea di ostacolo all’azione di accertamento dei fatti che si sussegue imperterrita nel tempo. Dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982), infatti, una mano molto attenta e ben guidata fece sparire i documenti presenti nella borsa del generale e anche quelli che si trovavano nella cassaforte chiusa a chiave nella camera da letto del suo appartamento.
E dieci anni dopo, nella terribile strage di Via d’Amelio in cui morirono Borsellino e la sua scorta, fu ritrovata la borsa del giudice, ma la sua agenda rossa, prelevata immediatamente dopo l’esplosione, risultò incomprensibilmente perduta. La strage fu caratterizzata non solo dalla scomparsa dell’agenda rossa, fondamentale per ricostruire il complesso quadro su cui indagava il giudice, ma anche da uno tra i più incredibili e gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.
Un falso pentito di bassa caratura criminale, infatti, si accusò della strage sotto la spinta di minacce e intimidazioni degli organi di sicurezza, sviando le indagini dai veri autori.

Pure la strage di Capaci è stata segnata da fatti strani e inquietanti, come sottolinea Edoardo Montolli ne I diari di Falcone. Le verità nascoste nelle agende elettroniche del giudice (Chiarelettere, 2023). Dopo la morte del giudice, infatti, scomparve una memoria esterna su cui Giovanni Falcone immetteva dati importanti, e dai suoi computer protetti da password in una stanza sotto sequestro furono aperti dei file per più giorni. Aprendo, inoltre, le agende elettroniche usate dal giudice, gli esperti (Gioacchino Genchi, uscito indenne da successive indagini giudiziarie, e Luciano Petrini, poi ucciso in circostanze misteriose) restarono di sasso: i contenuti erano stati cancellati. La cancellazione non poteva essere stata involontaria, perché alcuni tasti andavano digitati più volte per confermare la cancellazione. Nonostante ciò, grazie all’aiuto di tecnici giapponesi della Casio, i consulenti riuscirono a decodificare alcuni impegni programmati dal giudice Falcone: un convegno in Spagna, la partecipazione alla mattanza di Favignana e un incontro con il procuratore Giammanco. Sull’agenda Casio furono ritrovati anche altri appunti, decisamente interessanti, quelli di un viaggio dal 28 aprile al 1° maggio negli Usa. Di tale viaggio diede conferma il procuratore di Brooklyn Charles Rose nella trasmissione di Michele Santoro Il rosso e il nero del 22 aprile 1993, dicendo di avere incontrato Falcone nel mese di aprile dell’anno precedente. Rose disse inoltre che il giudice nel suo viaggio aveva visto il pentito Buscetta.

Il procuratore americano, successivamente, rinnegò quanto aveva detto, mentre Buscetta disse che aveva visto Falcone l’ultima volta nel 1988. Ma la giornalista Maria Cuffaro il 4 gennaio 1996 testimoniò che Rose aveva parlato anche al giornalista Di Bella dell’incontro tra Falcone e Buscetta. Cuffaro affermò, inoltre, di aver avuto conferma del viaggio di Falcone negli Usa sia da Dick Martin, ex Fbi, che da Larry Byrne del Dipartimento di Giustizia.
I due alti funzionari, però, negarono la presenza di Falcone negli Usa a fine aprile 1992. Conferme del viaggio in America di Falcone furono date, invece, sia da Giuseppe Ayala che dal giudice Carlo Palermo. 
Palermo è tra l’altro una delle memorie storiche del periodo più torbido della repubblica. Autore di indagini importanti su traffici d’armi internazionali, che vedevano coinvolti anche attori esteri eccellenti, subì un terribile attentato nel 1985 a Pizzolungo, rimanendo ferito. L’attentato causò la morte di una mamma con i suoi due bambini.

I misteri del 1992 sono insomma davvero tanti e tutti collegati a un periodo storico di complessa transizione storica. Nel periodo in cui Falcone era a Roma ebbe, infatti, un incontro molto delicato con il procuratore russo Valentin Stepankov, che indagava su un flusso imponente di denaro trasferito illegalmente da Mosca in Europa.

Montolli dedica ben 21 pagine del suo libro al tema del riciclaggio dell’oro del Pcus e al grande flusso di denaro che nel secondo dopoguerra da Mosca arrivava al Pci. Questioni delicate collegate all’attività di Falcone su cui Stepankov, interpellato successivamente, si è rifiutato di parlare.

Tornando, comunque, al mistero del viaggio negli Usa di Falcone, negato dalle autorità, non si possono tacere altre stranezze. Montolli rileva che Buscetta parlò al giudice Leonardo Guarnotta, prima delle stragi del 1993 sul continente, di un attacco al patrimonio culturale italiano. Sorge spontanea una domanda. Come faceva Buscetta, esponente della mafia perdente, protetto dall’ Fbi, a sapere o a prevedere con precisione cosa sarebbe avvenuto e cosa avrebbe fatto la mafia dei corleonesi a lui avversa?

Il boss pentito non fu l’unico a parlare di un progetto stragista. Elio Ciolini, faccendiere legato all’estrema destra e depistatore della strage di Bologna (1980), agli inizi di marzo del 1992 scrisse una lettera al giudice istruttore di Bologna in cui descrisse una nuova strategia della tensione che si sarebbe realizzata nei cinque mesi successivi con esplosioni, omicidi di uomini politici e il sequestro o l’uccisione del Presidente della Repubblica. A distanza di pochi giorni dalle dichiarazioni del faccendiere fu ucciso il politico democristiano Salvo Lima. Nelle agende di Ciolini, peraltro, furono trovati numeri telefonici di rappresentanti dei servizi di sicurezza esteri più importanti.

In un contesto così grave, con lucidità e trasparenza, Vincenzo Scotti, ministro degli Interni, il 20 marzo 1992 dichiarò: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata: io me ne assumo tutta la responsabilità”.

Di un tentativo di golpe, collegato a Via d’Amelio, parlò diversi anni dopo anche Francesco Cossiga alla vedova Borsellino con una breve telefonata fatta prima di morire. Agnese Borsellino, però, non ebbe ulteriori precisazioni dall’ex Presidente della Repubblica, poiché Cossiga concluse subito la telefonata.

Vittorio Sbardella, politico in vista al tempo, nell’anno cruciale parlò di “un botto esterno” e di un possibile piano di destabilizzazione di matrice americana in Italia. Era quello il periodo che faceva seguito alla crisi di Sigonella e alla rivelazione dell’esistenza di Gladio da parte di Andreotti (1990). L’Italia, fedele al Patto atlantico, mostrava tuttavia una postura internazionale più autonoma e prudentemente attenta alla svolta gorbacioviana e agli indirizzi post-sovietici. Non a caso personaggi ambigui come il neoconservatore Michael Leeden, studioso di Machiavelli e del fascismo, facevano sentire nei loro interventi pubblici la perdurante necessità dell’egemonia americana in un mondo in rapido cambiamento, a seguito della caduta del muro di Berlino.

L’ Agenzia Repubblica – da non confondere con la testata giornalistica –, diretta da un sodale di Federico Umberto D’Amato, dominus dell’Ufficio Affari Riservati coinvolto in tanti misteri italiani, pubblicò, in quel tormentato periodo, due dispacci, il 21 e il 22 maggio del 1992 (la strage di Capaci avvenne il 23 maggio) con la sinistra premonizione di un attacco terroristico.

Un groviglio intricato, insomma, in cui messaggi neanche tanto velati di menti raffinatissime dovevano arrivare a chi di dovere per sottolineare i reali rapporti di forza in gioco.

Alla strage di Capaci sono connessi anche altri buchi neri. Poche ore prima dell’attentato, di notte, fu visto da testimoni affidabili (un poliziotto e il cognato del generale Dalla Chiesa), in prossimità del luogo dell’attentato, un furgone bianco con alcuni operai. Non erano stati autorizzati cantieri o lavori in zona dalle autorità. Perché dunque quegli uomini al lavoro? Chi erano? L’accaduto ha fatto quindi pensare alla collocazione di due cariche esplosive: una con tritolo collocata dai mafiosi in un canale sottostante al manto stradale con uno skateboard, e un’altra con materiale ancora più dirompente posta in superficie da mani molto esperte. In effetti, l’azione altamente distruttiva, effettuata proprio in concomitanza con l’elezione del Presidente della Repubblica e contro un bersaglio in movimento ad andatura veloce, fa subito pensare a capacità tecnico-militari di alto livello e non alle pur significative conoscenze terroristiche della criminalità mafiosa.

Altra questione critica, rilevata da Montolli, resta l’intercettazione da parte dei mafiosi (solo loro?) del piano del volo di Stato riservato su cui viaggiavano Falcone e la moglie. L’arrivo esatto di un volo sotto copertura per sua stessa definizione non può essere scoperto. È possibile, perciò, ipotizzare un’informazione data agli stragisti da servitori infedeli dello Stato.

Al momento dell’attentato terroristico, peraltro, fu visto da diversi testimoni un Piper che sorvolava la zona dell’esplosione: l’impulso al radiocomando potrebbe essere partito da lì e non dal mafioso Brusca? Dopo l’attentato, infine, da un cellulare clonato in possesso agli stragisti furono fatte telefonate a un numero del Minnesota.

Misteri, dunque, che nella loro gravità e complessità conducono anche a ipotizzare probabili attori esterni a Cosa nostra interessati a condizionare e indirizzare con il terrore la politica italiana. Misteri blindati, che continuano in parte a sfuggire alla presa di chi indaga. Misteri che, però, non si cancellano con un colpo di spugna dalla coscienza degli autori delle stragi e da quella dei loro mandanti trincerati nei loro poteri occulti.

Ognuno di noi, ad ogni modo, anche se non è visto o scoperto, sa chi è, cosa fa e cosa ha fatto. Nessuno, dunque, può sfuggire per sempre alla verità. Resta in tutti impresso un giudizio ultimo: il male è male, il bene è la confessione.

 

Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò Cosa nostra