24.8.1993  ARCHIVIO 🟧 Pianosa l’inferno azzurro dei boss

 

Il capoclan Tommaso Spadaro «Qui starei bene se solo potessi abbracciare i nipotini» Le celle di massima sicurezza confinano con un mare splendido Pianosa, l’inferno azzurro dei boss Tra i 110 mafiosi nel carcere dell’isola L’ALCATRAZ DI COSA NOSTRA PIANOSA DAL NOSTRO INVIATO L’aneddotica di Cosa Nostra vuole che il boss Tommaso Spadaro, palermitano della Kalsa, sia considerato uno dei pochi – tra lor signori – capace di cedimenti all’ironia e persino incline a sorridere di se stesso e delle proprie sventure. Per avere un’idea del personaggio, basti pensare che una notte la Guardia di Finanza lo inseguì a nuoto fino al Grand Hotel di Villa Igea, durante uno sbarco di «bionde» andato a male. Don Masino fu trovato al bar, con un drink in mano, in affabile conversazione con Alfonso, barman dell’albergo. Dava poca importanza, il boss, al fatto che il suo abito rattrappito^ le scarpe zuppe, l’acqua salata che gli usciva dai pantaloni, lasciavano chiaramente intendere come fosse appena approdato da una nuotata in mare. Motivo per cui, mentre i finanzieri lo portavano via in manette, il boss si lasciò andare ad una battuta: «Adesso è reato pure l’aperitivo a Villa Igea». Non sembra aver perso molto della sua innata giovialità, dopo undici anni di carcere, il buon don Masino. Neppure adesso che 10 hanno portato alla Cajenna, cioè nell’isola di Pianosa, tormento di capi e gregari di tutte le mafie. Sorride affabile, Spadaro, in maglietta variopinta e pantaloncini chiari. Sorride a Emma Bonino – in visita ispettiva nell’isola – che gli chiede notizie sullo stato e condizioni dei detenuti. Se ne sentono tante di notizie contrastanti, la segretaria dei radicali è venuta per toccare con mano. Spadaro sorride anche al direttore, Tommaso Contestabile, che ricambia il saluto deferente oltre la cordialità. «Cajenna? Inferno? Ma non diciamo fesserie. I giornali inventano, lo sappiamo. La Pianosa è un carcere come tutti gli altri. Il carcere è uguale ovunque, dall’Ucciardone a Milano». Don Masino, secondo le migliori tradizioni del detenuto modello, spende parole per il «personale penitenziario altamente specializzato». «Non è questo, onorevole Bonino, il problema». Già, allora qual è? «Lei è 11 nuovo segretario del partito radicale, vero? Ne fate voi miracoli, l’ultimo lo avete fatto col fax lungo sei metri che ha salvato una vita…». Sì, qualche volta i miracoli avvengono, ma qual è il problema di Pianosa? «Non c’entra il posto… Qui la storia è il 41 bis». Eccolo il problema. Il decreto del governo, prorogato di sei mesi nello scorso luglio. Per effetto del «41 bis» i soggetti più «pericolosi» della criminalità organizzata sono tenuti in un regime carcerario «differenziato»: una visita mensile dei familiari più stretti, colloquio attraverso il vetro opaco antiproiettile, niente telefono, un’ora d’aria al mattino, una al pomeriggio, posta «censurata», divieto di corrispondenza con altri detenuti. Chiaro? Questo per impedire che la «cupola» possa dare ordini dal carcere, come hanno spiegato i massimi responsabili dell’Interno e della Giustizia. Se a tutto ciò si aggiunge che Pianosa è un’isola, che non è facilmente raggiungibile, si capisce come alla fine sia stata idealmente accostata al penitenziario di Alcatraz. Malgrado tutto, però, come dice da dietro le sbarre blu don Masino Spadaro «qui si sta meglio che altrove». «Se non fosse per i picciriddi…». Cosa c’entrano adesso i bambini? «Vede, onorevole