Privati in aiuto per far marciare rating e white list

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 di Lionello Mancini

di Lionello Mancini

Alla fine di marzo 2013 viene da chiedersi se non si possa fare di più e meglio per favorire la permanenza delle imprese nell’area della legalità. Anche perché si moltiplicano i motivi che le sospingono fuori: la crisi, innanzitutto, ma anche leggi complicate, burocrazia-trabocchetto, fisco insostenibile, mancati pagamenti pubblici, credit crunch. A fronte di questo gravissimo contesto, si sono avuti negli anni alcuni encomiabili tentativi di selezionare il mondo produttivo in base alla correttezza dei soggetti che vi operano. Non è andata benissimo.

Di white list, per dire, si parla dal 2009, per la ricostruzione in Abruzzo. Ma oggi, in Emilia, circa 2.200 imprese hanno fatto richiesta di entrare nelle white liste e quelle ammesse sono una 50ina (16 a Modena, Prefettura dell’epicentro). La possibilità di attribuire un rating di legalità è stato invece lanciato da Confindustria nel gennaio 2012. La risposta dello Stato? Una 50ina di domande sotto esame, zero assegnazioni di stellette (il mese prossimo, forse…) e due decreti ministeriali ancora da emanare. Tutto normale – verrebbe da dire – per un Paese messo come il nostro che però, è meglio ripeterlo, soffre un tasso d’illegalità soffocante e – soprattutto – solo in Italia, dentro quest’acquitrino è in perenne agguato la criminalità organizzata. Ecco perché potrebbe essere il momento di dare un impulso alle pratiche virtuose faticosamente impostate dal legislatore e dalla burocrazia. Come? Con il contributo di sussidiarietà da parte del privato, un apporto sempre invocato, ma nella realtà osteggiato e infine attuato alla sans façon, perché la verità è che tra Stato e cittadini corre una profonda, reciproca diffidenza.

Prima che lo Stato cominciasse a mettere i suoi (indispensabili) timbri sulle certificazioni di legalità, una serie di persone illuminate, di realtà industriali e associative avevano preso l’iniziativa, modificando governance, statuti e codici etici; avevano studiato, proposto e sottoscritto protocolli con le istituzioni; deciso di investire in legalità esattamente come in sicurezza sul lavoro, in innovazione, in sostenibilità ambientale. Quando lo Stato ha preso (giustamente) in mano la questione, i suoi ritardi e le sue carenze operative hanno di fatto bloccato tutto. E allora, perché non far precedere o affiancare alle verifiche degli organi statali e alle certificazioni pubbliche, un’asseverazione privata che attesti l’esistenza, la pratica e l’aggiornamento degli standard richiesti a ottenere il rating o entrare nelle white list? Un’asseverazione non si acquista, ma arriva dopo una batteria di verifiche. Se vale per processi e prodotti, per la 231, persino per la qualità delle saldature, perché non utilizzare il metodo per garantire che un’azienda sappia badare a se stessa e ai suoi clienti?

Senza nulla sottrarre a Polizia, Carabinieri e Prefetture, ovviamente. Perché non si tratta, oggi, di attribuire colpe e responsabilità in modo indiscriminato, ma di proporre soluzioni che favoriscano una selezione indispensabile a un Paese per essere moderno e competitivo. L’idea già circola. È semplice: Si tratta di convincere la burocrazia a cedere un po’ della sua legnosa sovranità, per far sì che le cose comincino a funzionare.

Sole 24 Ore 8.4.2013

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