16.4.2025 🟥 VIA D’AMELIO – ➡️ DE DONNO e MORI in COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

 

 

 

 

 

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Ci sono voluti quasi vent’anni di travagli giudiziari, sempre chiusi con assoluzioni definitive, affinché l’ex comandante del ROS Mario Mori potesse tornare a parlare davanti a una Commissione parlamentare antimafia. È successo oggi, per la prima volta, nella sede presieduta da Chiara Colosimo. Con lui c’è anche Giuseppe De Donno, ex ROS anche lui, per il quale si tratta di un ritorno: l’ultima audizione risale infatti al 1993, quando, da investigatore, aveva spiegato come la mafia condizionasse il sistema degli appalti pubblici.
Allora, la politica lo ascoltava compatta. Oggi, però, il quadro è ben diverso. La scena è polarizzata, frammentata, ideologizzata. Le accuse lanciate da un certo settore della magistratura palermitana a partire dalla fine degli anni Novanta hanno avuto un peso e chi un tempo era in prima linea nelle indagini è stato trasformato, nell’immaginario collettivo e mediatico, in una figura opaca, talvolta losca.
È Mori a prendere la parola. «Il 22 settembre 1986 – ricorda – assunsi il comando del Gruppo Carabinieri Palermo 1°. Era la mia prima volta in Sicilia». Dopo una carriera nell’Arma, compreso il Nucleo Speciale di Dalla Chiesa, si capiva che per combattere la criminalità organizzata non bastava inseguire i singoli reati, ma occorreva studiarne la struttura, la logica, l’economia. «A Palermo trovai altro: un’attività frammentata, senza strategia», afferma. L’azione immediata, seppur d’impatto, mancava di visione.
Eppure, il 6 maggio 1987, i suoi uomini arrestarono Francesco Madonia e due figli, condannati a più ergastoli – un successo che però non svelò le dinamiche interne di Cosa nostra. Mori capì che la mafia non teme l’arresto dei suoi esponenti – sono sempre rimpiazzabili – ma teme che si scavi nei suoi legami esterni, in particolare negli appalti pubblici, il vero motore del potere mafioso. «Il pizzo rende poco. È nel condizionamento degli appalti che la mafia costruisce il suo impero», sottolinea. Ed è su questo fronte, metodo poi abbracciato con convinzione da Giovanni Falcone, che decise di attivare un nucleo speciale, al di fuori degli schemi tradizionali.
Dopo Mori, interviene De Donno e ricostruisce l’indagine del 1989 condotta con il magistrato Di Pisa sugli appalti truccati a Palermo, con Ciancimino e Lima ai vertici del sistema. Una lettera trovata nella cassaforte del sindaco Orlando, firmata dall’Alto Commissario Antimafia, segnala il coinvolgimento di Ciancimino. Orlando non sa spiegare e viene indagato. Anche Falcone conosce bene la vicenda: nel ’91 la cita al CSM per difendersi da accuse dello stesso Orlando. Ma l’inchiesta si arena: arresti, lettere anonime, un’indagine che coinvolge Di Pisa, poi assolto, ma estromesso. Tutto si ferma lì.
De Donno, sempre davanti alla Commissione Antimafia, prosegue ripercorrendo passo dopo passo la genesi e lo sviluppo dell’inchiesta “Mafia appalti”, ricostruendo anche le frizioni – mai risolte – tra i Carabinieri del ROS e la Procura di Palermo. Il 20 febbraio 1991, il ROS consegna a Falcone il dossier da 877 pagine, corredato da centinaia di allegati. È una sintesi poderosa delle prime risultanze investigative sugli appalti pubblici in Sicilia, firmata proprio da De Donno. «Falcone ci aveva sollecitato più volte il deposito – racconta l’ ex ufficiale – perché temeva che, una volta trasferito al Ministero, l’inchiesta potesse essere messa da parte». E infatti, appena ricevuto il dossier, Falcone lo trasmette al procuratore Giammanco. Poi parte per Roma. Da lì in avanti, tutto si complica.
Già prima della consegna ufficiale del dossier, De Donno aveva trasmesso a Falcone e ai pm Pignatone e Lo Forte alcune annotazioni in cui si ipotizzavano responsabilità di politici. Ma da Palermo, secondo lui, non arrivò mai alcuna delega. Il 9 luglio 1991 scattarono i primi arresti, tra cui Angelo Siino, ma la Procura – denuncia De Donno – agì senza informare il ROS e consegnò l’intero dossier alle difese, rendendo pubbliche informazioni riservate. Da quel momento, lo scontro tra magistrati e carabinieri si fece insanabile. Il 20 luglio, un articolo del Corriere della Sera rese pubblici i contrasti. Pochi giorni dopo, Giammanco smembrò l’inchiesta, inviando i fascicoli alle Procure dell’isola: l’indagine unitaria era finita.
Falcone reagisce: affida alla giornalista Liana Milella alcuni appunti che diventeranno i suoi “diari” e incarica De Donno di informare il presidente dell’Antimafia Chiaromonte sull’intera indagine. In uno di quegli scritti, pubblicati dal Sole 24 Ore, accusa Giammanco di aver cercato di bloccare l’inchiesta sugli appalti, su pressione – scrive – di «qualche uomo politico».
Nel frattempo, da Massa Carrara arriva alla Procura di Palermo un’informativa su alcune società legate all’imprenditore Antonino Buscemi. Gli incroci con le indagini del ROS sono evidenti. Ma nessuno informa i Carabinieri. «Con quella segnalazione potevamo completare il quadro – dice oggi De Donno –. Ma la pratica fu data alla Guardia di Finanza e chiusa in fretta con l’archiviazione».
E alla fine l’archiviazione arriva anche per l’inchiesta madre. Il 13 luglio 1992, gli allora pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione del dossier. Per De Donno, quella richiesta è il sigillo su una lunga operazione di ridimensionamento. E non sarebbe stato l’unico ad annusare che qualcosa non andasse. Borsellino stesso, in quelle settimane, aveva definito la strage di Capaci «stabilizzante» e aveva manifestato l’intenzione di riaprire l’indagine su mafia e appalti. Come se sapesse che lì dentro si nascondesse qualcosa che altri volevano non vedere. Alla prossima audizione, data ancora da stabilire, ci saranno le domande poste dai commissari. Si prevede forte tensione.
 