Bonino, io ho tre nipotini, piccoli. Sono figli di mia figlia. Non mi conoscono, ogni volta che me li portano sono costretto a salutarli da dietro il vetro del parlatolo perché i parenti non ce li fanno neppure abbracciare. Possiamo parlare attraverso il citofono, ma coi picciriddi è possibile parlare in questo modo?». Ahi, cuore di nonno. Ce la fa ancora a crearsi l’attenzione intorno, il vecchio don Masino. E il seguito del suo «numero» non è del tutto privo di una qualche ragione. «Io sono “definitivo”, cioè devo farmi trent’anni. Ne ho fatti già undici. Non sto a discutere se la sentenza fu giusta o sbagliata. Voglio semplicemente ricordare che mi hanno dato il regime differenziato dopo le bombe di Borsellino, a luglio del ’92. E io stavo già in carcere. Hanno prorogato il decreto di sei mesi dopo le altre bombe di Roma e Firenze e la maggior parte di noi stava già in carcere. Insomma, vuol dire che ogni volta che scoppia una bomba chi è dentro ne deve pagare le conseguenze? Allora era meglio che mi condannavano a morte. O no?». Da buon protagonista, don Masino chiude con la battuta ad effetto: «Questo Stato non dà pene. Esercita la vendetta». E’ un’isola nell’isola la sezione Agrippa, dove vivono i 110 mafiosi e camorristi sottoposti alla «detenzione speciale» per via del decreto varato dall’allora ministro Claudio Martelli. Era il 20 luglio del 1992: in via D’Amelio ancora fumavano le rovine provocate dagl’attentato al giudice Borsellino.’ In una sola notte, «una notte d’inferno» ricorda Pierpaolo D’Andria, il giovane vi¬ cedirettore del penitenziario, Pianosa si trasformò in carcere di massima sicurezza. Non c’erano neppure i posti letto per gli agenti e così per settimane furono costretti a dormire in unajiave ferma in rada davanti all’isola. Che macello, quei giorni, con gli elicotteri che scaricavano detenuti raccolti dalle carceri di tutta Italia. E pensare che Pianosa si apprestava ad essere smantellata, per entrare nelle mire di giganti del settore turistico che iniziavano le manovre per trasformare l’isola in un paradiso per ricchi. Già, perché Pianosa è davvero bella. Anche la parte delimitata dal tetro muraglione grigio voluto dal generale Dalla Chiesa all’epoca del terrorismo. E i detenuti «normali», quelli che non sono ritenuti pericolosi, sono la dimostrazione di quanto l’isola possa addirittura rappresentare un’aspirazione. Qui fanno a gara per venirci. Perché se non sei vincolato al fatidico «41 bis» riesci a fare una vita quasi normale. Il carcere è abituato all’autarchia. «Per quanto possibile, naturalmente» precisa Pierpaolo D’Andria. Mostra l’allevamento di animali e tradisce la sua vocazione ambientalista, puntualizzando che «le capre sono state eliminate perché rovinavano le piante». Il piccolo caseificio è affidato ai detenuti cosiddetti «sconsegnati», cioè quelli che non hanno neppure l’obbligo di dormire in cella. Può venire qualunque detenuto comune a Pianosa? Il direttore scuote la testa e lascia intendere che tante cose sono cambiate dopo l’arrivo dei boss. «Prendiamo gente che ha un mestiere, che è di sana costituzione. Non potremmo badare ai tossicodipendenti, per esempio. Non sono ammessi i siciliani e il motivo è facilmente intuibile. Gli extracomunitari, sì. Fanno a gara per venirci. Un tempo i carcerati riuscivano a fare anche il bagno a mare: l’operazione è diventata oggi particolarmente problematica». Sono circa 200 gli «ospiti» di Pianosa, 110 sono gli «speciali». Tra agenti di custodia, poliziotti, carabinieri e rispettivi familiari, la popolazione dell’isola si aggira sulle 600 unità. Un piccolo paese che si sta riorganizzando lentamente: l’ufficio postale, lo spaccio, la sala giochi. Si sta ristrutturando l’edilizia, costruzioni di fine ottocento che ricordano atmosfere antiche. Servono alloggi per il personale. Certo, sarebbe auspicabile un attracco più agile per i mezzi di trasporto, ma non sarà possibile immediatamente. L’aliscafo porta i familiari per le visite mensili, naturalmente scaglionate. Ci sono boss che nel parlatolo devono starci da soli perché non devono incontrarsi con altri boss. Può quindi accadere che per ultimare sei colloqui siano necessarie altrettante ore. Con la conseguenza che si perdono le coincidenze coi treni. L’aliscafo non lo perdi, sta lì e va via solo quando è carico: ma a Piombino il treno non attende. Giovedì 19 agosto, giornata nera per i colloqui. L’aliscafo ha sbarcato i familiari di mezza dozzina di boss e tutti devono star da soli in parlatolo. Motivo per cui viene chiesto all’on. Emma Bonino «la pazienza di iniziare la visita dopo le 15». , Ed eccola la sezione Agrippa. Ha l’aspetto di una caserma protetta da un pesante cancello di ferro. Dentro ci sono i tre blocchi che raccolgono «gli speciali», raggruppati secondo indicazioni acquisite dai fascicoli personali e dalle indicazioni offerte dai magistrati. Si apre una porta solo quando è chiusa quella che ti sei lasciato alle spalle. E’ una galleria di personaggi, l’Agrippa. Tutti in pigiama, o comunque in tenuta estiva. Fa caldo in quelle celle bianche come il sale, spoglie di tutto. Le suppellettili sono ridotte all’essenziale: lettino, armadietto (aperto) e sedia. Ogni «camera» (il termine cella non è gradito), tre ospiti. Un televisore per gruppo: si può tenerlo acceso dalle 8 alle 24. Poi a nanna, anche se il sonno non arriva. Le finestre lasciano entrare il cielo, il mare non si vede. E forse è meglio, sarebbe crudele guardare quei colori senza poterli vivere. I mafiosi, si sa, sono dei veri artisti della galera. L’uomo d’onore – dice il saggio – è nato per soffrire. E il carcere è uno degli strumenti che possono misurare «l’onorabilità». Sarà dunque per via di tanta assuefazione alla ristrettezza, che quanto vedi alla sezione Agrippa non corrisponde all’idea offerta dalla cronaca. Eccolo Nitto Santapaola. Dietro quelle sbarre, seduto all’estremità del lettino con le lenzuola linde, sembra ancora più piccolo. Si alza e saluta, ma parla poco. Alla Bonino dice che «tutto va bene», le visite dei familiari «sono puntuali» ed anche «quelle degli avvocati che possono venire quando vogliono». E’ lui, pensi, che ha fatto uccidere dei bambini colpevoli di aver scippato la madre? E’ lui il capo di Cosa Nostra della Sicilia orientale? Sì, le sentenze, le indagini dicono di sì, ma davanti ti ritrovi uno che non dice neppure di essere ammalato. Gli viene incontro il compagno di cella che sussurra: «Sta male, ha il diabete. Qui fanno il possibile ma avrebbe bisogno di cure particolari». Timidezza o fredda strategia? Cella numero 8: Leonardo Coppola e Pietro Montalbano. Il primo, anziano e naturalmente «innocente», dice: «Mi hanno dato l’associazione. Se associazione vuol dire dedizione al lavoro, io sono colpevole». Accanto c’è il palermitano Di Giacomo: parla un italiano condito di «eufemismi» e di «condanne apodittiche». Ignora – almeno così dice – lo sciopero della fame dei detenuti di mezza Italia. «Ma perché lo hanno fatto?», si chiede