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“Devo premettere che sono venuto a conoscenza delle gravissime insinuazioni e delle accuse che sono state mosse nei miei confronti solo a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di stampa, che richiamavano le dichiarazioni rese davanti a codesta Commissione dall’avvocato Fabio Trizzino dal 27 settembre al 24 ottobre 2023.
L’enorme sorpresa per le accuse rivoltemi di sostanziale infedeltà,se non addirittura più gravi…”
23 gennaio 2024 TESTO DEL RESOCONTO STENOGRAFICO Audizione di Gioacchino Natoli.
PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Gioacchino Natoli, che ringrazio per la disponibilità.tv.
Prima di dare la parola al dottor Natoli mi sembra corretto dare a tutti i colleghi alcune indicazioni sul motivo di questa audizione.
Il dottor Natoli ha chiesto di essere audito per chiarire alcune circostanze emerse nei lavori della Commissione, in particolare, nel corso di alcune audizioni, è stata fatta menzione di un provvedimento sottoscritto dal dottor Natoli, nel giugno del 1992, con il quale veniva dato l’ordine di distruggere nastri e brogliacci delle intercettazioni svolte in un procedimento proveniente da Massa Carrara.
Effettivamente erano stati trasmessi una serie di atti relativi a indagini coordinate dal dottor Lama, che abbiamo sentito la settimana scorsa, della procura di Massa Carrara, che ad avviso di quest’ultimo rendevano necessario investigare, in collegamento con quell’ufficio, sull’attività del mandamento mafioso di Uditore-Passo di Rigano sul ruolo dei fratelli Buscemi e sulle cointeressenze e gli anomali rapporti professionali di costoro e delle società a loro riferibili con società del gruppo Ferruzzi.
Ne era derivata l’iscrizione di un fascicolo per associazione mafiosa e riciclaggio nel quale erano state avviate dal dottor Natoli le intercettazioni di esponenti della famiglia Buscemi Bonura e di società palermitane del gruppo Ferruzzi di cui in seguito, una volta archiviato il procedimento, era stata disposta la distruzione.
Il dottor Natoli ha fatto pervenire alla Commissione un’attestazione della procura di Palermo dalla quale si evince che, nonostante l’effettiva emissione di quell’ordinanza a sua firma, quelle bobine, cioè i nastri, e quei brogliacci, per circostanze che ovviamente in caso chiarirà il dottor Natoli, non sono stati distrutti, ma dovrebbero essere conservati negli archivi della procura.
Prima che l’audizione abbia inizio devo informare la Commissione che, a seguito di una specifica richiesta, la procura di Palermo ha comunicato che effettivamente i nastri di cui era stata disposta la distruzione erano conservati negli archivi dell’ufficio e che invece, nonostante le approfondite ricerche, non è stato possibile reperire tre dei quattro brogliacci riguardanti quelle intercettazioni.
Prego, dottor Natoli, tanto le dovevamo, a lei la parola per la relazione.
GIOACCHINO NATOLI
Grazie, presidente. Grazie, signori commissari, per questa opportunità che mi viene offerta di fornire un resoconto ordinato degli accadimenti, come risulta dai documenti ufficiali dell’epoca, rispetto ai fatti che lei ha sinteticamente riassunto, e non già le ricostruzioni inesatte se non oggettivamente false in alcuni passaggi che sono state proposte in precedenza rispetto alla mia audizione.
Devo premettere che sono venuto a conoscenza delle gravissime insinuazioni e delle accuse che sono state mosse nei miei confronti solo a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di stampa, che richiamavano le dichiarazioni rese davanti a codesta Commissione dall’avvocato Fabio Trizzino dal 27 settembre al 24 ottobre 2023.
L’enorme sorpresa per le accuse rivoltemi di sostanziale infedeltà, se non addirittura più gravi, è dovuta non tanto al fatto che mai nei 31 anni trascorsi da quei fatti, né prima di allora, è stato da alcuno anche solo ipotizzata o azzardata l’idea che la mia attività di magistrato fosse stata ispirata a principi e condotte che non fossero di correttezza, senso di giustizia e rispetto della legalità. Ma, soprattutto, perché esse si fondano su una ricostruzione degli avvenimenti reali distorta e del tutto destituita di fondamento, così come mi propongo di documentare a codesta onorevole Commissione.
Posso affermare ciò perché è cosa non dubbia che durante alcune audizioni che hanno preceduto la mia sia stato adoperato ripetutamente un metodo di schiacciamento delle conoscenze, di anticipazione delle conoscenze, senza rispettare la cronologia dei fatti processuali e degli avvenimenti storici. E così talune acquisizioni probatorie realizzatesi soltanto a partire dall’11 luglio 1997, giorno dell’inizio della collaborazione di Angelo Siino, del quale avrete già sentito parlare, sono state presentate come se fossero già conosciute dai magistrati o da altri nel 1991, cioè all’epoca dei fatti descritti nel rapporto Mafia-Appalti del ROS presentato il 16 febbraio 1991;. oppure, come nel caso di Massa Carrara del dottor Lama, sono stati narrati come fatti veri quelle che erano soltanto mere ipotesi investigative se non addirittura dei semplici sospetti.
Tanto è vero che tali ipotesi investigative non si sono mai tradotte né in una doverosa iscrizione nel registro degli indagati almeno dei ben noti fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, i quali erano già imputati a Palermo da molti anni e Salvatore, già condannato fino alla Cassazione, diventerà definitivo il 30 gennaio 1992, né nella formulazione di ipotesi di reato su cui investigare, come il codice di procedura penale prescrive obbligatoriamente a tutela dei diritti degli indagati per fare rispettare i termini massimi delle indagini. Infatti il fascicolo n. 697/90 RGNR, aperto a Massa Carrara, è sempre rimasto a carico di ignoti e senza reati ipotizzati, come dimostrato dal documento 17 rilasciatomi dalla procura di Lucca.
Questa operazione di oggettiva destrutturazione storica si è tradotta in una sostanziale immutatio veri, nel senso di dare per conosciuti nel 1991 o nel giugno-luglio 1992 fatti, avvenimenti e ricostruzioni di collaboratori che si sarebbero processualmente verificati soltanto dopo alcuni anni. Il che ha comportato, in moltissimi passaggi dell’audizione dell’avvocato Trizzino, un’oggettiva distorsione della verità, come cercherò di dimostrare in questa audizione.
Due esempi su tutti che dimostrano l’oggettiva pericolosità di dare per vere delle mere ipotesi di indagine o di spostare nel tempo, retrodatandole, portando il futuro nel passato, determinate conoscenze investigative.
Il primo. Si consideri l’importanza che si pretende di attribuire alle invero succinte dichiarazioni rilasciate da Leonardo Messina il primo luglio 1992 al compianto dottor Paolo Borsellino: «La Calcestruzzi è in mano a Riina». E su questa frase, che è divenuta tralatizia nella narrazione di molti lettori disattenti, va sottolineato subito che la sentenza del tribunale di Palermo, sezione VI, del 2 luglio 2002, che vi ho portato, divenuta esecutiva per Buscemi Antonino il 25 novembre 2002, quindi qualche mese dopo, ha affermato in modo definitivo che: «nessun elemento è stato acquisito al dibattimento idoneo a dimostrare questo tema di prova, al di fuori delle generiche indicazioni per cui la società ravennate sarebbe stata Ancora: «nulla di significativo è emerso nei confronti del Buscemi rispetto a quanto valutato nella precedente sentenza del tribunale di Palermo del Maxi processo quater del 31 dicembre 1996, su cui ritornerò, che lo aveva condannato ad anni otto di reclusione per partecipazione semplice a cosa nostra».
Ancora: «il ruolo attribuitogli da Siino di organizzatore della spartizione degli appalti è risultato incompatibile», cioè non riscontrato, «con i fatti accertati in dibattimento».
Quindi: «al Buscemi Antonino resta il ruolo di mediatore nella stessa vicenda del “patto del tavolino”, in relazione alla quale ha agito in nome e per conto di Salvatore Riina».
È il documento 25 che depositerò agli atti.
Queste, dunque, sono state le valutazioni corrette dei giudici nei processi celebrati dal 1996 in poi, allorché hanno avuto il panorama completo delle conoscenze fornite da molteplici collaboratori di fede corleonese – Siino, Brusca, Salvatore Cucuzza, Salvatore Cancemi, Francesco Paolo Anzelmo, Vincenzo Sinacori, Antonino Giuffrè, Giusto Di Natale e altri ancora – che sono risultate ben diverse dalle suggestioni, dalle ipotesi e dai sospetti avanzati nel 1991.
Quanto allo schiacciamento delle conoscenze, secondo la ricostruzione proposta dall’avvocato Trizzino, tutte le preziose conoscenze sul sistema Mafia-Appalti avutesi esclusivamente a partire dalla fondamentale collaborazione di Siino del luglio 1997 e dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca del periodo 1998-1999, cioè quando Brusca comincia a diventare effettivamente attendibile, avrebbero dovuto essere conosciute e valorizzate dai pubblici ministeri della procura di Palermo, Lo Forte e Scarpinato, in anticipo rispetto alla storia, cioè al momento della richiesta di archiviazione da loro depositata il 13 luglio 1992; quando, a dimostrazione della grave capziosità di tale fallace metodo argomentativo, il famoso «uomo con la S, l’uomo che conta, quello che comanda, la persona ad alto livello vicina proprio al nucleo centrale» veniva ancora identificato, nel rapporto del ROS, in Angelo Siino mentre, come avremmo appreso a seguito del processo celebratosi dopo il 1997, parlo del cosiddetto processo del tavolino in cui i pubblici ministeri sono stati Maurizio De Lucia e Gaspare Sturzo, si venne ad accertare che si trattava in realtà dell’ingegner Filippo Salamone, titolare della Impresem di Agrigento, punto di raccordo diverso e ben più elevato tra imprenditori, politici e mafiosi.
Pertanto, senza tema di errore, deve affermarsi che fino a prima della collaborazione di Siino, dopo la sua seconda cattura e quindi l’ordinanza di custodia cautelare del 7 luglio 1997, il perverso e sofisticato meccanismo criminale cosiddetto Mafia-Appalti era stato soltanto intuito, sfiorato, accennato o intravisto dagli inquirenti, ma non se ne conoscevano struttura, articolazioni e le molteplici sfumature descritte in dettaglio soltanto nelle sentenze degli anni Duemila e seguenti, tra cui ad esempio quella del 2 luglio 2002 alla quale ho fatto cenno.
E attenzione: questa affermazione che vi sto facendo non è mia, ma la leggiamo nella richiesta di archiviazione della procura di Caltanissetta, i cosiddetti mandanti occulti bis del 9 giugno 2003, procedimento n. 4645/2000 RGNR, condivisa in toto dal GIP con provvedimento-stampone del 19 settembre 2003 e ampiamente citata dall’avvocato Trizzino, da cui si ricava appunto che: «sul tema mafia-appalti è necessario prendere le mosse dalle dichiarazioni di Angelo Siino riportate nella sentenza della corte d’appello di Caltanissetta del 7 aprile 2000 che si riferiscono all’interrogatorio dell’udienza del 17 novembre 1999».
Sempre dallo stesso documento: «successivamente al 1996 si verifica la grande svolta nello svelamento degli intrecci sugli appalti, attraverso il pentimento di Angelo Siino, il quale ricostruisce più dettagliatamente le connessioni solo in parte emerse, a livello giudiziario, negli anni precedenti», con l’errata identificazione del Siino anziché del ben più importante ingegner Filippo Salamone, come riportato a pagina 6 della richiesta di archiviazione.
E in effetti, a riprova di quanto detto, solo le indagini conseguenti alla collaborazione del Siino del luglio 1997 permisero alla procura di Palermo, dopo un’ordinanza di custodia cautelare del maggio 1993 di cui parleremo, di presentare finalmente al GIP una solida richiesta di custodia cautelare il 4 settembre 1997 nei confronti di: Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Panzavolta Lorenzo e altri ancora, per i reati di associazione mafiosa, di articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, quindi l’interposizione fittizia di persone e sostanzialmente riciclaggio, aggravati dall’articolo 7 e altri di minore rilevanza.
Orbene, questa realtà processuale e storica è stata totalmente pretermessa o minus rappresentata dall’avvocato Trizzino durante la sua audizione, in cui egli ha pure omesso di valorizzare, sia pure con un semplice accenno, il passaggio di fase che si verificò nella storia giudiziaria palermitana dopo la strage di via D’Amelio, con il fiorire dei primi collaboratori di fede corleonese, quali: Giuseppe Marchese, il primo settembre 1992; Giovanni Drago, suo cugino, il 16 dicembre 1992; Baldassare Di Maggio, l’8 gennaio 1993; Salvatore Cancemi, il 23 giugno 1993, per limitarci a pochissimi nomi.
Costoro hanno dato un formidabile contributo alla migliore e corretta conoscenza anche del «sistema mafia-appalti», facendola passare dalla fase embrionale delle mere ipotesi a quella, ben più efficace, delle evidenze probatorie utilizzabili nei processi a sostegno di valide ipotesi accusatorie per ottenere, come in realtà avvenne, corrette sentenze di condanna che ressero al vaglio dei giudizi successivi.
Questi due esempi, tra i molti che si potrebbero fare, dimostrano la necessità di procedere con ordine e rigore nella ricostruzione di fatti storici e processuali complessi, come quelli che stiamo commentando, perché l’anticipazione delle conoscenze, lo schiacciamento delle conoscenze in capo ai magistrati oggetto di volta in volta di critiche o addirittura di gravissime accuse, per il proprio operato, con l’uso di una sorta di macchina del tempo che va a piacimento dal futuro al passato, la si può immaginare in altri scenari, ma non la si può ammettere in una sede così sacra, così importante per la democrazia parlamentare, come quella nella quale ho l’onore oggi di parlare.
Passiamo alle accuse mossemi dall’avvocato Trizzino che hanno spinto la mia richiesta di essere audito. Sostanzialmente sapete in che passaggi fondamentali si è sviluppata.
La procura di Massa Carrara, nella persona del sostituto Augusto Lama, a partire dal 1990 stava svolgendo delle indagini sui distretti marmiferi della zona da cui sarebbe emersa la commissione di reati gravissimi da parte, tra gli altri, del noto Antonino Buscemi, già imputato a Palermo in una tranche del Maxi processo sin dal 1988, in concorso con i vertici della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna, appartenente al gruppo Ferruzzi-Gardini.
Abbiamo già visto che la sentenza del 2002 fa giustizia di questa accusa ritenendola insussistente perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, perché queste asserite condotte del 1984-1985 sono ben anteriori all’ipotesi di reato del giugno del 1992.
Tale procedimento, sempre secondo le accuse dell’avvocato Trizzino, sarebbe stato sostanzialmente bloccato. Testualmente: «Raul Gardini con una telefonata blocca Lama», pagina del resoconto di questa sua audizione.
Oppure, altra frase: «Augusto Lama su una telefonata di Raul Gardini viene allontanato dal Ministero, viene messo sotto procedimento disciplinare», pagina 22 del resoconto relativo all’audizione del 6 ottobre). Grazie a che cosa? All’intervento dell’allora Ministro della giustizia, Claudio Martelli, fascicolo poi trasmesso a Palermo.
Sempre secondo l’avvocato Trizzino, all’interno del fascicolo di indagine inviato a Palermo era contenuta, tra l’altro, una serie di intercettazioni effettuate su impulso della procura della Repubblica di Massa Carrara, da cui sarebbe emersa la prova del connubio criminoso e del rapporto tra i vertici della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna e la famiglia mafiosa dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi.
Per sgombrare il campo da una sorta di mitologia o di narrazione mitica che si è formata intorno al fascicolo di indagine inviato a Palermo, le carte sono queste, sono soltanto queste, costituite in larga parte da fotocopie di ricognizioni che la Guardia di finanza – GICO, II sezione di Palermo – aveva fatto sui registri della camera di commercio, sui registri immobiliari, sul PRA e sul registro dei natanti. La richiesta di collegamento di indagini sono queste quattro paginette del dottor Lama che già nell’oggetto richiede intercettazione telefonica e spiegherò che cosa significava a Palermo una richiesta di questo tipo.
Ricordo ancora una volta la sentenza, l’unica peraltro passata in giudicato per Buscemi sin dal novembre 2002, che esclude qualsiasi collegamento. Lo abbiamo già accennato, ma lascerò agli atti la sentenza in tutte le sue declinazioni.
Il primo giugno 1992, sempre secondo l’assunto accusatorio dell’avvocato Trizzino, chi vi parla richiese al GIP l’archiviazione del fascicolo contenente l’esito negativo delle intercettazioni disposte in base a questo collegamento di indagini richiesto dal dottor Lama e, inspiegabilmente, sempre io, in data 25 giugno 1992, chiesi la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei relativi brogliacci, tanto che – sempre a dire dell’avvocato Trizzino – da quel momento non sarebbe stato più possibile sapere cosa contenessero realmente dette registrazioni, la cui estrema importanza il dottor Lama aveva affermato in diverse occasioni.
La finalità di tale smagnetizzazione – qua la gravità delle accuse – sarebbe stata quella di impedire da parte mia al dottor Borsellino di conoscerne il contenuto, tanto che si è giunti in audizione ad affermare che: «se lo stesso Borsellino non fosse stato ucciso avrebbe certamente chiesto conto di tale provvedimento» a chi vi parla, oppure che: «chi ha disposto la distruzione», cioè io, «avrebbe dovuto giustificarsi di fronte a Borsellino».
Secondo l’avvocato Trizzino la smagnetizzazione avrebbe riguardato gli originali delle intercettazioni provenienti da Massa Carrara, delle quali non c’è traccia, come documentalmente vi proverò attraverso una nota del 17 settembre 1991 redatta dal mai troppo ringraziato da parte mia maggiore della Guardia di finanza, Roberto Rossetto, che dettagliatamente dice che cosa mi consegna, cioè delle copie di atti di Massa Carrara e non parla mai di alcuna intercettazione e meno che mai di nastri o di bobina.
Queste affermazioni denigratorie, tutte clamorosamente destituite di fondamento, attengono a fatti il cui accertamento ritengo che risulti indispensabile per il lavoro di codesta Commissione e da ciò è derivata quindi principalmente la mia richiesta di essere ascoltato.
Di seguito verranno ripercorsi i singoli accadimenti, cercando di seguire un ordine cronologico. In parte l’ho anticipato e ve lo ripropongo, questi sono gli atti provenienti da Carrara. Azzardo un’ipotesi: questa stessa nota non è stata scritta dall’ottimo collega Augusto Lama perché dubito che le sue forme espressive forbite si ritrovino in questa nota che contiene anche degli strafalcioni.
Sostanzialmente si dice che con il prezioso concorso dell’Alto Commissario per il coordinamento alla lotta alla delinquenza mafiosa e del servizio centrale operativo, per quanto concerne l’audizione del pentito Antonino Calderone.
Questo è il motivo principale per il quale, presumo, l’allora procuratore di Palermo, Piero Giammanco, ritiene di designare i colleghi Sciacchitano, che era un collega della procura anziano, Natoli e il pool cosiddetto dell’antimafia della procura. Perché io già mi ero occupato da giudice istruttore del pool dell’ufficio istruzione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, De Francisci ed io, del mandato di cattura del 10 marzo 1988 nei confronti di Antonino Buscemi e di altri 159 imputati asseritamente mafiosi, mandato di cattura nato dalle dichiarazioni di Antonino Calderone che resistette purtroppo al vaglio del tribunale del riesame soltanto per quindici giorni perché poi i giudici del tribunale della libertà ritennero che quelle indicazioni di Calderone, che pure si coniugavano con precedenti dichiarazioni di Buscetta, di Salvatore Contorno e di Francesco Marino Mannoia, non avevano ricevuto sufficienti riscontri e quindi il mandato di cattura venne annullato.
Antonino Buscemi rimase chiaramente imputato nel cosiddetto Maxi processo quater che, come anticipavo, sarebbe stato esitato con il rinvio a giudizio nel 1994 dal giudice istruttore Guarnotta, con requisitoria scritta dalla procura, perché io nel frattempo ero passato in procura, scritta anche da chi vi parla. Poi il 31 dicembre del 1996 il tribunale di Palermo, sezione V, presidente Saguto, lo avrebbe condannato a otto anni di reclusione per partecipazione semplice, la stessa aggravante del comma 2 del 416-bis non venne mai riconosciuta.
