Domenica scorsa su «la Lettura» del «Corriere della Sera» Armando Torno ha proposto una riflessione il cui titolo affermava: «La fine del peccato». La prima reazione che ho avuto è che una notizia come questa celasse una vera e propria tragedia. Purtroppo non sono finiti i peccati, ma quel che sembra estinguersi è la coscienza del peccato. Per questo ho sentito l’urgenza di una mia, seppure limitata, riflessione.
A volte non siamo consapevoli delle conseguenze drammatiche di situazioni che possono sembrarci normali. In verità, se si cancella la coscienza del peccato, si aboliscono i confini di bene e male. E non avremmo, per fare un esempio, quell’indimenticabile grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro i mafiosi che dovranno rispondere a Dio del «peccato di mafia» (e, si badi bene, non è questione solo di legalità o illegalità!). Il peccato rimanda sempre al rapporto con Dio. Non si tratta infatti dell’infrazione a una legge, ma di una ferita – grave o meno grave – al disegno della creazione.
Il peccato è una questione d’amore e obbedienza. È emblematico quello di Adamo ed Eva, che non a caso chiamiamo «originale». Il «peccato della mela» non riguarda la sessualità come spesso si pensa, ma è l’orgoglio dell’«io» umano che vuole mettersi al posto di Dio. I due progenitori si lasciano incantare dalle suggestioni del serpente di turno e disobbediscono all’Altissimo e al suo disegno d’amore. L’agiografo biblico ne descrive le drammatiche conseguenze: Adamo ed Eva si ritrovano nudi, ossia senza più la compagnia di Dio, senza più la fiducia tra loro, senza più l’armonia con il creato. Insomma, il peccato è una cosa davvero seria. E vale la pena rifletterci anche nel cuore
Credo sia importante ripartire dal Primo Comandamento, ossia il primato di Dio nella nostra vita. L’insidia più grave che vedo e della quale si ha poca consapevolezza, è il nuovo primato dell’«io», un egoismo strisciante ma onnipresente che sta avvelenando e sgretolando il «noi» della famiglia, della società e dei popoli e persino della medesima comunità ecclesiale. In questo senso è anche comprensibile il giusto scandalo che provocano tutti quei peccati che attentano al vivere comunitario. Ho già accennato al peccato di mafia, possiamo ricordare lo scandalo – purtroppo non denunciato con vigore – dell’oppressione dei più deboli in un mondo dove i poveri sono in aumento; inoltre i peccati contro la pace, che alimentano le guerre. Alcuni vescovi hanno ricordato che l’evasione delle tasse è peccato, perché è un ladrocinio contro i più bisognosi. E in un tempo di crisi è una grave omissione non sentire la responsabilità di impegnarsi per il bene di tutti, ripiegandosi a difendere solo il proprio. Finalmente ci si è accorti che il non rispetto della natura pregiudica la vita delle generazioni future e anche di molte presenti (l’inquinamento che causa malattie, la mancanza di acqua potabile per una parte della popolazione mondiale, eccetera). Ma attenzione! Non dovrebbe crescere di più la preoccupazione anche per l’inquinamento morale, per l’asfissia di orizzonti solidali, per la facilità con cui viene soppressa la vita al suo inizio e alla sua fine? E quante volte viene umiliata durante il suo corso? L’elenco potrebbe continuare e dovrebbe quindi essere chiaro che il peccato è sempre un’azione contro Dio, contro gli altri e contro se stessi.
Nel Credo noi affermiamo la «remissione dei peccati». Gesù li ha «presi su di sé», ovvero ha tolto il peso del peccato dalle nostre spalle: è questo quanto accade nella confessione. Anche se oggi tale sacramento è disatteso, complice a volte anche il managerismo pastorale di non pochi preti, resta tuttavia un’ancora straordinaria di salvezza. In una società ove il perdono è sempre più raro, la concretezza di un incontro in confessione mostra la realtà del perdono; inoltre insegna all’uomo che la debolezza non è una condanna senza appello e che è possibile gettare la maschera, quella che è indossata ogni giorno per difendersi. Ammettere le proprie debolezze è anche un grande atto di coraggio. Mi ha fatto sempre pensare quell’affermazione di Gesù: non sono venuto per chiamare i giusti ma i peccatori (Marco 2,17). Lo ha detto contro il bigottismo dei benpensanti e l’autosufficienza degli orgogliosi. Siamo tutti deboli. Tutti bisognosi di perdono.
Il confine tra bene e male è stabilito dall’amore. È in questa prospettiva che si può comprendere l’affermazione di Gesù rivolta alla peccatrice, «le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato» (Luca 7,47). Il cristianesimo ha sfidato e sfida il peccato con l’amore. Dove esso manca, prosperano i segni di divisione e di conflitto che rendono la società più amara e violenta. I peccati del futuro nasceranno da qui: si diventa complici della lacerazione della società di domani. Dostoevskij ha notato che «se non ci fosse Dio, tutto sarebbe permesso». In questa sua osservazione c’è la perfetta diagnosi del peccato di oggi, di una società che ha perso il senso di Dio e quindi non riconosce più il bene e il male. Non è un caso che Benedetto XVI, consapevole di questa drammatica situazione, abbia voluto scrivere la sua prima enciclica riproponendo agli uomini il primato di Dio come amore.
Mons.Vincenzo Paglia
14 agosto 2012
Vincenzo Paglia è presidente del Pontificio consiglio della famiglia, vescovo emerito di Terni, consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio