di Piero Melati
C’è un termine odioso per etichettare le vittime civili di una guerra: effetti collaterali. Coloro che vengono indirettamente sacrificati ai margini di un conflitto piombano sempre nell’anonimato e nella nebbia. Il ricordo del loro sacrificio è relegato alla cerchia di familiari e amici. Non sono mai “eroi”, non meritano di essere ricordati sotto una speciale aura. Vengono spersonalizzati, perdono l’identità, rischiano di diventare numeri e a volte neppure quello. Sarebbero, insomma, morti solo per caso o per banalità. Biagio Siciliano e Giuditta Milella, due studenti dello storico liceo classico palermitano Meli, da quando sono caduti nel lontano 25 novembre del 1985, sono stati commemorati ogni anno, ad ogni anniversario, da una comunità di familiari e amici. Furono investiti “per caso” dalle auto blindate della scorta dei giudici del pool antimafia Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, mentre dopo le lezioni aspettavano il bus per tornare a casa alla fermata della scuola. Un malauguratissimo incidente stradale, in apparenza. Ma non è vero, non è così.
Che a Palermo e in Sicilia, dalla fine degli anni Settanta sin quasi al tramonto degli Ottanta, ci sia stata una guerra civile è cosa indubbia. Mille e più morti di mafia, con la decapitazione sistematica di ogni rappresentante delle più alte istituzioni dello Stato, stanno a testimoniarlo. In quelle settimane, in particolare, si era alle battute finali nella preparazione dello storico Maxiprocesso di Palermo, che si sarebbe inaugurato nell’aula bunker dell’Ucciardone il successivo 10 febbraio dell’86.
Ma cosa era accaduto prima dell’incidente del liceo Meli? In quel terribile 1985, il 23 febbraio, era stato assassinato il presidente del Palermo calcio Roberto Parisi, tra fine luglio e inizio agosto erano stati annientati dal piombo mafioso i poliziotti cacciatori di latitanti Beppe Montana e Ninni Cassarà, il presunto basista del delitto Montana era stato torturato a morte in questura, i giudici che stavano istruendo il Maxiprocesso erano stati trasferiti in gran fretta all’Asinara, poiché lo Stato non era in grado di preservarne le vite a Palermo. Questo fu il contesto dei fatti del liceo Meli. Le sirene e le scorte, gran tormento della città, divennero un simbolo militare e una lugubre colonna sonora quotidiana, spesso strumentalmente utilizzati per togliere consenso a chi lottava contro Cosa Nostra. Al ritorno dall’Asinara, per i giudici venne subito innalzato il livello di sorveglianza. Questo significava, anzitutto, sfrecciare per le strade alla massima velocità e a sirene spiegate, per ostacolare il più possibile l’esecuzione materiale di un attentato.
Quando, quel 25 novembre, l’auto civetta della scorta sbanderà in piazza Croci, e si schianterà sulla fermata del bus gremita di studenti, per evitare un’altra auto all’incrocio, subito i militari a guardia dei magistrati credettero a un agguato. Scesero in strada a mitra spianati, con l’adrenalina in corpo di chi pensa che verrà centrato da fuoco nemico, e sarà lo stesso giudice Borsellino a raggiungerli in fretta per dire loro che non di attentato si trattava, ma di un incidente. Una morte “banale”, dunque? Furono decine gli studenti feriti, due di loro irrimediabilmente. Come è possibile definire “banale” la loro morte? Furono vittime, invece. Ma di che cosa? Non del caso, certamente. Piuttosto, come disse l’allora procuratore capo Vincenzo Pajno, “vittime di mafia”, perché sacrificati al clima di quei mesi, nella stessa città in cui Biagio e Giuditta erano nati, cresciuti e andavano a scuola. Oggi una targa, posta sul luogo della tragedia, li ricorda. Deve essere, invece, la nostra memoria a collegare a quell’infausto evento un altro fatto altrettanto tragico: il giudice Paolo Borsellino, diventato suo malgrado il simbolo dell’incidente del Meli, cadrà anche lui con i suoi angeli custodi, nella strage di via D’Amelio, il 19 luglio del 1992.
In occasione del primo anniversario della morte di Biagio e Giuditta, Paolo Borsellino prese per mano la figlia più piccola Fiammetta e uscì di casa per andare a partecipare alla cerimonia in suffragio dei due studenti, all’istituto salesiano Don Bosco. Ma quella ferita, nonostante il gesto, nel corso di tanti anni e di annuali cerimonie, non verrà mai completamente assorbita, né dalle famiglie Siciliano e Milella e nemmeno dalla famiglia Borsellino. Del resto, che pace mai ci può essere, quale riconciliazione oppure elaborazione del lutto possibile, per una simile tragedia? Non sarà mai dato di farsene una ragione.
Proprio per la sua particolarità, la storia di Biagio e Giuditta rimarrà la pietra d’inciampo della lotta alla mafia a Palermo. Questa tragedia, se osservata in tutte le sue implicazioni, offrirà sempre punti di vista cangianti e mai per questo meno dolorosi. Sul contrasto alla mafia, come è noto, si è costruito non senza ragione un pantheon di “eroi”. Dopo tanti decenni trascorsi, forse è arrivato il momento di allargare il concetto di “vittima”. Per fare un altro esempio, al pari del giudice Rocco Chinnici, personalmente considero “vittime di mafia” anche tutti i ragazzi che sono morti di eroina, a causa dell’apertura di decine di raffinerie di droga in una Sicilia militarmente governata dalla mafia. Anche la storia di Biagio e Giuditta ci chiama a compiere un ulteriore sforzo in questo senso. Se furono vittime del clima creato dalla mafia oppure direttamente dei metodi conseguenti cui fu costretta la stessa lotta alla mafia, dobbiamo avere il coraggio di tenere aperta la domanda. Biagio e Giuditta non erano poliziotti, non erano magistrati, non erano né i soldati né i generali di una guerra. Erano due studenti, eppure di quella guerra sono morti. Quando una trincea ti chiama e ti costringe, quella trincea anche ti definisce. Siamo chiamati, nell’ambito del ricordo e della ricostruzione della nostra comune tragedia siciliana, ad allargare il campo nel quale l’umanità deve rielaborare la cruciale distinzione tra vittime e carnefici.
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