Nuovo allarme dalla «banca delle ‘ndrine»

Mncini200

 

Di Lionello Mancini

 

di Lionello Mancini

Martedì 4 marzo è stata una giornataccia per le mafie. Una retata partita da Milano – una trentina di arresti con epicentro in Brianza – ha bruscamente interrotto l’attività della “banca della ‘ndrangheta”; nelle stesse ore a Roma finivano in manette 16 malviventi aderenti o vicini al clan Fasciani. Entrambe le operazioni sono state accompagnate dall’immediato sequestro di beni, immobili, quote societarie, aziende. Queste due azioni di repressione sottolineano elementi già noti sulla presenza mafiosa nel Paese, ma offrono anche spunti inediti di riflessione.

Gli elementi conosciuti sono, innanzitutto, il ruolo ambiguo di alcune figure di operatori economici. Certo: mele marce e soggetti marginali, ma questa realtà non può esimere l’intera categoria da una generale assunzione di responsabilità. Perché è bene ricordare che i boss sono interessati al “capitale sociale” insito nel ruolo stesso dell’imprenditore, con la sua rete di rapporti, il nome rispettabile da spendere, gli ambienti in cui è introdotto. Non importa se la persona collusa o acquiescente è una piccola figura, il suo fatturato modesto e l’attività non particolarmente sofisticata, perché chi fa impresa può far girare assegni, intestarsi beni, ritirare contante, mettere timbri regolari. Già noti alle cronache anche il codice del silenzio da parte di taglieggiati e usurati, la sicura erosione delle società, le pretese estorsive sostenute da minacce e violenze, il riciclaggio di denaro sporco proveniente dalle regioni-culla per essere ripulito al Nord.

Ci sono, poi, alcuni spunti meno studiati che dovrebbero far squillare cento allarmi. Per esempio, non sfuggono ai criminali (che ne approfittano) alcune criticità antiriciclaggio degli sportelli postali; alle sporte di contanti vengono affiancati conti e società off shore, oltre a complicate architetture per occultare i possessori dei beni e l’utilizzo delle crepe degli scudi fiscali. Ancora: le banche avare di prestiti e lo Stato che non paga i debiti inducono l’immediato moltiplicarsi dell’offerta di denaro a usura; addirittura, la mafia del Lazio ha utilizzato la recentissima normativa sulla cessione dei rami d’azienda, varata dal Governo Monti.

Questi elementi offerti dalle carte processuali dovrebbero far scattare allarmi effettivi. Ma così non accade o accade raramente. Non serve a nulla l’antimafia mediatica, come quella delle “lenzuolate” di buoni propositi stilate in replica alle osservazioni dello scrittore Saviano, se poi nelle stesse stanze vengono varate le ennesime commissioni-doppione, vengono lanciati nell’arena nomi di possibili ministri scelti strizzando l’occhio al gradimento del pubblico, se il faro delle politiche di contrasto è la tuttologia errabonda della commissione Antimafia, mentre si lascia via libera a parlamentari e sottosegretari chiamati a difendersi nelle aule di tribunale, mentre si cancella l’Authority anticorruzione e mentre si lascia annegare nel nulla l’Agenzia per i beni sequestrati. I criminali sanno essere veloci, si aggiornano, mentre la politica s’ingarbuglia e vive di riti. Ma così la mafia resterà ancora a lungo in vantaggio, inseguita – come sempre, ma soltanto – da microspie, processi, sentenze.

 

Sole 24 Ore 10.3.14

Editoriali precedenti