con una punta di ironia. E che dire di Giacomo Gambino? I giudici lo descrivono come il più efficiente alleato di don Totò Riina, il «Padrino». Gradisce la visita del deputato radicale, lascia per un attimo la lettura di un settimanale e si avvicina. «Tutto a posto, se non fosse per l’isola mento. Sa, abbiamo perso le famiglie». E’ la corda toccata da Spadaro. Don Masino ascolta il racconto dei suoi compagni di sventura. Parlano Antonino Labita e Giovanni Bastone. Uno è ex amministratore comunale sospettato di mafia. Spadaro non si lascia scappare l’occasione: «Ci sono due codici, onorevole Bonino, uno per il Nord, l’altro per la Sicilia. A Milano il reato si chiama corruzione, al Sud è mafia». Ma è Giuseppe Rogoli, imperatore della Sacra Corona Unita (la quarta mafia, quella pugliese), che assume il ruolo del tribuno. Sta in cella con Gambino, dimostra una lunga conoscenza col direttore Contestabile. «Pianosa non c’entra», esordisce. Anche lui tira in ballo ia storia del «41 bis». «Nessuno mi ha ancora spiegato perché sto in isolamento. In che cosa consiste questa pericolosità? Davvero siamo alla negazione di ogni diritto. Io non sono un sognatore, sto in carcere da troppo tempo per avere ancora illusioni, ma questo decreto del regime speciale non lo digerisco proprio. Sono cosciente che dovrò abbassare la testa, moralmente si intende. Ma vorrei che qualcuno mi chiarisse com’è possibile che passino simili enormità». C’è tensione in questi incontri. La sofferenza, anche se raccontata da uomini descritti come assassini, lascia il segno. Fa impressione il camorrista Raffaele Stolder che dalla cella numero 5 parla di sua moglie «arrestata mentre badava ai miei cinque figli e per loro era madre e padre Perché anche lei, che non c’entra niente?». Nino Sinagra, ergasto lano, spiega che non sa ((perché sono all’isolamento». Giuseppe Lottusi, accusato di riciclaggio, se la prende a ridere: «Il pm ha chiesto dodici anni, la Corte me ne ha dati venti. Forse è meglio non fare neppure il ricorso». L’allusione è alle sefitenze ((politicamente esemplari». Gli fa eco Francesco Giambrone: «Ho settanta anni e devo scontare gli ultimi tre mesi. Ma perché non mi mandano a casa, invece di tenermi all’Isola. Ho cercato l’avvocato… ma quello sta in ferie, beato lui». Già, gli avvocati. Pare di caphe che Pianosa ha provocato un certo attrito tra legali ed assistiti. Per arrivare nell’isola occorrono due giorni, motivo per cui i difensori hanno rarefatto le visite Anche questa è conseguenza del «41 bis», conferma Salvuccio Madonia, figlio del capo della mafia palermitana. Aggiunge che i familiari non sempre sono in grado di affrontare le fatiche di un «viaggio disagevole». E, alla fine, se la prende con quanti hanno sostenuto che «da Pianosa sono usciti i bigliettini con gli ordini per le bombe». «E’ un’offesa – gioca facile Madonia – a questa gente». E indica la polizia penitenziaria e il direttore del carcere. «Ma la parola dei pentiti vale più di qualsiasi altra», è la sentenza. La visita ha termine prima del previsto: troppe emozioni costringono Emma Bonino a chiedere di poter tornare fuori a respirare. Francesco La Licata Il capoclan Tommaso Spadaro «Qui starei bene se solo potessi abbracciare i nipotini» Tra i detenuti anche Santapaola Un compagno «Sta male, il diabete lo sta distruggendo» Nella foto grande il carcere di Pianosa. A sinistra Tommaso Spadaro, in alto Giacomo Gambino A sinistra il boss Nino Santapaola. Sopra il segretario radicale Emma Bonino