di Lionello Mancini
di Lionello Mancini
di Lionello Mancini
La gestione dei beni sequestrati ai delinquenti (mafiosi e non) pone sempre nuovi problemi. Saremmo tentati di descrivere puntigliosamente cosa è riuscita a combinare, persino in questo campo – su cui, malavitosi a parte, sono tutti d’accordo – la politica-marketing di cui abbiamo ormai ventennale esperienza. Ci limitiamo qui a ricordare che nel 2010, dopo anni e anni di ignavia, il Governo riunito nella Prefettura di Reggio Calabria partorì con grande clamore l’Agenzia per i beni sequestrati, con sede nella città, con un organico inesistente e una misera dotazione di fondi. Nel giro di qualche mese la struttura è stata travolta dalla valanga di beni assegnatele, dalle norme confuse e contraddittorie, fino al blocco sostanziale delle attività di gestione e assegnazione.
Si arriva così all’usuale stadio delle italiche cose, quello vituperato in cui la magistratura si fa carico delle soluzioni attraverso la prassi giurisprudenziale e – meritoriamente – anche promuovendo e garantendo iniziative che spetterebbero al legislatore, dell’amministrazione o della società civile.
Uno degli ultimi esempi viene dal tribunale di Roma, che ha allestito e “coordinerà il tavolo tecnico-istituzionale per la gestione di beni sequestrati e confiscati, in collaborazione con gli Enti/organismi sottoscrittori” che hanno aderito al protocollo. Siglato il 10 marzo, il documento ha raccolto la firma di Regione, Comune, Unindustria, Confcommercio e Abi. A breve si aggiungeranno sindacati, Camera di commercio e Confagricoltura. Tutti si sono impegnati a collaborare secondo le rispettive competenze e professionalità perché i beni sequestrati (immobili, aziende, terreni, negozi, terreni, impianti vari) non vadano in malora nell’attesa della confisca. Il punto affrontato dal protocollo è proprio questo: è insensato e controproducente che la ricchezza sottratta al malaffare vada sprecata, si ammalori, chiuda i battenti, licenzi. Se ne esistono le condizioni, questi beni devono diventare la dimostrazione pratica di quanto convenga a tutti che stiano in mani pulite ed efficienti anziché in quelle improvvisate e lorde dei boss. Perché ciò sia possibile, occorre che le banche non chiudano automaticamente i rubinetti quando gli amministratori giudiziari subentrano ai mafiosi (impegno assunto dall’Abi), che analisti specializzati procedano velocemente alla valutazione del bene (impegno Unindustria), che manager esperti affianchino i professionisti nominati dal giudice, che gli enti pubblici semplifichino procedure e si attivino per reperire fondi europei.
Insomma, in questa maledizione che contraddistingue il nostro Paese – una deprimente propensione a lasciar marcire le proprie ricchezze e sprecare enormi potenzialità – le toghe si sono ancora una volta dovute sostituire ai confusi e confusionari inquilini dei Palazzi della Politica, mettendo intorno al tavolo tutti quelli che devono necessariamente interagire e allearsi per recuperare alla collettività la ricchezza strappata ai criminali.
Quello di Roma non è il primo tavolo attivato a questo scopo. L’esperienza nasce a Milano, a quella di Roma vi si è ispirata, adattandola alla Capitale. Intanto il circuito giudiziario ha già diffuso questo nuovo passo avanti perché possa essere utilizzato anche a Palermo, a Napoli, a Reggio Calabria a Trapani o a Torino.
C’è stato bisogno di commissioni governative o parlamentari per arrivare a questi risultati? No. Di stanziare risorse sottraendole altrove? No. Si sono create costose poltrone e decreti legge inapplicabili? No. Le cooperative giovanili che coltivano i terreni sottratti alle cosche sono un’idea pregevole dal forte sapore etico; ma un buon manager competente e qualificato messo a gestire un’azienda salvabile, che sappia trattare con banche e fornitori, è una garanzia di efficienza ineguagliabile. Per fortuna ci hanno pensato giudici e manager.
17.3.2014 Sole 24 Ore