In relazione a questo in cui si fanno delle ipotesi, oltre a ripercorrere evidentemente fatti che già Palermo stava indagando, cioè gli omicidi di mafia da Salvatore Inzerillo in poi, in cui sarebbero risultati coinvolti lo stesso Salvatore Buscemi e Nino Buscemi, poi Nino Buscemi sarebbe stato assolto da questa stessa accusa, erano trattate in altro contesto. Erano trattati anche nel contesto del Maxi processo quater, ma delle dichiarazioni che ad esempio poi avremmo ricevuto dopo Gaspare Mutolo, dopo Pino Marchese, Giovanni Drago e tutti gli altri, per imputare finalmente gli esecutori materiali degli omicidi della seconda guerra di mafia, Stefano Bontate, Totuccio Inzerillo e gli altri a seguire, ma sarebbero state acquisizioni degli anni successivi.
Si accennava a una ipotesi secondo la quale c’era stato l’interessamento della Calcestruzzi Ravenna all’acquisizione di due società di cave di Massa, la S.A.M. e la I.M.E.G., che venivano dal compendio proprietario dell’ENI e quando l’ENI, attraverso la cosiddetta privatizzazione o la nota privatizzazione, dismette il comparto minerario, vengono acquisite dapprima da alcune società palermitane di Buscemi e successivamente dalla Calcestruzzi che acquista il 50 per cento di questo pacchetto azionario, mentre la rimanente parte, la cassaforte era la cosiddetta FINSAVI che, ripeto, per il 50 per cento è di proprietà della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna, per il 17 per cento di Nino Buscemi, per il 37 per cento di un fratello di Nino Buscemi, un professore universitario della facoltà di Medicina.
Tutto questo è a livello di ipotesi, risultava così come la Guardia di finanza aveva dimostrato dalla lettura delle carte della camera di commercio e dei registri immobiliari.
Il dottor Lama chiede, in particolare, a codesta procura, di espletare opportune indagini al fine di accertare le principali utenze sia private che professionali utilizzate dai fratelli Buscemi Antonino e Salvatore, cosa che io chiaramente immediatamente faccio, segnalando altresì l’opportunità di predisporre, ai sensi della legge delle misure di prevenzione, approfondite indagini bancarie e patrimoniali.
Ma già a Palermo l’apposito gruppo di lavoro delle misure di prevenzione si occupava di Antonino Buscemi sin dal 1990 e nel 1991 aveva chiesto, ad esempio, delle indagini approfondite al gruppo carabinieri Palermo 1, che poi vengono sollecitate dall’allora PM Roberto Scarpinato il 13 luglio del 1992, in contemporanea al deposito dell’archiviazione della quale pure avete sentito parlare, nei confronti di alcuni degli indagati del processo Mafia e Appalti. Ma cosa era questo meccanismo delle archiviazioni?
La procura di Palermo era un laboratorio di investigazioni estremamente complesso, in cui il fenomeno cosa nostra veniva affrontato da gruppi di lavori diversi, che agivano in contemporanea su piani diversi, tendenti a ottenere risultati efficaci in relazione al materiale disponibile nel singolo momento in cui giungevano a completamento i termini massimi delle indagini di cui all’articolo 405 del codice di procedura penale.
Quindi le indagini venivano aperte e archiviate, se necessario, per poi essere riaperte appena ci fosse un elemento di novità. Ad esempio, la stessa archiviazione della quale mi sono occupato io, del primo giugno 1992, viene riaperta dall’allora sostituto procuratore Giuseppe Pignatone il 4 marzo 1993 perché erano sopraggiunte le dichiarazioni, ad esempio, di Balduccio Di Maggio, erano giunte a maturazione le iniziali indicazioni di Leonardo Messina con due fondamentali interrogatori che Leonardo Messina rende il 10 e l’11 dicembre 1992 a due sostituti – sempre gli stessi – l’oggi senatore Scarpinato e l’allora procuratore aggiunto Guido Lo Forte.
In parallelo, ed era l’altro lato della tenaglia, quello effettivamente forte, lavorava la sezione misure di prevenzione, che aveva orizzonti più semplici perché si muoveva sul piano del semplice sospetto. Ci aveva insegnato questo metodo di lavoro Giovanni Falcone, forse primo fra tutti i gruppi di lavoro in Italia, mettendo a frutto tutte le esperienze del vecchio pool dell’ufficio istruzione che era stato creato a partire dalla fine del 1983, dicendoci, lui che aveva contribuito alla creazione di questo attuale codice di procedura penale, che dovevamo imparare a utilizzare le indagini preliminari come qualche cosa che veniva utilizzata a tempo come lo yogurt, se erano ancora buoni i risultati delle indagini al termine delle scadenze, buoni secondo la mentalità estremamente rigorosa di Giovanni Falcone, nell’ottica del giudice e non nell’ottica del semplice pubblico ministero.
Ci insegnava: «Voi dovete sempre porvi nell’ottica di chi, dopo la pronuncia della condanna, dovrà scrivere la motivazione di quella sentenza». Questo gli derivava nella unità della visione costituzionale della magistratura italiana dall’avere potuto svolgere dapprima le funzioni di giudice, anche di giudice civile e poi anche di pubblico ministero, quindi ci diceva: «Quando arrivate alla fine dell’indagine preliminare, se avete materiale andate avanti con questo rigoroso criterio di valutazione di ciò che avete in mano, altrimenti archiviate».
Ci insegnava questo perché il nuovo sistema è un sistema a un solo colpo, nel senso che il pubblico ministero, elevata un’imputazione, ha un solo colpo a disposizione con il quale o colpisce il bersaglio o fa calare l’autorità del giudicato su un’ipotesi di accusa che poi, magari a distanza di qualche anno, sarà arricchita dal sopravvenire di elementi di prova forti, ma che non potrà più essere azionato per l’ostacolo di precedente giudicato. Era un modo di pensare tutt’affatto nuovo, con il quale ci si misurava in questo campo.
E ci disse pure: «Utilizzate le misure di prevenzione». Infatti la procura di Palermo comincia a utilizzare, prima, secondo me, tra tutte le procure italiane, la legge Rognoni-La Torre a partire dal 1985.
Forse qualcuno dei presenti ne sa più di me perché io a quel tempo facevo il giudice istruttore. 1985-1986 misure di prevenzione, come l’altro pezzo della tenaglia con il quale agganciare l’ipotesi principale, che era quella di contrastare efficacemente qualsiasi manifestazione riconducibile a cosa nostra.
Dell’atto analitico del 17 settembre del 1991 del maggiore Roberto Rossetto ho già detto, lo troverete nel documento numero 3.
Quindi, riprendendo il filo, tra le carte consegnate a Palermo non vi erano intanto atti di indagine in originale, infatti qui dentro troverete soltanto fotocopie di carte, né tantomeno bobine, nastri contenenti intercettazioni preventive o giudiziarie nell’ambito delle indagini svolte da Massa Carrara.
Va pure detto che tra le mitiche – permettetemi di dire – soprattutto per quello che ho letto nel ricordo del maresciallo Angeloni, credo che si chiami, che ricorda delle intercettazioni che in larghissima parte dovevano essere le intercettazioni preventive fatte su richiesta dell’Alto Commissario, ai sensi del 226-sexies del vecchio codice, che non erano utilizzabili, servivano soltanto per dare spunti di indagine ma non avrebbero mai potuto essere utilizzate in sede giudiziaria, quindi anche una smagnetizzazione di quelle intercettazioni vorrei capire, dal punto di vista effettuale, che tipo di danno avrebbe potuto creare. Ma per fortuna non se ne è creato assolutamente.
Andiamo alle risultanze delle intercettazioni giudiziarie di Palermo, risultanze che diedero da subito esito assolutamente negativo.
Io già in data 18 novembre 1991 – quindi avevo ricevuto il fascicolo il 17 o il 18 settembre 1991 – scrivo al collega Lama che invece non si è mai degnato di fare una telefonata o di scrivere e soprattutto non si è degnato di dire che nelle sue ipotesi che ho detto non c’era alcuna iscrizione, neppure ipotizzando un reato attorno al quale svolgere quelle indagini.
Tanto che utilizzando un pensiero malevolo, lontano però da quello che voglio dire, ho pensato, soprattutto in queste ultime settimane, che la richiesta di fare le intercettazioni a Palermo derivava dal fatto che, se lui le avesse chieste, come pure avrebbe potuto chiederle al GIP di Massa Carrara, il GIP non gliele avrebbe date perché mancava l’oggetto sul quale fare la intercettazione.
Ma comunque queste intercettazioni diedero da subito esito assolutamente negativo, tanto che la Guardia di finanza, già in data 2 gennaio 1992, mi comunica che tre utenze telefoniche hanno dato risultato zero e quindi mi diceva: «Interrompi le operazioni», documento 5; il 22 gennaio 1992 stessa cosa, documento 6; il 3 febbraio 1992 la stessa cosa per altre due utenze telefoniche, documento 7; il 3 marzo 1992 per rimanenti intercettazioni perché aventi contenuto esclusivamente familiare e comunque non inerente il servizio, documento 8.
Infine, in data 26 marzo del 1992, fornisce una dettagliata analisi delle risultanze investigative conseguenti alle indagini captative e concludeva affermando che le intercettazioni in argomento non hanno consentito di individuare episodi, circostanze specifiche o altri elementi di fatto tali da chiarire se e come i predetti rapporti ufficiali di partecipazione o semplicemente commerciali, come i registri della camera di commercio dicevano sin dal 1984, possono essere o essere stati influenzati in tutto o in parte dai precedenti giudiziari di taluni componenti della famiglia Buscemi o dai loro rapporti di frequentazione o di parentela con persone condannate con associazioni di tipo mafioso.
Ma va detto che a dimostrazione della bontà di questa valutazione di assenza di qualsiasi risultato utile per le indagini, la Guardia di finanza allegò le trascrizioni integrali delle ventinove conversazioni ritenute più rilevanti, le quali sono sempre state nel fascicolo n. 3589/91 che ho trattato io, ma lo sono state da allora e per tutti questi trentuno anni.
Di tal che devo fare notare, purtroppo, che se la procura della Repubblica di Caltanissetta, che fece la richiesta di archiviazione del 9 giugno 2003 sui mandanti occulti bis lamentando la smagnetizzazione dei nastri e la distruzione dei brogliacci, si fosse degnata di mandare qualcuno a leggere con attenzione almeno il contenuto di questo fascicolo, avrebbe visto che intanto c’erano le trascrizioni integrali di ventinove conversazioni ritenute rilevanti, ma avrebbe potuto fare un’altra cosa che io molto più banalmente ho fatto dopo trentuno anni, nel mese di settembre 2023, cioè di chiedere al procuratore della Repubblica – la procura di Caltanissetta lo avrebbe potuto fare autonomamente – di consultare il registro modello 37, cioè quel registro sul quale vengono annotati tutti i decreti di intercettazione e il divenire del decreto di intercettazione.
Io arrivo alla certificazione della quale gentilmente l’onorevole presidente ha fatto menzione in esordio di questa mia audizione, perché penso con un procedimento dal futuro al passato, ripensando alla data, 25 giugno del 1992, che è un periodo particolarissimo nella storia della procura di Palermo, cui venti giorni dopo conseguì purtroppo la strage di via D’Amelio con la decapitazione della procura di Palermo e la sostanziale mancanza di un vertice autorevole fino a quando non fosse arrivato il procuratore Caselli.
Conoscendo quanto i funzionari dell’ufficio intercettazione non amassero fare queste operazioni perché richiedevano verbali di apertura, verbali di risugellamento, la partecipazione del personale di polizia giudiziaria che era quello che aveva il materiale per fare la smagnetizzazione, dico: «Ma andiamo a consultare il modello 37». Ed è al modello 37 che il procuratore della Repubblica De Lucia fa attestare al funzionario dell’ufficio intercettazioni che le intercettazioni non erano mai state smagnetizzate.
Su questo dico subito che l’annotazione che si trova in calce al mio provvedimento, con aggiunta una grafia che non mi appartiene… Ecco, ora finalmente le abbiamo trovate. Queste sono le trascrizioni integrali delle ventinove intercettazioni. Sono sempre state nel fascicolo, io ne ho fatto una copia, è qua. Ripeto, quella annotazione di distruzione dei brogliacci… Dico subito più semplicemente, il provvedimento mi viene portato da un addetto dell’ufficio intercettazioni, dalla sigla che vedo in calce, perché c’è: «consegnato per l’esecuzione in data 25 giugno 1992» con una sigla che io, in base ai ricordi visivi del tempo, riconosco essere una C e una M, che potrebbe essere Carlo Maiorca, che era il funzionario addetto o il cancelliere addetto allora alla segreteria del procuratore della Repubblica Giammanco. Ma, ripeto, lo recupero così, da un ricordo visivo.
Questo è un argomento logico, ma gli argomenti logici, come gli onorevoli deputati e senatori che hanno la bontà di ascoltarmi conoscono al pari di me, hanno la stessa dignità sul piano della prova nel processo penale. Se io avessi avuto un qualche interesse alla reale smagnetizzazione di fonti di conoscenza delle quali, secondo l’avvocato Trizzino, avrei dovuto rendere conto e ragione al povero Paolo Borsellino se fosse rimasto in vita, avrei eseguito la smagnetizzazione. Smagnetizzazione che, come una relazione tecnica che fa fare il procuratore Caselli appena arriva a Palermo alla RT-Radio Trevisan, che si occupava in quasi tutta Italia delle intercettazioni che duravano mediamente tra un anno e un anno e mezzo, per la complessità alla quale ho fatto riferimento.
Ci avviamo alla conclusione, soprattutto per quanto riguarda questa parte delle smagnetizzazioni.
Contrariamente a quanto l’avvocato Trizzino ha dichiarato, cioè che si trattava di un provvedimento che lui non aveva visto né prima né dopo, evidentemente c’è una asimmetria fra le esperienze professionali mia e dell’avvocato Trizzino, era qualcosa che all’epoca invece almeno nella procura di Palermo era usuale.
Era usuale perché c’era una interpretazione che non fu mai contestata né contrastata da alcuno dell’articolo 269, comma 2, del vigente codice di procedura penale, che ancora oggi afferma che la conservazione delle registrazioni va fatta fino a quando le sentenze non passino in cosa giudicata.
Quindi, alla luce di questo passaggio che era innovativo rispetto al precedente codice del 1930, c’era questa interpretazione che io trovo, io arrivo alla procura di Palermo il 9 giugno del 1991, la mia esperienza era stata all’ufficio istruzione di Palermo, non avevo alcun interesse alla gestione delle intercettazioni e delle bobine delle intercettazioni perché questa ancora oggi, per dettato del codice di procedura, è responsabilità diretta del procuratore della Repubblica, trovo questa interpretazione e questo ufficio intercettazioni che era importante perché, tra l’altro, aveva proprio in quel periodo, 1992, da alcuni mesi, conglobato le competenze di altre cinque procure della Repubblica, perché, come loro ricorderanno, nel novembre del 1991 si istituiscono le DDA e quindi la procura di Palermo ingloba l’attività antimafia di altre cinque procure del distretto occidentale dell’isola. E ci sono dei problemi reali di spazi fisici sia negli armadi particolari, perché devono essere degli armadi a tenuta stagna e con certe caratteristiche, sia dei locali sia degli stessi corridoi.
E questo sapete dove lo trovate? Io l’ho scoperto dalla lettura necessitata di tante carte in queste ultime settimane. Nelle dichiarazioni al CSM del 28 luglio 1992 rese dall’allora procuratore, Pietro Giammanco, alla prima commissione che convocò tutti gli appartenenti alla procura della Repubblica, compresi i colleghi che erano arrivati da pochissime settimane o da alcuni mesi. Lo dice, non so per quale motivo ma in dettaglio, nelle audizioni che troverete certamente laddove sono, tra l’altro basta andare sul sito del CSM e le si trova.
Per cui il problema dell’intercettazione era un problema reale. Ma ho trovato, per fortuna – e devo ringraziare il procuratore o l’ex procuratore Giuseppe Pignatone per avermi fornito questa importantissima documentazione – un decreto del neo arrivato procuratore Caselli del 22 febbraio 1993. Caselli era arrivato il 15 gennaio, come tutti ricorderete, il giorno della cattura di Salvatore Riina, ed evidentemente trova questa prassi alla procura di Palermo e chiede a Radio Trevisan una relazione tecnica.
Radio Trevisan rende questa relazione tecnica il 2 febbraio e dice che, pur condividendo le ragioni delle raccomandazioni ministeriali, e cita le circolari del 1977 e del 1979 alle quali ho fatto riferimento prima, che dicevano che bisogna recuperare questo materiale perché ha un valore economico. Teniamo presente peraltro che nel 1992-1993 noi avevamo quei piccoli, purtroppo non inconsueti, problemi di bilancio pubblico, dovevamo entrare nell’area euro, tanto che la notte del 10 luglio 1992, quindi a ridosso dei fatti che stiamo commentando, c’è il famoso decreto-legge del Governo Amato col prelievo forzoso dello 0,06 per mille sui conti correnti o sui depositi di ciascuno degli italiani. Caselli scopre questo discorso, siccome la relazione tecnica dice che c’è una possibilità che i nastri rigenerati possano, in sede di ulteriore utilizzazione, presentare dei bug per cui poi un passaggio di un’intercettazione non c’è, Caselli dice: «Guardate che, con quello che abbiamo qua a Palermo con i fatti di mafia, io questo rischio non lo corro».
Fa un decreto con il quale sospende l’utilizzazione dei nastri smagnetizzati, quindi non sospende la smagnetizzazione, sospende la riutilizzazione dei nastri smagnetizzati, lo comunica al Ministero della giustizia da cui provenivano le circolari, dicendo: «Se avete contrario avviso, ditemelo». Chiaramente il contrario avviso non interviene.
Però la questione dei nastri e della mancanza di spazi purtroppo è talmente pregnante nella vita della procura di Palermo che con altra circolare, affidata al procuratore aggiunto vicario, Vittorio Aliquò, del 22 novembre 1997, quindi di quattro anni dopo, Aliquò scrive a tutti noi sostituti, perché io ancora sono sostituto in quella procura, di procedere con cortese, massima urgenza a smagnetizzare, a dare corso ai decreti che avevamo pendenti davanti a noi e dà incarico all’ufficio intercettazioni di rivolgersi a ciascun sostituto per la sollecita definizione di questi fatti.
Dirà nelle pagine precedenti, ma avete i due documenti e quindi lo potrete leggere, che ormai questi nastri avevano invaso sia i locali deputati alla conservazione sia quelli che si erano recuperati in maniera eccezionale e supplementare.
Questo per quanto riguarda la smagnetizzazione che evidentemente è venuta meno, ma questa mia esperienza, da successivo capo dipartimento dell’organizzazione, soltanto nel 2007-2008, quando a macchia di leopardo in tutta Italia le procure, a seconda delle loro capacità di conoscenza tecnologica, riescono a cominciare a utilizzare le intercettazioni digitali che per fortuna ormai hanno risolto il problema degli spazi fisici. Ma ricordiamoci che esiste anche un problema di server del quale certamente avete sentito parlare e che è un ulteriore problema che l’attuale capo dipartimento dell’organizzazione deve ancora utilizzare.
Mi resta un ultimo passaggio che devo evidenziare, il cosiddetto spossessamento del fascicolo in capo al dottor Lama.
Come dicevo, a Palermo apriamo per cortesia collaborativa il fascicolo di indagini collegate dove poniamo in essere le intercettazioni che c’erano state richieste dal collega Lama sulle utenze che… Ecco, questo è un passaggio importante.
Io quando apro questo fascicolo, per dare il massimo di efficacia e di tempestività alle notizie con la procura richiedente, incarico lo stesso organo di polizia giudiziaria che era la seconda sezione del GICO della Guardia di finanza di Palermo che già collaborava con Lama sin dal 1990. Quindi le utenze me le indicano loro e sono loro che fanno le intercettazioni e che curano i collegamenti e le informazioni.
Lama continua a essere autonomamente dominus delle indagini del procedimento n. 697/90 e rilascia delle dichiarazioni sulle indagini che stava svolgendo ai giornalisti Romano Bavastro e Vittorio Prayez de La Nazione e Cinzia Carpita de Il Tirreno, in data 10 febbraio 1992. Aveva fatto delle perquisizioni con sequestri il 28 o il 29 gennaio 1992.
Il 10 rilascia questa intervista congiunta ai tre giornalisti, i quali pubblicano degli articoli l’11 febbraio, articoli che suscitano clamore. È addirittura La Nazione stessa, se non ricordo male, a sollevare il problema della meraviglia che aveva destato il fatto che un PM che stava conducendo indagini rilasciasse dichiarazioni.
Il dottor Lama ritiene opportuno astenersi immediatamente dalle indagini in corso perché, in contemporanea con l’apparizione di questi articoli, l’avvocato Striano, nell’interesse della Calcestruzzi Ravenna, scrive al procuratore generale di Genova, Castellano, dicendo: «Ma è mai possibile una cosa del genere?».
Evidentemente il procuratore di Massa, immediatamente interessato, chiede spiegazioni al dottor Lama, il quale ritiene opportunamente di astenersi dal fascicolo.
Quindi siamo arrivati intorno al 12-13 febbraio 1992.
La storia però ci consegna che è clamorosamente destituita di fondamento la narrazione ripetutamente fatta in questi ultimi trent’anni, ma anche recentemente, dallo stesso dottor Lama e da chi ne ha ripreso i contenuti, secondo cui il fascicolo n. 967/90 fu sottratto al dottor Lama dal Ministro Martelli – vi ricordate la telefonata, l’ispezione, eccetera – nell’interesse di Raul Gardini, suo amico e sodale politico, giacché quel fascicolo fu volontariamente restituito al procuratore Ceschi per astensione del PM che aveva rilasciato delle «imprudenti» dichiarazioni alla stampa. L’aggettivo «imprudente» è della sentenza disciplinare del CSM del 26 novembre 1993 che pure vi ho portato e che deposito.
Non c’entra nulla con questa astensione la consueta ispezione – dirò perché consueta – disposta dall’ispettorato generale del Ministero sulla vicenda giornalistica finita agli onori della cronaca, in quanto questa venne iniziata nel mese di marzo, cioè ben dopo che Lama aveva già volontariamente restituito il fascicolo almeno a partire dal 15 febbraio del 1992. Questo lo deriviamo dal fatto che il procuratore Ceschi, con una nota del 24 febbraio, dice a Lama: «Siccome ti sei astenuto e io accolgo la tua astensione, fammi una relazione sulle cose che hai condotto fino a questo momento».
Ma permettetemi di ricordare un secondo elemento logico rispetto al quale ho precedentemente fatto un riferimento. Ricordiamoci che nel febbraio del 1992, già da un anno al Ministero, accanto al Ministro Martelli che asseritamente aveva stoppato, aveva bloccato, aveva scippato il fascicolo al dottor Lama, sedeva come direttore generale degli affari penali, lo ricordiamo tutti, da circa un anno il dottor Giovanni Falcone. Il quale non ha saputo nulla di questo scippo? Conoscendo Falcone e leggendo tutto ciò che in questi trenta e passa anni è stato scritto su di lui è una cosa da escludere.
Avrebbe mai potuto prestare un assenso silenzioso a questa opera del Ministro Martelli?
Quindi Falcone che, da un lato attraverso il ROS, il rapporto mafia-appalti, il generale Mori e il capitano o colonnello De Donno, voleva scoprire il mistero di mafia-appalti, poi c’era qualcuno che finalmente a Massa Carrara intravedeva sterminate sorti magnifiche e progressive e Giovanni Falcone permetteva di stoppare questo raggio di luce che finalmente squarciava le tenebre che avvolgevano la procura di Palermo?
È un elemento logico che affido ai tecnici presenti in questa Commissione, credo che non reggerebbe al vaglio di alcun giudice.
Da ultimo andiamo alle azioni disciplinari.
La sentenza che il CSM mi ha autorizzato a produrre – ho fatto tutte queste ricerche da privato cittadino, utilizzando la legge n. 241 del 1990 sull’accesso agli atti, oltre che l’articolo 116 del codice di procedura penale – ci dice che la segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare viene fatta il 9 marzo 1992 dal procuratore generale di Genova, Francesco Paolo Castellano. Il procuratore generale della Corte di cassazione, dottor Vittorio Sgroi, il 25 marzo 1992 inizia l’azione disciplinare. Il Ministro, che pure è stato notiziato dell’inizio dell’azione disciplinare, non interviene assolutamente su questo versante.
Questo lo deriviamo dalla sentenza del CSM, che parla di un’azione disciplinare iniziata soltanto dal procuratore generale della Corte di cassazione. Dunque, anche da questo versante nessun intervento del Ministro Martelli.
Ma il fascicolo n. 967/90, quando viene lasciato dal dottor Lama e viene preso in mano dal procuratore Duino Ceschi, cosa comporta? Che Duino Ceschi si rende conto che le indagini condotte fino a quel momento, circa due anni, non hanno un radicamento di competenza territoriale a Massa.
Quindi il 10 aprile 1992 manda il fascicolo che avrebbe dovuto avere al proprio interno le famose bobine, sia pure quelle dell’Alto Commissario, ma ce ne è pure un pezzetto di indagini di intercettazioni giudiziarie, condotte a Massa, quelle che non sono mai arrivate a Palermo, ma che lì c’erano. È chiaro che finalmente quel fascicolo in originale, non fotocopie come queste che continuo a mostrarvi, va a Lucca, dove se lo tengono con un nuovo numero – ho le certificazioni del procuratore di Lucca, dottor Domenico Manzione – per circa nove mesi.
Il 22 gennaio 1993 anche Lucca scopre che non c’è competenza territoriale, perché l’unica ipotesi che residua, quella di un 2621 codice civile, cioè di un falso in bilancio, si radica sull’ipotesi che la privatizzazione fatta dall’ENI o dalle sue società controllate, per favorire Buscemi, per favorire Calcestruzzi, per favorire non si sa bene chi. Leggevo proprio stamattina che, a proposito delle privatizzazioni delle quali si sta parlando in questi giorni, opportunamente la Presidente del Consiglio diceva che le privatizzazioni, tranne che non si facciano per favorire qualcuno, si prestano sempre a letture non unidirezionali e questo era il classico caso. Quindi da Lucca finiscono alla procura di Roma per 2621 dove – altra certificazione che il procuratore Francesco Lo Voi mi ha fatto avere, a mia espressa richiesta, nei giorni passati e che produco – viene archiviata il 25 giugno 1995, dopo circa un anno e mezzo di indagini o qualcosa del genere affidate al compianto, per chi l’ha conosciuto, collega Settembrino Nebbioso, Rino Nebbioso, un collega tra l’altro molto bravo, molto attento e conosciuto certamente anche da tutti noi.
Conclusione.
Credo di avere quanto meno tentato di dare una giustificazione a quello che ho fatto. Il giudizio poi spetta ai giudici oppure, come è stato richiesto, il giudizio politico spetta all’onorevole consesso davanti al quale continuo ad avere l’onore di parlare.
Ma c’è un’ultima necessità di contestualizzare i fatti per evitare una visione asincronica, non voglio dire diacronica, ma proprio asincronica.
Cioè questo fascicolo, in quello che ho definito laboratorio di investigazioni complesse che era la procura di Palermo, checché se ne pensi, ma per fortuna molti dei protagonisti di allora sono ancora vivi e possono essere utilmente auditi, un ufficio nel quale ad esempio in contemporanea a questi fatti di scarso rilievo investigativo…
Lo scarso rilievo investigativo non è soltanto una valutazione mia, è una valutazione che, come accennavo, fanno, dopo la riapertura delle indagini, Giuseppe Pignatone, Ilda Boccassini, Roberto Saieva, Luigi Patronaggio che pure avete sentito, Biagio Insacco, i quali hanno ereditato il fascicolo n. 1593 che aveva riaperto le indagini dopo la mia archiviazione e che in periodi successivi, fino al 1995, pur con il supporto di tutti i collaboratori di fede corleonese sopravvenuti al primo giugno 1992, quando non c’era neppure Mutolo perché Mutolo sarebbe arrivato a fine mese, hanno ritenuto di archiviare tutto. Quindi quel fascicolo, quelle ipotesi illuminate che aveva intravisto il pur ottimo dottor Augusto Lama, all’esame, che è l’unico che conta, della verifica che ne fanno i giudici, perché la richiesta di archiviazione richiede sempre che un giudice dica che quella richiesta di archiviazione va accolta, altrimenti c’è il rigetto.
In tutto questo c’era stato Vincenzo Calcara che Paolo Borsellino si era portato da Marsala e che ci aveva portato a Palermo il 6 gennaio 1992 e, insieme a lui, aveva voluto che lo affiancassimo io e Franco Lo Voi, attuale procuratore di Roma. All’interno delle cui dichiarazioni, il 7 maggio 1992, quindi proprio in quei giorni, c’erano state circa 35 ordinanze di custodia cautelare nei confronti dell’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino.
Vi ricordate lo «Svetonio» che avremmo scoperto poi negli anni Duemila e passa avere intrattenuto rapporti di corrispondenza con l’allora latitante Matteo Messina Denaro? Benissimo, c’era questo. E in quei giorni, tanto per dire, avevamo il tribunale del riesame, quindi quotidianamente con Franco Lo Voi andavamo a notiziare il procuratore Borsellino, quando era presente in sede, del divenire di queste cose, raccogliendone i preziosi consigli per quello che noi avremmo dovuto fare.
Il 12 marzo 1992, come certamente tutti ricorderete, era stato ucciso l’onorevole Salvo Lima, cosa di non poco momento. Cosa era successo, tra l’altro, ed è bene ricordarlo? Che, ad esempio, il 10 ottobre 1992, proprio per il sopravvenire dopo Gaspare Mutolo delle preziosissime collaborazioni di Giuseppe Marchese, il 10 ottobre 1992 la procura di Palermo, tra cui appunto chi vi parla, Guido Lo Forte, l’allora PM e oggi senatore Scarpinato, chiedono al GIP di Palermo l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei componenti della commissione provinciale di Palermo per l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, dopo appena sei mesi o poco più dall’omicidio.
Perché è importante questo che vi sto dicendo? Perché Mutolo, che aveva continuato a collaborare anche dopo il 19 luglio, mantenendo la sua volontà di portare avanti la sua collaborazione, si convince finalmente, il 23 ottobre 1992, a dichiarare formalmente tutto ciò che certamente ricorderete sul dottor Bruno Contrada e sull’allora pubblico ministero Domenico Signorino che purtroppo si sarebbe suicidato un mese dopo.
Quindi, tra il 19 luglio 1992 e l’arrivo del procuratore Caselli, il 15 gennaio 1993, la procura di Palermo ha portato avanti queste «piccole» indagini, cioè ha accusato i mandanti dell’omicidio Lima, poi avremmo trovato pure gli esecutori materiali, Francesco Onorato e Giovanbattista Ferrante, ma sarebbero arrivati nel 1996. Il 23 dicembre 1992 aveva ottenuto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del dottor Bruno Contrada.
Il 4 dicembre 1992 a due PM del tempo, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, Leonardo Messina avrebbe detto che, a suo avviso, l’onorevole o meglio senatore Giulio Andreotti era «punciutu». Sapete l’espressione che cosa significa, ma chiaramente questa dichiarazione resta, come doverosamente doveva restare, nell’ambito delle dichiarazioni in attesa di riscontro e il precipitato sarà il 4 marzo 1993, allorché Gaspare Mutolo, a sua volta, avanzerà delle dichiarazioni accusatorie nei confronti del senatore Andreotti e il 27 marzo la procura di Caselli avanzerà, alla Giunta delle autorizzazioni a procedere, la richiesta di procedere nei confronti del senatore Andreotti.
Questo era il contesto o il tentativo di contestualizzazione storica degli avvenimenti di quella procura laboratorio di investigazioni complesse, all’interno del quale si è presentato questo compendio di 150 pagine come l’unica chiave di lettura di fatti.
A mio ricordo, ma potrei sbagliarmi, tutte le sentenze che sono state rese dall’autorità giudiziaria di Caltanissetta, sia in sede di procedimento contro noti sia in sede di richiesta di decreti di archiviazione, convengono su un punto: che purtroppo la strage di via D’Amelio, così come quella precedente di Capaci, hanno una molteplicità di concause, all’interno delle quali si inscrivono anche quelle riconducibili al rapporto mafia-appalti, ma soltanto come concausa e non come causa esclusiva e meno che mai come causa acceleratrice di una determinazione.
Scusatemi perché ho preso più tempo di quanto ne avessi programmato, sono disponibile ove vogliate a darvi tutti i chiarimenti del caso.
Certamente lascerò il compendio dei venticinque allegati ai quali ho fatto riferimento nel corso di queste note che comunque lascio pure a corredo della dichiarazione.
1 febbraio 2024 – Seguito audizione del dottor Gioacchino Natoli, già presidente della corte di appello di Palermo.
Do la parola al senatore Scarpinato.
ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO.
Signor presidente, ho alcune domande molto sintetiche. Il dottore Patronaggio, che è stato sentito in una precedente audizione, ha riferito che il 14 luglio 1992 si svolse un’assemblea generale nell’ufficio della procura di Palermo, nell’ambito della quale si discusse di mafia e appalti. Volevo chiedere se lei fu presente, chi parlò di questo argomento, che cosa disse, se c’era Borsellino e quali furono i suoi commenti.
Seconda domanda. Lei ha interrogato, insieme a Borsellino e al dottor Lo Forte, Gaspare Mutolo. Le volevo chiedere se Gaspare Mutolo ha rilasciato, nel corso della sua collaborazione, dichiarazioni rilevanti sul tema mafia e appalti, in particolare per quanto riguarda le informative al ROS nel 1991.
Altra domanda, sempre che riguarda Mutolo. Se le risulta che Mutolo anticipò a Paolo Borsellino che avrebbe fatto importanti dichiarazioni sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e cosa nostra e se, dopo la strage di via D’Amelio, Mutolo fece queste dichiarazioni spontaneamente oppure fu sollecitato a farle.
Ultima domanda, se lei partecipò a una delle prime riunioni del pool della procura della Repubblica sul rapporto mafia e appalti, chi era presente, se le posizioni per le quali fu deciso di fare la richiesta di ordinanza di custodia cautelare furono concordate da tutto il pool, se vi furono dissensi e come avvenne quella discussione.
PRESIDENTE. Grazie. Presidente, le chiedo soltanto di stare sulle domande, in modo che tutti i commissari riescano a intervenire.
GIOACCHINO NATOLI
Senz’altro. Provo ad andare veramente per sintesi.
Sulla seconda domanda che lei ha posto, se Mutolo ha parlato di mafia e appalti, non ha mai parlato di mafia e appalti perché non ne aveva conoscenza. Questo perlomeno a memoria mia, che pure l’ho interrogato lungamente. Almeno per quello che ha riguardato gli interrogatori fatti in mia presenza, e non sono mai stati degli interrogatori fatti soltanto a me, ma c’era con me sempre qualche altro collega, a cominciare dal procuratore aggiunto Guido Lo Forte, non ha mai parlato di mafia e appalti. Tanto che credo di ricordare, io che pure non mi sono interessato del dossier mafia e appalti… Colgo l’occasione per dire espressamente che uno dei grandi equivoci che si è creato è quello secondo cui io mi sarei interessato di mafia e appalti. Stranamente, perché mi sono interessato veramente di parecchie cose all’interno della procura della Repubblica, questa assegnazione non mi è mai stata fatta, tranne in una fase iniziale della quale dirò immediatamente. Anzi, parliamone immediatamente, perché la quarta domanda che ho annotato riguarda proprio la riunione del cosiddetto «pool» della procura. Perché dico cosiddetto pool? Perché avviene a giugno 1991, quindi siamo prima dell’istituzione delle DDA, che sopravverranno, invece, alla fine di novembre 1991. Quindi, c’era un gruppo di lavoro, che io trovo quando arrivo dall’Ufficio Istruzione, che è costituito da cinque o sei colleghi, tra i quali anche il senatore Scarpinato. Come anticipavo poc’anzi, arrivo il 9, era un lunedì, e nel pomeriggio mi insedio, cioè prendo ufficialmente possesso del nuovo ufficio in tarda mattinata, mezzogiorno, l’una, nel pomeriggio c’è una riunione del pool della procura del tempo, costituito da cinque o sei colleghi, coordinato dal procuratore Giammanco, e vengo invitato a parteciparvi.
È l’occasione in cui il procuratore mi presenta agli altri colleghi, mi presenta ufficialmente, è chiaro che ci conoscevamo da moltissimo tempo. Quel pomeriggio, se ricordo bene e credo proprio di ricordare bene, i colleghi dovevano concludere, grosso modo, le loro valutazioni sul rapporto mafia e appalti, sul dossier mafia e appalti, quello presentato nel mese di febbraio. Vengono illustrate le posizioni. Si cominciano a delineare le posizioni, poche, rispetto alle quali i colleghi, a memoria mia in maniera assolutamente unanime, selezionano cinque o sei posizioni, sette posizioni, ora non ricordo. Tenete presente che io arrivo e non ho letto assolutamente nulla, quindi ascolto semplicemente quello che dicono gli altri. Il leitmotiv di questa riunione è incentrato sul fatto che il dossier mafia e appalti non ha elementi molto forti, ha più criticità che non elementi di forza. È un dossier molto ampio, credo di ricordare di 900 e passa pagine, non so quanti allegati di trascrizioni di intercettazioni, che avevano la caratteristica, da quello che ricordo, e che poi è inutile nascondervi, oggi, trentadue anni dopo, è chiaro che ho letto moltissime cose che all’epoca non sapevo. Selezionare quello che ho sentito quel giorno da quello che poi avrei appreso nei trenta e passa anni successivi sarebbe impossibile. Non avevano delle chiavi di lettura chiare. Evidentemente, il problema era trovare elementi che potessero sostenere le posizioni che si portavano a dibattimento, che si sarebbero dovute portare o potute portare a dibattimento. Il procuratore Giammanco, alla fine di questo incontro, ecco perché parlavo poc’anzi di aver avuto soltanto un accenno, un inizio di conoscenza di questo rapporto, siccome tra le schede che accompagnavano – così sento – quel rapporto ce n’era una di un mafioso del trapanese, della parte di Mazara del Vallo, Nunzio Spezia, chissà per quale motivo ritiene di assegnarmela, dicendo: «Siccome tu hai lavorato, prima di venire a lavorare a Palermo, per cinque anni a Trapani» dove avevo fatto di tutto, praticamente, anche misure di prevenzione che erano appena sorte «leggiti questa scheda». Abbiamo passato tante settimane, tanti mesi. Per carità, alla fine ho visto che non è che i mesi fossero tantissimi. Credo che il dossier fosse stato assegnato, i pezzi del rapporto fossero stati assegnati sul finire di marzo. C’erano aprile e maggio, ed eravamo ai primi di giugno. Comunque, abbiamo passato queste settimane. «Leggiti questa scheda, aggiorniamoci alla prossima settimana e traiamo le conclusioni che oggi sono state avviate». C’è una riunione successiva, che non saprei, a questo punto, se della settimana successiva o di dieci-dodici giorni dopo, in cui si riprende questo argomento. Chiaramente, mi si chiede se ho letto la scheda e rispondo: «Sì, secondo me non c’è assolutamente nulla che può sostenere una qualche misura» e i colleghi assegnatari (tra i quali non ci sono io, tanto che questa mia affermazione non è che viene supportata da «scrivi qualche cosa» o «dicci qualche cosa», ho semplicemente manifestato oralmente questo discorso) selezionano le cinque o sei richieste di ordinanza di custodia cautelare, sul finire, se non ricordo male, del mese di giugno, che poi porteranno, all’inizio di luglio, all’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Angelo Siino più altri quattro o cinque. Ripeto, su questi non saprei dire nulla di più. La cosa che di certo posso nuovamente ribadire è che qualsiasi decisione fu presa senza che alcuno manifestasse opinione contraria o dissenso, sempre in questo clima generale, giusto o sbagliato che sia stato. È chiaro? La rivisitazione di questi ultimi mesi ci porta quasi a pensare che evidentemente tutti hanno sbagliato, tutti abbiamo sbagliato. Sta di fatto che, se abbiamo sbagliato o se hanno sbagliato, abbiamo sbagliato all’unanimità, in una coerenza e in una coesione di valutazioni che certamente, per quello che è il mio ricordo, fino a quel momento ci sono state. E siamo quindi arrivati alla fine di giugno, primi di luglio del 1991.
C’era un’ultima cosa, ho annotato «Mutolo, Servizi e cosa nostra». Se per «Servizi» lei intende il dottore Contrada, presumo, che all’epoca era il numero 3 del SISDE, in mia presenza e per quello che ho letto dalle dichiarazioni di sempre del dottore Lo Forte, Mutolo non parlò mai fino a quando Paolo Borsellino è stato in vita. Per carità, gli interrogatori ai quali faccio riferimento non è che siano tantissimi. Sono quelli di giovedì 16, venerdì 17 e sabato 18 luglio.
I primi due fatti con Paolo Borsellino, quello del venerdì fino alle 12.35. Non è in memoria, l’ho dovuto rivedere nelle settimane passate. Poi, noi siamo rimasti con Lo Forte a interrogare nel pomeriggio del venerdì 17 e nella mattinata di sabato 18.
Mutolo non parlò mai del dottor Contrada, né espressamente né in maniera informale, per quello che riguarda, ripeto, la mia diretta conoscenza. Questo è stato oggetto di varie domande nei dibattimenti ai quali sono stato citato come teste.
Avrete saputo tutti e conoscerete tutti meglio di me che, invece, da altre fonti, intendo altri colleghi, abbiamo appreso, io per primo, che Paolo Borsellino il sabato o il venerdì 17… Ecco, dalla lettura delle audizioni, dalla mia audizione del 30 luglio 1992, avevo dimenticato e con sorpresa l’ho letta e la sto riferendo, emerge che Paolo Borsellino il venerdì 17, al mattino, dice a me e a Guido Lo Forte: «Sbrighiamoci perché io oggi, alle 14.30, devo prendere un aereo perché devo rientrare a Palermo». Leggo dall’audizione, ripeto, al CSM di dieci giorni dopo via D’Amelio, che mi disse: «Perché nel pomeriggio ho una riunione di coordinamento con il procuratore Tinebra, che si è insediato mercoledì». Tinebra si era insediato mercoledì 15 luglio e Paolo venerdì mattina, il 17, ci dice: «Ho questa riunione di coordinamento». Era una cosa che avevo completamente dimenticato e che chissà perché era diventata nel mio ricordo «perché ho un impegno familiare nel pomeriggio».
Poi, invece, dalle audizioni di altri colleghi apprendo che, non so se il venerdì pomeriggio, certamente il sabato mattina, Paolo ha detto ad alcuni colleghi, tra cui anche al senatore Scarpinato, se non ricordo male, che Mutolo aveva fatto riferimento al dottore Contrada e al PM Mimmo Signorino. Cosa, ripeto, che in presenza mia e certamente di Guido Lo Forte, non è mai accaduta. Quando riusciamo a mettere a verbale, con Gaspare Mutolo, questi due nomi? Ricorderete, forse, che la scorsa settimana ho fatto riferimento, per storicizzare il periodo del quale ci stavamo occupando, al fatto che, dopo via d’Amelio, l’attività della procura continuò abbastanza intensa ed efficace, devo dire. Gaspare Mutolo, per fortuna, mantenne ferma la sua decisione di collaborare con la giustizia. Il 1° settembre sopravvenne l’altra importantissima collaborazione di Pino Marchese. Sulla base già delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo e di Pino Marchese, la procura, in particolare l’allora PM Scarpinato, io.
Guido Lo Forte e forse nessun altro o forse un altro collega, non lo ricordo in questo momento, avanziamo, il 10 ottobre 1992, al GIP la richiesta di custodia cautelare nei confronti di tutti i componenti della commissione provinciale di Palermo di cosa nostra, quali mandanti dell’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, avvenuto il 12 marzo precedente. Perché è importante questo discorso? Perché, ottenuta la misura, la settimana successiva, credo il 23 ottobre 1992, con Lo Forte andiamo a interrogare nuovamente Gaspare Mutolo, il quale, nei mesi precedenti, in quei tre mesi in cui aveva mantenuto ferma la sua volontà di andare avanti, ci diceva: «Io voglio parlare intanto dell’organizzazione cosa nostra, di cosa nostra militare, delle decine se non centinaia di omicidi che abbiamo fatto sul versante, appunto, militare, e non voglio parlare di rapporti che riguardano la politica, di rapporti che riguardano esponenti o comunque appartenenti alle istituzioni deviate». Noi approfittiamo della importanza, soprattutto dell’impatto mediatico che questo provvedimento fatto nei confronti della commissione per l’omicidio Lima ha sulla stampa, per ritornare da Mutolo e dirgli: «Mutolo, lei si sta rendendo conto che lo Stato, attraverso questa azione, sta dimostrando di avere una seria volontà di andare avanti, di non guardare in faccia nessuno, perché finalmente si vuole fare chiarezza su tutto ciò che riguarda le azioni a 360 gradi poste in essere da cosa nostra? Quindi, ha per caso conoscenza di rapporti tra cosa nostra e pezzi deviati dello Stato?». A questo punto Mutolo finalmente comincia a parlare dei rapporti con il dottore Contrada e con l’allora sostituto della procura di Palermo Mimmo Signorino, che era stato uno dei due rappresentanti in dibattimento davanti alla corte d’assise di Palermo, nel primo storico processo contro cosa nostra. Quindi, verbalizziamo queste prime dichiarazioni il 23 ottobre 1992 e chiaramente l’avevo accennato l’altra volta – una misura cautelare nei confronti del dottore Contrada la otteniamo nel mese di dicembre, non ricordo, forse il 22 dicembre 1992. Resta l’assemblea del 14 luglio 1992. Ho partecipato a quella assemblea, era una assemblea abbastanza partecipata – una trentina di colleghi – che era stata preannunciata con una convocazione scritta che diceva: «Riuniamoci perché intanto cogliamo l’occasione per fare quest’ultima assemblea prima delle ferie estive.» – siamo al 14 luglio – «Nel corso di questa assemblea saranno trattati i seguenti punti» che a memoria credo di ricordare fossero: mafia e appalti, ricerca latitanti, cosiddetto «libro mastro dei Madonia o di via D’Amelio». Questo discorso perché nelle settimane precedenti, nei giorni precedenti, non saprei quantificare esattamente il numero dei giorni, sulla stampa era ritornata – il motivo per cui era ritornato questo problema non lo ricordo, ma certamente il problema era ritornato sulla stampa – una polemica su quello che riguardava il dossier mafia e appalti, sempre sull’onda del «avremmo potuto fare delle cose, si sarebbero potute fare delle cose straordinarie, ma siccome la procura è fatta da gente inaffidabile, evidentemente queste cose non vengono fuori». Poi, ricerca latitanti, perché? Perché c’era stata una notizia di stampa secondo la quale Totò Riina avrebbe potuto essere catturato e non era stato catturato.
Libro mastro, perché? Il 29 agosto 1991, quindi circa un anno prima, lo ricorderete, era stato ucciso a Palermo l’imprenditore Libero Grassi. Sulla stampa era venuta fuori, era montata una polemica secondo la quale la procura di Palermo, sempre questa procura inaffidabile, aveva lasciato liberi o non aveva catturato soggetti che emergevano dal cosiddetto libro mastro. Il libro mastro era stato trovato in un appartamento di via d’Amelio e conteneva una serie di soggetti, una serie numerosa di soggetti che erano stati estorti, ma con indicazioni che erano appena accennate. Ne dico una. Vi ripeto, l’ho letta, ma rileggetele pure voi queste cose. C’era Ciccio Taglia. Chiaramente, per noi Ciccio Taglia era Ciccio Tagliavia, uomo d’onore dalla parte di Brancaccio. Era stata fatta una misura. La Cassazione aveva ritenuto che Ciccio Taglia non potesse identificarsi in Ciccio Tagliavia. Questo per dire – mi riporto a un passaggio dell’audizione della volta passata – che tra le idee, i sospetti, le ipotesi di una procura e di un pubblico ministero e il vaglio che un giudice, dal giudice delle indagini preliminari al tribunale del riesame, alla Corte di cassazione, fa, poi, delle evidenze di questi elementi c’è di mezzo il mare. Ciccio Taglia, che per noi, e non solo per noi, era certamente Ciccio Tagliavia, per la Cassazione era un elemento, invece, insufficiente per ottenere un provvedimento di custodia cautelare nei confronti del soggetto.
Questo elemento, quindi, aveva portato alla polemica sulla stampa, secondo la quale la procura aveva lasciato liberi certi killer a Palermo, i quali avevano ucciso il povero Libero Grassi. Ecco per quale motivo c’è il passaggio assicurato. Per quanto riguardò «Mafia e appalti», uno dei relatori certamente fu Guido Lo Forte. L’altro avrebbe dovuto essere il senatore Scarpinato, se fosse stato presente, ma aveva, purtroppo, gravi problemi di famiglia e non partecipò a quella riunione. Fece la relazione ampia Guido Lo Forte, il quale, ad esempio, fece presente che c’era a monte del dossier mafia e appalti un problema giuridico di non poco momento, soprattutto per dei sostituti procuratori e per una procura che, costituzionalmente orientata, ragiona, come ho detto pure nell’audizione passata, o avrebbe dovuto ragionare con la mentalità del giudice, quindi non andando avanti a testa bassa in una ipotesi accusatoria, ma ponendosi nell’ottica «e poi, quando andiamo avanti, come si può motivare questa decisione?». Quindi, Guido Lo Forte spiegò che il dossier mafia e appalti metteva insieme una serie di intercettazioni che avevano delle fonti di tipo diverso, alcune intercettazioni fatte un po’ come quelle di Massa-Carrara, alle quali pure ho fatto riferimento, richieste dall’Alto Commissario, buone per andare avanti nelle indagini, ma inutilizzabili a livello giudiziario a qualsiasi livello. Ottenute dal giudice istruttore, sotto l’impero del codice del 1930, intercettazioni che dal giudice istruttore erano passate alla procura della Repubblica con il codice nuovo del 1989, perché l’istruzione non era stata conclusa entro il 31 dicembre 1990. Quindi, erano utilizzabili, non erano utilizzabili, soprattutto su un punto: l’utilizzabilità, la transitabilità delle intercettazioni quando riguardavano il 416-bis semplice, cioè per la semplice partecipazione, per il primo comma e non già per il secondo comma, cioè per i capi, gli organizzatori e coloro che avevano costituito l’associazione. Questo era un problema di grandissima importanza, soprattutto perché siamo in una fase iniziale delle interpretazioni delle norme del nuovo codice, sulle quali non c’era una giurisprudenza, quindi si poteva sostenere che erano tutte utilizzabili oppure bisognava fare attenzione perché, se si portavano avanti delle ipotesi, poi davanti al giudice sarebbero potute crollare. Attenzione, da questo punto di vista, non è solo il giudice dell’indagine preliminare, non è solo il giudice del riesame, ma è il giudice fino alla Cassazione. Laddove certi elementi a carico di un soggetto si fossero basati su intercettazioni illegittime, talché inutilizzabili, evidentemente fino alla Cassazione ci sarebbe stata la possibilità di vedere revocare una eventuale decisione di grado inferiore o precedente di responsabilità.
Questi erano i motivi sui quali si è parlato. Si parlò dell’indagine, della necessità, che era stata assunta, per i motivi ai quali pure facevo riferimento l’altra volta, di chiudere delle posizioni, che erano chiaramente posizioni che in quel momento non presentavano elementi sufficienti per andare avanti. Intanto faccio l’archiviazione. Dopodiché, mi sopravviene un elemento di novità che mi legittima a richiedere al GIP la riapertura delle indagini per il quid novi che è sopravvenuto. Riapriamo e andiamo avanti. Questo è quello che ricordo io. Paolo Borsellino, io ho un’immagine…
PRESIDENTE. Chiedo scusa, presidente Natoli, così indico dei tempi e do una specifica, e poi la faccio continuare. Credo che la domanda del senatore Scarpinato fosse specifica: si è parlato o no dell’archiviazione? Patronaggio ci ha detto di sì.
PRESIDENTE. Quindi, Borsellino era a conoscenza dell’archiviazione?
GIOACCHINO NATOLI. Certo. Per quello che ricordo io…
PRESIDENTE. Che non risulta nel verbale di Patronaggio al CSM.
GIOACCHINO NATOLI Perdonatemi. Non risulta dal verbale di Patronaggio, però non vi sarà sfuggito da quel verbale che l’ottimo oggi procuratore generale di Cagliari dice, in quel verbale, che era la prima riunione alla quale lui partecipava, che era arrivato da due-tre mesi in procura, che addirittura quello è il primo giorno nel quale – se ricordo bene le sue parole – lui ha preso coscienza delle divaricazioni esistenti all’interno della procura di Palermo. Ecco, io ho detto che ho partecipato…
PRESIDENTE. Come se avesse preso coraggio.
GIOACCHINO NATOLI. Non come se avesse preso coraggio, attenzione. È quello che io ho detto con riferimento alla mia prima riunione del 9 giugno 1991. Io non avevo letto nulla. Ho partecipato a una riunione nella quale i colleghi hanno rappresentato quello che avevano letto e studiato del dossier mafia e appalti. Il mio apprezzamento delle loro rappresentazioni dei fatti è l’apprezzamento di un soggetto che non ha la stessa conoscenza delle cose.
Quindi, tornando a Patronaggio, inquadriamolo in questo riferimento. A che cosa intendo fare riferimento, per quello che, invece, è stato il mio ricordo? Patronaggio dice che Paolo Borsellino chiese spiegazioni delle carte: «Che fine hanno fatto le carte di Marsala?». Le carte di Marsala erano quelle che riguardavano l’appalto di Pantelleria, della litoranea di Pantelleria, che egli aveva trattato, lui e Antonio Ingroia avevano trattato alla procura di Marsala, in quanto competenti territorialmente – ripeto, ne ho una conoscenza de relato e come tale ve la porgo – che aveva mandato, se non sbaglio, a Palermo, perché c’era stata una segretaria che aveva fatto delle dichiarazioni a carico di qualche soggetto che risultava nel rapporto. Quindi, chiede: «Quelle carte che abbiamo mandato» – e tenete presente che Antonio Ingroia era in procura da noi già, quindi era transitato qua con il bagaglio delle sue conoscenze – «che fine hanno fatto?». Questo è il mio ricordo di quella richiesta di chiarimenti di Paolo Borsellino.
Stavo dicendo che, sempre come immagine visiva, io ho un’immagine di Paolo Borsellino che stava a ridosso di una porta aperta, che era la porta d’accesso alla sala nella quale noi eravamo riuniti, appoggiato ad uno stipite. Perché? Perché Paolo fumava, fumava in continuazione. Giammanco, se c’era una cosa, tra le tante, che odiava era il fumo, quindi Paolo stava appoggiato allo stipite. Ho un vago ricordo che c’era un altro che fumava insieme a lui, che potrebbe essere stato Antonio Ingroia. Ogni tanto entrava all’interno della stanza – era come se fosse stato lì e noi fossimo seduti qua –, faceva una domanda o seguiva, comunque, quello che si stava dicendo e ritornava fuori. Quindi, non ho un ricordo – per essere preciso sul punto – di critiche che Paolo Borsellino muove relativamente all’illustrazione di questo rapporto mafia e appalti. Poi, c’è il dottor Pignatone che parla della cosiddetta «mancata cattura» di Riina e sul libro mastro di via d’Amelio, Vittorio Teresi e Ignazio De Francisci. Il terzo avrebbe dovuto essere Alfredo Morvillo, che però, anche lui, per motivi familiari, quel pomeriggio non è presente.
Questo ricordo, ripeto, dopo trentadue anni, o qualcosa di più, di quel 14 luglio 1992. Mi pare di aver risposto alle sue domande.
PRESIDENTE. Prego, senatore, soltanto una cosa.
ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Le chiedo se Borsellino le parlò di un’arrabbiatura che aveva avuto che riguardava Contrada, in un incontro con Contrada.
GIOACCHINO NATOLI Questa è famosissima.
PRESIDENTE. Mi scusi, prima che risponda, per gestire al meglio i lavori, vorrei far presente che ci sono ancora sei iscritti a parlare e, volendo stare nei tempi, dovremmo chiudere per le 16.30, massimo 17, per cui le chiedo una sintesi, diversamente non si riesce a consentire ai commissari di intervenire e non mi sembra corretto.
GIOACCHINO NATOLI Certamente. Si riferisce l’arrabbiatura – ne ho già parlato in altre sedi e quindi mi rifaccio a questo ricordo – all’incontro del 1° luglio 1992, quindi è il giorno nel quale Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò vanno a Roma, dopo che c’è stato tutto il problema dell’assegnazione controversa «chi deve interrogare Mutolo»; su Leonardo Messina non ci furono questioni.
Per il primo interrogatorio di Leonardo Messina e di Gaspare Mutolo vengono designati i due procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino. Paolo Borsellino sta interrogando, insieme a Vittorio Aliquò, Gaspare Mutolo e ricevono, non so attraverso quale passaggio, una telefonata dal Viminale, secondo la quale il Ministro Mancino che si sarebbe insediato quel giorno desiderava incontrarli. Vanno al Viminale e questo Paolo me lo racconta, se ricordo bene, il giorno successivo, quando rientra a Palermo. Vanno al Viminale dove, invece di andare direttamente nella sala nella quale il Ministro si sarebbe dovuto insediare, non so bene che tipo di manifestazione o che tipo di evento fosse, vengono portati in un salottino dove restano per un quarto d’ora, venti minuti. Paolo, tanto per cambiare, come dicevo prima, fuma nervosamente. Dice che a un certo punto vede aprire una porta dalla quale appare la figura dell’allora capo della Polizia Parisi, che lo saluta, chiaramente, e dietro Parisi c’è il dottor Bruno Contrada, che probabilmente era l’ultima persona che Paolo Borsellino immaginava di incontrare quel giorno, perché non aveva motivo di incontrarlo. Il dottor Contrada, nello scambio di saluti e di cose che il capo della Polizia dice, aggiunge: «So che state sentendo Gaspare Mutolo. Lei se lo ricorda che io, negli anni Settanta, ho fatto indagini su Gaspare Mutolo? Se per caso dovesse avere bisogno di qualcosa, tenga presente di queste mie pregresse conoscenze».
Chiaramente Paolo Borsellino – ecco il perché dell’arrabbiatura, per non usare altra espressione più greve – ritorna il giorno dopo dicendomi: «Guarda che cosa è accaduto». Della esistenza della collaborazione di Gaspare Mutolo noi pensavamo di essere i pochissimi destinatari. La notizia dalla procura di Firenze, a memoria mia, arrivò intorno al 24 giugno, quindi era una cosa recentissima. Era il primo giorno che loro stavano incontrando Gaspare Mutolo. Ritenevano e ritenevamo che la cosa fosse avvolta dalla riservatezza, non voglio dire dal segreto, ma dalla riservatezza più assoluta. Il fatto che spunti un soggetto, intendo il dottor Bruno Contrada, che non aveva alcun motivo di conoscere queste cose, che dice: «So che state sentendo Gaspare Mutolo», evidentemente, fa saltare in aria il dottor Paolo Borsellino.
Addirittura, in un interrogatorio successivo, Gaspare Mutolo ci dirà che quel giorno, quando ritornò da quest’incontro al Viminale, Paolo Borsellino era talmente esagitato che aveva una sigaretta in bocca e contemporaneamente tentò di accenderne una seconda, al punto che Gaspare Mutolo dice: «Procuratore, ma già sta fumando». Questo per dire come era fuori dai gangheri. Questo è il ricordo che ho di quella vicenda.
Strage di Via D’Amelio – SCARPINATO, NATOLI e la COMMISSIONE ANTIMAFIA