Che il M5S accusi di falsità la ricostruzione dell’ex Ros Giuseppe De Donno, introdotto brevemente dal suo ex capo Mario Mori, non stupisce. Parliamo pur sempre di un movimento politico che oggi ha “reclutato” come senatore l’ex magistrato Roberto Scarpinato, uno dei titolari della famosa indagine “mafia e appalti”, che ha fatto del teorema – rivelatosi fallimentare – sulla “trattativa Stato-mafia” uno dei capisaldi della propria narrazione. Stupisce, semmai, la reazione dei parlamentari del Partito Democratico, membri della Commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo.
Stupisce perché, se il M5S ha come punti di riferimento un Marco Travaglio o un Giorgio Bongiovanni di Antimafia2000 – l’uomo che parla con gli alieni, vedere per credere – il PD, sul fronte del fenomeno mafioso stragista, ha (o almeno dovrebbe avere) come punti di riferimento storici come Salvatore Lupo o le analisi lucide di Massimo Bordin, di cui è appena ricorso il sesto anniversario della morte. Ecco perché ha provocato stupore quando, nel comunicato sottoscritto, tra gli altri, da Deborah Serracchiani, Franco Mirabelli e Giuseppe Provenzano, abbiamo letto che sono rimasti colpiti «dal fatto che nelle circa due ore di relazioni, gran parte del tempo sia stato dedicato ad autodifese dei propri comportamenti». Dal tenore di questo passaggio si sottintende che avrebbero avuto comportamenti ambigui dai quali sono stati costretti a difendersi. No, non è così.
Mori e De Donne assolti da tutte le accuse
Partendo dal fatto che non devono difendersi da nulla, visto che – pensiamo solo a Mario Mori – hanno subito processi su processi che hanno “vinto” con assoluzioni senza equivoci, la relazione era concentrata sul procedimento del dossier mafia-appalti. Non è stata autodifesa: casomai sono stati costretti a smentire le bufale che vengono riproposte in continuazione. Basti pensare al discorso secondo cui loro avrebbero nascosto dolosamente i nomi dei politici, per poi tirarli fuori all’improvviso solo in una successiva informativa: non è smentita da De Donno, anche se ha tutto il diritto di farlo, ma dagli atti giudiziari, che andrebbero letti laicamente, senza farsi fuorviare da chi ha altri interessi. Nell’immaginario, sembra che a criticare l’operato di una parte della procura di Palermo di allora siano stati solo gli ex Ros. Quasi da far capire che loro erano interessati a delegittimare per “indicibili” motivi.
Le parole di Giovanni Falcone
Se si avesse la pazienza di leggere tutta la documentazione, dai verbali emerge che è stato Falcone stesso a criticare i suoi colleghi. Il giudice ha seguito effettivamente tutte le indagini dei Ros partite dall’anno ‘88 e scaturite con il dossier depositato – per suo stesso volere – il 20 febbraio del 1991. Parliamo di indagini che riguardano – come si legge nel dossier sottoscritto anche da Falcone – «fatti accertati in Palermo, nella regione Sicilia e nel territorio nazionale dal 1988 in poi». Grazie alle informative precedenti al dossier, Falcone – come altri magistrati della procura di Palermo – era perfettamente a conoscenza, già con le informative inviate a partire da settembre 1990, dell’esistenza di una complessa attività investigativa volta alla “identificazione” dei personaggi della politica e dell’imprenditoria nazionali. Dai verbali si evince che Falcone – conoscendo appunto il dossier e le informative precedenti dei Ros – si mostrò molto critico nei confronti della Procura, soprattutto a seguito di quei soli sei arresti. Ne riportiamo soltanto due, ma è solo la punta dell’iceberg.
I verbali
Il primo è un verbale di assunzione di informazioni del 1997 riguardante Liana Milella, all’epoca giornalista del Sole 24 Ore. È stata sentita avendo, all’indomani della strage di Capaci, pubblicato sul giornale le annotazioni dei diari di Falcone che lui stesso le aveva consegnato. Il motivo della consegna dei diari, ha detto Milella, era perché «era preoccupato di mostrare, almeno alle persone a lui più vicine, quali fossero i reali motivi che lo avevano indotto a lasciare Palermo». Non solo. «Anche prima di consegnarmi i suoi “appunti” – ha raccontato Milella – Falcone disse che alla Procura di Palermo non aveva più spazi e possibilità operative per lavorare efficacemente». E ha aggiunto: «Ciò a causa della contrapposizione che si era venuta a creare con il Procuratore Giammanco e con i sostituti procuratori a Giammanco più vicini, tra i quali in particolare il dr. Lo Forte e il dr. Pignatone».
Mafia-Appalti: la verità
Ma veniamo a mafia-appalti. Alla domanda se avesse avuto o meno qualche confidenza da Falcone relativamente alla gestione di quel dossier dei Ros, Milella ha risposto: «Falcone, in più occasioni, e in particolare dopo gli arresti, aveva commentato, con grande delusione, gli sviluppi di quell’inchiesta dicendomi che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone e riferendomi che non si volevano sviluppi di alcun genere nei confronti dei politici». L’altro verbale è del 1998 e riguarda la testimonianza dell’ex ministro Claudio Martelli. L’argomento è sempre mafia-appalti ed è stata posta la domanda se Falcone mai ne parlò con lui, relativamente alla gestione del procedimento. «Quel che ricordo – ha raccontato Martelli – è che Falcone osservò che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine. Quando poi è sorto un certo clamore (i giornali critici, ndr), allora il procuratore di Palermo aveva avuto la bella pensata di venire a Roma e, con un atto irrituale, di consegnare al ministro quella documentazione. Per questo Falcone mi suggerì di non incontrare Giammanco. Non escludo che vi sia traccia formale della decisione mia o degli Uffici, di considerare irrituale e irricevibile la trasmissione di quegli atti dalla Procura di Palermo al ministero della Giustizia».
Tutte le strade portano a “Mafia-appalti”
Un altro falso mito sostiene che il nesso mafia appalti-stragi sia un’invenzione degli ex Ros. Nel comunicato del PD si lascia intendere che sia farina del sacco di Mori e De Donno. Falso. Tutte le sentenze su Capaci e via D’Amelio confermano quel legame, a meno di pensare che Pm e giudici, fino al Borsellino quater, fossero eterodiretti dai Ros. I fatti parlano: Borsellino, appena nominato procuratore aggiunto a Palermo nel gennaio 1992, era visto con timore da Cosa Nostra. Pino Lipari, tra i vertici mafiosi e archiviato nel 92 nell’inchiesta mafia-appalti, disse che avrebbe creato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco”. Le difficoltà non mancarono: a Borsellino furono inizialmente assegnate solo Trapani e Agrigento, non Palermo. Le sentenze di Caltanissetta chiariscono che quella delega arrivò solo il giorno della sua morte, dopo continue sollecitazioni.
Borsellino, inoltre, aveva mostrato particolare attenzione, dopo la morte del collega e amico Giovanni Falcone, per le inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse primario che tale settore rivestiva per la mafia. Secondo quanto già emerso nel procedimento Borsellino ter, fu lui stesso a proporre, il 25 giugno 1992 durante un incontro alla caserma Carini di Palermo, la creazione di un gruppo del Ros coordinato da De Donno per approfondire quelle indagini. Il suo interesse per il tema, unito all’incarico di procuratore aggiunto e alla concreta possibilità che venisse nominato Procuratore Nazionale Antimafia, secondo tutte le sentenze furono elementi che spinsero Cosa Nostra ad accelerarne l’eliminazione (Falcone e Borsellino erano nel mirino da anni). Anche perché, da quella posizione, avrebbe potuto coordinarsi con Di Pietro e saldare l’indagine con Tangentopoli.
Che Borsellino stesse, da solo, ricostruendo mafia appalti negli ultimi giorni di vita, lo confermano i verbali desecretati dalla Commissione antimafia. Qualcuno, dentro la Procura, remava contro. Non possiamo pretenderlo dal M5S, ma almeno dal PD si spera che non si remi contro ancora oggi. Anzi, sappiamo che tra le carte sequestrate in ufficio ci sono diversi manoscritti di Borsellino. Il PD potrebbe collaborare e chiedere a Chiara Colosimo di recuperarli. A qualcuno interessa saperlo?
 
