Dalla Sicilia la «lezione» di Campofranco

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di Lionello Mancini

La crisi economica, sociale, politica, istituzionale e morale che deprime il Paese evidenzia paradossi e contraddizioni di cui i cittadini sono vittima. In parte anche per il male che si fanno da soli, quando per esempio votano personaggi inadeguati o disonesti, se non loschi e pericolosi.
Autolesionismo puro, visto che, come osserva acutamente un inquirente, «non si ha notizia di denunce di elettori coartati armi in pugno»: più banalmente si assiste a scambi di convenienze tra i voti che portano sugli scranni persone che possono così dispensare prebende, inventare posti di lavoro, ricambiare favori.
In questo clima da fine impero, in cui continuano a sguazzare chissà quanti “Batman” ancora ignoti, lo spettacolo è quello noto: partiti che contrastano allo spasimo una debole normativa anticorruzione; importanti amministrazioni sciolte per contiguità alle cosche, mentre altre si scoprono direttamente votate dalla ‘ndrangheta; le liste elettorali con pregiudicato incorporato, voti unanimi per moltiplicare gli euro da rapinarci.
Ma è in questo medesimo clima che ci accompagna verso passaggi impervi – regionali, politiche, Quirinale – che la Giunta comunale di Campofranco (Caltanissetta) decide di adottare il “Codice antimafia e anticorruzione della Pa, c.d. Codice Vigna”. Con la deliberazione n. 78 del 16 ottobre, sindaco, vicesindaco e i tre assessori eletti dai 3.213 abitanti del Comune nisseno, hanno sentito il bisogno di ancorarsi al decalogo che il magistrato, morto giusto un mese fa, aveva stilato per la Regione Sicilia.
 

Con questa scelta, il Municipio si impegna tra l’altro ad avviare «percorsi formativi per prevenire le infiltrazioni di tipo mafioso»; a «stipulare convenzioni con realtà associative antimafia, al fine di istituire delle strutture per la formazione obbligatoria e continuativa del proprio personale operante nei settori strategici quali appalti, urbanistica ed edilizia»; ad attuare una rotazione del personale addetto ai «settori più esposti al rischio mafioso», ad apporre rilevatori di entrata e uscita dal Comune, mentre gli amministratori si impegnano ad «astenersi» da quelle «decisioni o attività che possano coinvolgere, direttamente o indirettamente, interessi propri o dei loro parenti entro il quarto grado e affini entro il terzo o persone con loro conviventi». Non sarà facile, in un microcosmo di poche centinaia di persone.
Obiettivi precisi, semplici da definire anche se un po’ meno da attuare, specie in una Sicilia in cui, ha chiosato di recente il presidente della Camera, Gianfranco Fini, «per aprire un chiosco serve un certificato antimafia, per candidarsi no». E infatti, nelle liste isolane si contano contano 32 tra candidati indagati o condannati.
Quello di Campofranco è un caso minuscolo di rafforzamento degli argini della legalità, apparentemente marginale, ma dimostra come realtà altrettanto piccole e ovunque si trovino potrebbero curare con la dovuta attenzione gli interessi dei cittadini e la salute delle imprese locali, messe così in grado di operare in trasparenza e sicurezza.
Certo, gli esempi dall’alto, dai vertici, dai “grandi”, non sono un granché. Ma Campofranco è l’ennesimo esempio di una regola semplice: ciò che si può, si deve fare. E in fretta.
 
Sole 24 Ore
 

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