 

La strage di via D’Amelio, De Donno: «Nell’ufficio di Borsellino carte su mafia e appalti»

«Dal verbale di sequestro del materiale acquisito nell’ufficio del dottor Borsellino dopo la morte risulta che la maggior parte riguardava indagini su appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione di febbraio». Lo ha detto Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, durante un’audizione davanti alla Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e
sulle altre associazioni criminali nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Nel suo intervento ha ripercorso le tappe dell’attività svolta al Ros. «Il 20 febbraio 1991 consegnai al dottor Falcone, quale procuratore aggiunto di Palermo, un’annotazione a firma del colonnello Mario Mori conosciuta poi come “Mafia e Appalti”, composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini – ha spiegato -. Il documento costituiva il compendio di tutta l’attività investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento. In precedenza, poiché più volte siamo stati accusati di aver omesso nell’informativa di febbraio ’91 tutta la parte politica che ne era venuta fuori, nel quadro di queste indagini avevo consegnato al dottor Falcone, a Guido Loforte e Giuseppe Pignatone, una serie di annotazioni preliminari, due delle quali il 2 luglio e il 5 agosto del 90, in cui si delineavano i rapporti relativi a responsabilità di personaggi politici nazionali e regionali in merito. Chiedevamo di poter svolgere approfondimenti ed è il motivo per cui nel documento non erano citati parti politiche. Non ricevemmo mai una delega da parte della procura di Palermo». GdS 16.5.2924

 


 

DE DONNO GIUSEPPE 

 

MORI MARIO

 


 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e dei testimoni

 

 

Processo Trattativa, famiglia Borsellino: “Ora concentrarsi sul nido di vipere…”

 

PAOLO BORSELLINO in COMMISSIONE ANTIMAFIA

 

Il Rapporto “Mafia&Appalti” e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino